CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 marzo 2018, n. 5720
Nullità del termine – Esigenze tecniche, organizzative e produttive – Rapporto risolto per mutuo consenso – Ipotesi di eccezione riconvenzionale – Fatto dedotto dal convenuto diretto a provocare il mero rigetto della domanda avversaria – Domanda riconvenzionale preclusa in sede di gravame – Distinzione tra domanda ed eccezione riconvenzionale dipende dal risultato processuale che il convenuto intenda con essa ottenere
Fatti di causa
Con sentenza in data 26 giugno 2012, la Corte d’appello di Roma rigettava le domande proposte da D.D.G. nei confronti di P.I. s.p.a. di nullità del termine apposto al contratto stipulato tra le parti, ai sensi dell’art. 1 d.lg. 368/2001 per esigenze tecniche organizzative e produttive anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione e all’attuazione delle previsioni degli accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio 2002, per il periodo dal 1° febbraio al 30 aprile 2002, di accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato dalla data di stipulazione e di condanne ripristinatoria e risarcitoria: così riformando la sentenza di primo grado, che invece le aveva accolte, ad eccezione di quella di condanna risarcitoria (che aveva giustificato l’interposizione dal lavoratore di appello incidentale).
A motivo della decisione, la Corte territoriale riteneva la risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso, per la ricorrenza di elementi sintomatici di una volontà abdicativa del lavoratore nella sua inerzia per oltre quattro anni dalla data di cessazione del rapporto (dal 30 aprile 2002) al ricorso introduttivo del giudizio (il 19 / giugno 2006, notificato alla società il 5 luglio 2006: non potendo attribuirsi alla richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione, in data 28 settembre 2004, natura di atto di costituzione in mora), nella documentata (ed ammessa dal medesimo D.G. in sede di libero interrogatorio) prestazione di lavoro a termine per il Comune di Sant’Angelo in Pesco ed altri (pressocchè ininterrotta già dall’anno 2002 all’anno 2007) valutata congiuntamente all’entità dei documentati redditi percepiti.
Avverso tale sentenza il lavoratore proponeva, con atto notificato il 21 (27) giugno 2013, ricorso per cassazione con quattro motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui resisteva P.I. s.p.a. con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 100, 101, 112, 418 c.p.c., in relazione agli artt. 24 e 111 Cost., anche sotto il profilo dell’error in procedendo, per omesso rilievo d’ufficio dell’inammissibilità della deduzione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso, in quanto non qualificabile alla stregua di eccezione in senso stretto, ma (siccome espressione di un autonomo e distinto petitum) di domanda riconvenzionale, proposta senza il rispetto della disciplina stabilita dall’art. 418 c.p.c. e pertanto con maturazione della relativa decadenza; comunque in violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa della lavoratrice, comportante nullità della sentenza.
2. Con il secondo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 434, 437, anche in relazione all’art. 342 c.p.c., dell’art. 112 c.p.c., in relazione agli artt. 416, 418, 434, 436, 437 c.p.c., anche sotto il profilo dell’error in procedendo e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, per vizio di ultrapetizione della sentenza per avere pronunciato, con relativa nullità della stessa (e pure analogamente di quella di primo grado, non rilevata dalla Corte d’appello), sulla risoluzione per mutuo consenso (non già del contratto a termine cessato, ma) del rapporto (eventualmente convertito a tempo indeterminato, per effetto dell’accertamento preliminare di nullità del contratto a tempo determinato, invece omesso), in mancanza di una domanda riconvenzionale ritualmente proposta: per tale dovendo essere qualificata la deduzione datoriale e non eccezione riconvenzionale, siccome non volta alla mera elisione degli effetti della pretesa attorea in virtù del suo rigetto, ma introduttiva di una causa autonoma e successiva di risoluzione del rapporto (costituitosi a tempo indeterminato per effetto della nullità del contratto a termine), attributiva di beni determinati (mancata costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, inesistenza di obblighi retributivi, previdenziali, risarcitori, di riconoscimento di anzianità) in contrapposizione a quelli richiesti con la domanda principale di nullità del termine del contratto a tempo determinato con le relative conseguenze suddette.
3. Con il terzo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1421, 1422, 2697 e 2729 c.c., 115, 116 c.p.c., 1362 ss. c.c., per inidoneità, attesa l’imprescrittibilità dell’azione di nullità parziale del contratto a termine, dell’elemento temporale di per sé solo (nel caso di specie, l’intervallo essendo non già ultraquadriennale, ma inferiore a due anni e mezzo, per non corretta interpretazione dalla Corte territoriale, quale atto costitutivo in mora, della richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione, con lettera inviata il 23 settembre 2004 e ricevuta il 28 settembre 2004) a costituire indice di una chiara e certa volontà della parte lavoratrice di definitiva cessazione del rapporto lavorativo convertito a tempo indeterminato: neppure potendosi ravvisare significativi elementi in tale senso nella continuativa prestazione di attività lavorativa alle dipendenze di enti locali e pubbliche amministrazioni (sempre con contratti a tempo determinato, come noto non convertibili nel pubblico impiego a tempo indeterminato), considerata anche la deterrenza della circolare di P.I. s.p.a. del 1999 (di esclusione di assunzioni a termine di lavoratori in contenzioso con essa), con erroneo ragionamento presuntivo della Corte territoriale, in contrasto con il rispetto dell’onere probatorio datoriale, non assolto.
4. Con il quarto, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2113 c.c. e 411 c.p.c., per la ritenuta possibilità, attraverso la risoluzione per mutuo consenso, di una tacita rinuncia a un diritto, quale la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, nell’inosservanza delle formalità previste dalla legge.
5. I primi due motivi (rispettivamente relativi a violazione e falsa applicazione: degli artt. 100, 101, 112, 418 c.p.c., in relazione agli artt. 24 e 111 Cost., anche sotto il profilo dell’error in procedendo, per omesso rilievo d’ufficio dell’inammissibilità della deduzione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso; degli artt. 434, 437, anche in relazione all’art. 342 c.p.c., dell’art. 112 c.p.c., in relazione agli artt. 416, 418, 434, 436, 437 c.p.c.; entrambi anche sotto il profilo dell’error in procedendo e a contraddittoria motivazione, per vizio di ultrapetizione della pronuncia di risoluzione per mutuo consenso in mancanza di una domanda riconvenzionale ritualmente proposta) possono essere congiuntamente esaminati, per ragioni di stretta connessione.
5.1. Essi sono infondati.
5.2. In proposito, occorre osservare che ricorre l’ipotesi di eccezione riconvenzionale, allorquando il fatto dedotto dal convenuto sia diretto a provocare il mero rigetto della domanda avversaria; integra invece una vera e propria domanda riconvenzionale, preclusa in sede di gravame, l’istanza con la quale venga chiesto, oltre al rigetto dell’altrui pretesa, l’ulteriore declaratoria di tutte le conseguenze giuridiche connesse all’invocato mutamento della situazione precedente (Cass. 13 giugno 2013, n. 14852, in affermazione di principio ai sensi dell’art. 360 bis n. 1 c.p.c.). Ed ancora, che la distinzione tra domanda ed eccezione riconvenzionale non dipende dal titolo posto a base della difesa del convenuto (ossia dal fatto o dal rapporto giuridico invocato a suo fondamento), ma dal relativo oggetto, vale a dire dal risultato processuale che lo stesso intenda con essa ottenere, limitato nel secondo caso al rigetto della domanda proposta dall’attore: sicché, non sussistono limiti al possibile ampliamento del tema della controversia da parte del convenuto a mezzo di eccezioni, purché a loro fondamento siano allegati fatti o rapporti giuridici prospettati come idonei a determinare l’estinzione o la modificazione dei diritti fatti valere dall’attore ed in base ai quali si chieda la reiezione delle domande da questo proposte e non una pronunzia di accoglimento di ulteriori e diverse domande (Cass. 25 ottobre 2016, n. 21472).
5.3. In tema di contratto di lavoro a tempo determinato, giova ribadire come la deduzione, da parte del datore di lavoro convenuto per l’accertamento della conversione del rapporto a tempo indeterminato per l’illegittima apposizione del termine, che il rapporto si è risolto per mutuo consenso non integri una domanda riconvenzionale, in quanto non finalizzata ad ottenere un provvedimento positivo, sfavorevole al lavoratore, ma semplicemente il rigetto della sua domanda (Cass. 4 agosto 2015, n. 16339, con richiami di precedenti in motivazione; Cass. 21 aprile 2017, n. 20291).
5.4. E allora, per riprendere le espressioni della ricorrente, non sussiste alcuna autonoma richiesta di attribuzione di beni determinati (petitum) diversa ed ulteriore rispetto a quella formulata con la domanda principale di nullità del termine del contratto a tempo determinato con le relative conseguenze ripristinatone del rapporto e risarcitorie, ma una dialettica contrapposizione ad essa negativa, appunto nel senso della sua reiezione: e pertanto di mancata costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, di inesistenza di obblighi retributivi, previdenziali, risarcitori, di riconoscimento di anzianità.
5.5. Sicché, non si configurano le violazioni denunciate, avendo la Corte territoriale correttamente pronunciato, in base ad un’eccezione di risoluzione per mutuo consenso del rapporto, disattesa dal Tribunale e invece accolta in appello su specifico motivo: al di là di ogni disputa, qui irrilevante, sulla natura di una tale eccezione, se tale in senso stretto (Cass. 7 maggio 2009 n. 10526; Cass. 29 marzo 1982 n. 1939) ovvero in senso lato, in quanto rappresentante “un fatto oggettivamente estintivo dei diritti nascenti dal contratto, che può essere accertato d’ufficio” (Cass. 6 agosto 1997 n. 7270; Cass. 22 novembre 2006 n. 24802; Cass. 24 maggio 2007 n. 12075; Cass. 20 giugno 2012 n. 10201; Cass. 17 marzo 2014 n. 6125).
6. Il terzo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1421, 1422, 2697, 2729 c.c., 115, 116 c.p.c., 1362 ss. c.c. per erronea individuazione di una volontà della parte lavoratrice di definitiva cessazione del rapporto lavorativo nell’elemento temporale combinato con la prestazione di attività lavorativa alle dipendenze di terzi) può essere congiuntamente esaminato con il quarto (violazione e falsa applicazione degli artt. 2113 c.c. e 411 c.p.c. per ritenuta possibilità, attraverso la risoluzione per mutuo consenso, di una tacita rinuncia al diritto alla conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato), per ragioni di stretta connessione.
6.1. Anch’essi sono infondati.
6.2. Premesso che l’art. 1372, primo comma c.c. stabilisce che il contratto può essere sciolto per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge e che questa Corte ha costantemente affermato che il mutuo consenso sullo scioglimento del rapporto deve essere espresso, oppure, salvo che non sia richiesta la forma scritta ad substantiam, essere desumibile da comportamenti concludenti (Cass. 26 ottobre 2015, n. 21764; Cass. 15264 del 2006), la mancata impugnazione, nel caso dei contratti a tempo determinato, della clausola che fissa il termine viene considerata indicativa della volontà di estinguere il rapporto di lavoro tra le parti a condizione che la durata di tale comportamento omissivo sia particolarmente rilevante e che concorra con altri elementi convergenti ad indicare, in modo univoco ed inequivoco, la volontà di estinguere ogni rapporto di lavoro tra le parti; e il relativo giudizio attiene al merito della controversia (Cass. s.u. 27 ottobre 2016, n. 21691, p.ti 56, 57).
6.3. Sicché, l’apprezzamento in ordine all’idoneità degli elementi presuntivi a consentire inferenze nel senso detto rientra nei compiti affidati al giudice del fatto, senza che il convincimento da questi espresso in relazione al complesso degli indizi, soggetti ad una valutazione globale e non singolare di ciascuno, possa essere suscettibile di un diverso o rinnovato apprezzamento in sede di legittimità (Cass. 4 agosto 2011, n. 16932 con affermazione del principio ai sensi dell’art. 360 bis, n. 1 c.p.c.; Cass. 13 febbraio 2015, n. 2906; Cass. 21 aprile 2017, n. 20291), qualora, come appunto nel caso di specie (per le ragioni esposte dal terzultimo capoverso di pg. 3 al primo di pg. 4 della sentenza) non sussistano vizi logici o errori di diritto; tenuto pure conto, in riferimento al valore giuridico (“non di valido atto di messa in mora, considerato che la richiesta non contiene alcuna espressione che consenta di individuare la concreta messa a disposizione delle Poste delle energie lavorative da parte del D.G.”: così al penultimo capoverso di pg. 3 della sentenza) attribuito alla richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione, che l’accertamento di tale requisito oggettivo costituisce indagine di fatto riservata all’apprezzamento del giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità se immune da vizi logici (Cass. 3 dicembre 2004, n. 22751; Cass. 16 marzo 2009, n. 6336).
7. Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna D.D.G. alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
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