Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 10416 depositata il 7 marzo 2018
DICHIARAZIONE INFEDELE – CONDOTTE ELUSIVE – NON SUSSISTE
RITENUTO IN FATTO
1. Con decreto dell’8.11.2016, il GIP del Tribunale di Monza disponeva il sequestro preventivo, partitamente: a) fino alla somma di euro 2.319.259,95, in relazione ai reati di cui agli artt. 3 e 2 d.lgs. 74/2000 (capi A e B), direttamente nei confronti della società controllata G.H. s.r.l., ovvero, per equivalente, nei confronti della controllante F. s.r.l. e dei soci/amministratori in persona di tutti gli odierni ricorrenti; b) fino alla somma di euro 1.021.586,23, in relazione al reato di cui all’art. 4 d.lgs. 74/2000 (capo C), direttamente nei confronti della società F. s.r.l., ovvero, per equivalente, nei confronti degli indagati M. e C., in qualità di soci/amministratori della prima. Venivano al contempo rigettate le analoghe richieste di sequestro preventivo formulate dal Pubblico Ministero, i) relativamente all’annualità 2007, pure contemplata al capo A, in quanto prescritta, e ii) relativamente al capo D (ovvero ad una ulteriore ipotesi delittuosa ex art. 4 d.lgs. 74/2000, imputata al solo C.).
Segnatamente, il GIP richiamava gli esiti delle varie c.n.r. trasmesse dalla Guardia di Finanza di Viareggio, aventi ad oggetto le verifiche tributarie effettuate – per il periodo ottobre 2007/gennaio 2014 – sulla società controllante F. s.r.l. (di seguito, per brevità, F. s.r.l.) e sulla controllata (in via totalitaria) G.H. s.r.l. (nel prosieguo G.H. s.r.l.), entrambe con sede legale, all’epoca dei fatti che qui interessano, in Monza.
2. Avverso il citato provvedimento propose istanza di riesame la difesa dei tre indagati, attraverso plurimi motivi di censura e il gravame fu ritenuto parzialmente fondato, in relazione ai capi di incolpazione relativi agli addebiti ex artt. 2 e 4 d.lgs. 74/2000, e rigettato nel resto. Il Tribunale di Monza, con ordinanza del 9/12/2016, emendando un errore materiale del primo giudice in sede di calcolo, riquantificò l’imposta in euro 2.235.295,00, pari all’IVA sottratta a tassazione in seno a G.H. s.r.l., mediante decurtazione dal totale indicato dal GIP del quantum relativo all’anno 2007 (ormai prescritto).
3. Con la sentenza 37167/17 del 31/5/2017, tuttavia, la Terza Sezione Penale di questa Corte di Cassazione, adita dalle difese, ebbe ad annullare il provvedimento del Tribunale nella parte relativa alla conferma della misura reale, rinviando al giudice del merito per una nuova valutazione in ordine all’incidenza dell’annullamento degli avvisi di accertamento da parte del giudice tributano sull’imposta evasa nell’ambito del procedimento penale, nonché in ordine al carattere fraudolento delle operazioni realizzate tra le due società.
Pronunciando su tali aspetti, il Tribunale del Riesame di Monza, quale giudice di rinvio, con ordinanza del 13/9/2017, ha poi confermato il provvedimento impugnato, nella parte relativa al reato di cui all’art. 3 D.lgs. 74/2000, rideterminando l’entità del profitto sequestrabile, direttamente sui conti correnti e comunque sulle disponibilità di provviste di denaro nella titolarità della società G.H. s.r.l., nonché sui beni, denari ovvero altre utilità facenti capo alla società F. s.r.l. e ai soci/amministratori B.R., M.G. e C.E. in euro 1.835.295,00; e ha condannato i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
4. Ricorrono nuovamente M.G., B.R. e C.E. a mezzo del comune difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.:
a. Violazione dell’art. 627 comma 3 cod. proc. pen. Mancanza della motivazione con riguardo all’esigenza di valutare l’incidenza della decisione dei giudici tributari che hanno escluso la sussistenza della pretesa fiscale.
Il difensore ricorrente ricorda che, come discende da consolidata giurisprudenza di legittimità, la Corte di cassazione risolve una questione di diritto anche quando giudica sull’adempimento del dovere di motivare, cosicché il giudice del rinvio è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema implicitamente o esplicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, restando in tal modo vincolato ad una determinata valutazione delle risultanze processuali ovvero al compimento di una particolare valutazione o indagine in precedenza omesse determinanti ai fini della decisione, o ancora all’esame non effettuato di specifiche Istanze difensive incidenti sul giudizio conclusivo.
In questa prospettiva, viene evidenziato che, una volta che Terza Sezione Penale di questa Corte aveva censurato la motivazione dell’ordinanza del 9 dicembre 2016, in quanto non era stata valutata l’incidenza della decisione della Commissione Tributaria che aveva ritenuto insussistente l’evasione fiscale derivante dal contratto di affitto, il giudice del rinvio doveva procedere ad un’attenta disamina dei contenuti di detta decisione, ed anzi, anche dei contenuti della seconda decisione di analogo segno depositata all’udienza dell’11 settembre 2017, per decidere sulla legittimità o meno della permanenza della misura cautelare reale. Né poteva il Tribunale escludere la rilevanza di detta pronuncia con riguardo alla fattispecie contestata, dal momento che la pronuncia di legittimità, nel momento in cui aveva imposto la valutazione della decisione tributaria, aveva ovviamente già risolto in senso positivo tale interrogativo.
Del resto, prosegue il ricorso, una sia pure rapida rassegna delle pronunce di questa Corte di legittimità permette di constatare come l’orientamento giurisprudenziale che valorizza l’annullamento della cartella esattoriale da parte della commissione tributaria abbia interessato anche vicende processuali nelle quali si discuteva dell’applicabilità di disposizioni penali tributarie diverse dall’art. 11 d.lgs. 74/2000, come invece parrebbe ritenere il Tribunale di Monza (il richiamo è a Sez. 3 n. 37121/17 e a Sez. 3 n. 19994/17, richiamata anche nella sentenza emessa dalla Terza Sezione Penale nel presente procedimento, ma che ci si duole non essere stata esaminata dai giudici del rinvio). E si trattava di disposizioni nelle quali si fa riferimento all’imposta evasa e non alla pretesa tributaria.
Pertanto, si delinea, ad avviso del ricorrente, anche sotto questo profilo, il vizio della motivazione della decisione impugnata, motivazione del tutto mancante e comunque contrastante con il principio di diritto espresso nella sentenza di annullamento con rinvio.
Sottolinea il ricorrente come la mancata valutazione delle due decisioni della Commissione tributaria rivesta indubbio rilievo, circostanza che ricorda di avere ancora una volta sottolineato dinanzi al giudice del rinvio nei motivi scritti presentati all’udienza dell’11 settembre 2017, dove veniva analizzato il contenuto motivazionale delle pronunce, contenuto che consentiva di verificare come fosse stato ripercorso il problema del contratto d’affitto di azienda alberghiera, dando conto delle ragioni di fondo dell’operazione e dell’evoluzione del corrispettivo nel corso degli anni, per concludere nel senso dell’assenza di un qualsiasi risparmio e/o evasione in base al suddetto contratto di affitto, cosi come di qualsiasi finalità fraudolenta. Infine, sempre nei motivi sottoposti al giudice del rinvio, il difensore ricorrente ricorda di avere osservato come la F. avesse subito una verifica fiscale all’esito della quale non era emerso alcun rilievo di comportamenti elusivi od evasivi, essendosi definito il procedimento con un unico recupero, del tutto estraneo alle contestazioni in parola.
Anche queste considerazioni, supportate dal processo verbale di contraddittorio della Direzione provinciale delle entrate di Monza del 22 dicembre 2015 e dal successivo avviso di accertamento emesso nei confronti di F. – lamenta il ricorrente – non sono state oggetto dell’attenzione dei giudici di rinvio.
b. Violazione dell’art. 627 comma 3 cod. proc. pen. Medesimezza della motivazione con riguardo alla sussistenza del mezzo fraudolento.
Ricordato che certamente il giudice del rinvio può anche confermare la decisione annullata, senza violare l’obbligo di conformarsi di cui all’art. 627 comma 3 cod. proc. pen., purché non ripeta i vizi della motivazione rilevati dalla sentenza di annullamento, il difensore ricorrente lamenta che nel caso che ci occupa il raffronto tra la motivazione su cui si fondava lo prima decisione del Tribunale del riesame di Monza e la motivazione su cui si fonda la seconda decisione oggi impugnata riveli una identità completa dei passaggi motivazionali.
Vengono ricordate le argomentazioni utilizzate nella prima occasione: “il carattere meramente ‘cartolare’ del contratto d’affitto – e, dunque, la fittizietà dei costi sostenuti da G.H. s.r.l. – emerge poi, paradigmaticamente, dalla modalità di corresponsione dei relativi canoni, giacché, la provvista all’uopo occorrente è stata sistematicamente fornita a R., immediatamente prima ovvero appena dopo i pagamenti con un tempismo davvero curioso (…) da F. attraverso finanziamenti infruttiferi, laddove i crediti per tal via generati sono stati di poi oggetto di puntuale rinuncia da parte della stessa controllante”.
In questo modo – sottolinea il ricorrente – il Tribunale individuava la circolarità dell’operazione ed il conseguente ribaltamento di fatto del costo del canone di affitto sulla controllante, colorati tuttavia, da un lato, dallo scivolamento in seno al R. di poste reddituali nella cornice patrimoniale (…), dall’altro, dal dolo di evasione, lumeggiato dalla invariabile rinuncia, da parte di F., non già, a monte e più semplicemente, del canone di affitto (che ne avrebbe impedito la produzione di effetti a fini fiscali) bensì, piuttosto della restituzione, a valle, del finanziamento infruttifero (ad effetti fiscali desiderati già cristallizzatesi)” (pagina 6 ord. 28/16).
Quindi, l’evasione andrebbe individuata sulla base di una ricostruzione economica e non solo giuridica del rapporto contrattuale, F. nella sostanza conclude un atto di liberalità nei confronti di R. relativamente al contratto di affitto. Ed il Tribunale – si ricorda ancora in ricorso – nell’ordinanza poi annullata segnalava altresì come le modalità di incremento e decremento del canone risultassero puntellate da motivazioni di facciata o del tutto generiche, così da rilevare il disegno di “ingegneria fiscale” implementato dagli indagati, con la chiusura in perdita di vari esercizi da parte di R. ed il trasferimento dei ricavi, per essere poi abbattuti con diversi costi, in capo a F.
Questo schema comportamentale realizzato dagli indagati, secondo la prima ordinanza del Tribunale del Riesame di Monza, era contrassegnato dalla fraudolenza di mezzi impiegati dai gestori delle due entità societarie: fraudolenza rivelata nella fattispecie dalla appena descritta mistificazione dei ricavi conseguiti dal R. attraverso il pagamento dei canoni ed il disinvolto adeguamento degli stessi, cui si accompagnava la sistematica rinuncia al credito da finanziamento da parte della controllante.
Ebbene, passando a verificare i contenuti motivazionali dell’ordinanza emessa in sede di giudizio di rinvio, il ricorrente evidenzia come il tribunale del riesame brianzolo segnali l’esigenza di valutare sul piano economico l’operazione ed osservi subito come a rilevare, per dimostrare la sussistenza del reato, sia “non tanto la stipulazione del contratto di locazione ovvero l’obbligo in capo al R. di corrisponderne i canoni, ma, piuttosto il fatto che quell’adempimento avvenga sistematicamente attraverso la creazione della provvista a ciò necessaria con denaro proveniente dallo stesso creditore tramite un finanziamento, poi oggetto di sistematica rinuncia” (p. 5 ord. impugnata).
Questo rilievo, sottolinea il ricorrente, è del tutto identico a quello effettuato nella precedente occasione dai giudici lombardi e conduce alla conclusione per cui G.H. non sopporterebbe alcun effettivo esborso monetario per il godimento dell’immobile; F. non riceverebbe alcun corrispettivo reale, il mutuante, rinunciando alla restituzione della somma erogata, realizzerebbe una liberalità.
Queste considerazioni, che sarebbero ancora una volta identiche a quelle a suo tempo formulate dal Tribunale di Monza, riceverebbero poi conferma dalle variazioni dei canoni di affitto avvenute in assenza di ragioni sostanziali, trattandosi di variazioni solo funzionali all’obiettivo di abbattimento del quantum di imposta dovuto dal G.H. (pagina 6 ord. impugnata).
c. Violazione dell’art. 3 D.Lgs. n. 74/2000 nella parte in cui si ritiene sussistente la natura fraudolenta della condotta.
Il difensore ricorrente lamenta che il Tribunale del Riesame continui a individuare la connotazione fraudolenta della condotta addebitata agli indagati alle caratteristiche delle operazioni intercorse tra le due società per l’affitto dell’azienda. E ricorda di avere già segnalato come la fraudolenza non potrebbe essere ricondotta, come invece fa il Tribunale di Monza, a quello che è stato non correttamente considerato un disinvolto adeguamento degli importi dei canoni di affitto ed alla sistematica rinuncia al credito da finanziamento da parte della controllante F.
Ciò in quanto – prosegue il ricorso – quello che il legislatore richiede ai sensi dell’art. 3 d.lgs. 74/2000 è ben altro: al fine di attribuire particolare capacità ricettiva alla falsificazione contabile, che il ricorrente ricorda essere qui inesistente, per evitare che ne risulti agevole riscontrarne la presenza, si impone la predisposizione di altri documenti falsi o di altre condotte che rendano più difficoltosa la verifica della falsità.
Ebbene, ci si duole che in entrambe le ordinanze non venga operato alcun riferimento a nessuna condotta che possa integrare tali estremi, facendosi invece riferimento alla previsione degli aumenti e delle diminuzioni del canone come pure alla rinuncia al credito, quindi a dati effettivi che sono solamente caratterizzanti le modalità di gestione: del canone locativo senza che possa in alcun modo ritenersi resa più difficile l’individuazione della falsità contabile.
In proposito, dunque, secondo il ricorrente, non potrebbe ritenersi sussistente una reale motivazione, in quanto il Tribunale di Monza si limita apoditticamente ad asserire che tali elementi costituiscono il quid pluris rispetto alla falsa rappresentazione nelle scritture contabili, senza neppure tentare di individuare la capacità decettiva degli stessi.
Chiede pertanto che questa Corte annulli senza rinvio l’ordinanza impugnata, con tutte le conseguenze di legge.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I motivi dianzi illustrati sono fondati, nei limiti che si andranno a specificare, e pertanto l’impugnato provvedimento va annullato con rinvio al Tribunale di Monza per un nuovo esame.
2. Va ricordato che l’art. 325 cod. proc. pen. prevede che contro le ordinanza in materia di riesame di misure cautelari reali il ricorso per cassazione possa essere proposto solo per violazione di legge.
La giurisprudenza di questa Suprema Corte, anche a Sezioni Unite, ha, tuttavia, più volte ribadito come in tale nozione debbano ricomprendersi sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (vedasi Sez. Un., n. 25932 del 29/5/2008, Ivanov, Rv. 239692; conf. Sez. 5, n. 43068 del 13/10/2009, Bosi, Rv. 245093). E, ancora più di recente, è stato precisato che è ammissibile il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo, pur consentito solo per violazione di legge, quando la motivazione del provvedimento impugnato sia del tutto assente o meramente apparente, perché sprovvista dei requisiti minimi per rendere comprensibile la vicenda contestata e l'”iter” logico seguito dal giudice nel provvedimento impugnato (così Sez. 6, n. 6589 del 10/1/2013, Gabriele, Rv. 254893 nel giudicare una fattispecie in cui la Corte ha annullato il provvedimento impugnato che, in ordine a contestazioni per i reati previsti dagli artt. 416, 323, 476, 483 e 353 cod. pen. con riguardo all’affidamento di incarichi di progettazione e direzione di lavori pubblici, non aveva specificato le violazioni riscontrate, ma aveva fatto ricorso ad espressioni ambigue, le quali, anche alla luce di quanto prospettato dalla difesa in sede di riesame, non erano idonee ad escludere che si fosse trattato di mere irregolarità amministrative).
Di fronte all’assenza, formale o sostanziale, di una motivazione, atteso l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, viene dunque a mancare un elemento essenziale dell’atto.
3. Ciò premesso, ritiene il Collegio che nel caso all’odierno esame, come si andrà a specificare, si sia in presenza di un deficit motivazionale tale da configurare l’errata applicazione di norme di diritto.
Deve rilevarsi che in tema di reati tributari, il sequestro preventivo, diretto o funzionale alla confisca per equivalente, può essere disposto non soltanto per il prezzo, ma anche per il profitto del reato (Sez. 3, n. 23108 del 23/4/2013, Nacci, rv. 255446, nella cui motivazione la Corte ha precisato che il principio rimane valido anche dopo le modifiche apportate all’art. 322 ter cod. pen. dalla l. n. 190 del 2012; conf. Sez. 3 n. 35807 del 7/7/2010, Bellonzi e altri, Rv. 248618; Sez. 3 n. 25890 del 26/5/2010, Molon, Rv. 248058).
Il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente (art. 322-ter cod. pen.) può essere applicato ai beni anche nella sola disponibilità dell’indagato, per quest’ultima intendendosi, al pari della nozione civilistica del possesso, tutte quelle situazioni nelle quali i beni stessi ricadano nella sfera degli interessi economici del reo, ancorché il potere dispositivo su di essi venga esercitato per il tramite di terzi (sez. 3, n. 15210/2012).
Le Sezioni Unite hanno rilevato, in proposito, che non è rinvenibile in alcuna disposizione legislativa una definizione della nozione di “profitto del reato” e che tale locuzione viene utilizzata in maniera meramente enunciativa nelle varie fattispecie in cui è inserita, assumendo quindi un’ampia “latitudine semantica” da colmare in via interpretativa (Sezioni Unite, 2.7.2008, n. 26654, FI S.p.A. ed altri). In detta pronuncia (con riferimento alla confisca di valore prevista dall’art. 19 del d.lgs. 8.6.2001, n. 231) sono state richiamate le consolidate affermazioni giurisprudenziali sulla nozione di “profitto del reato” contenuta nell’art. 240 cod. pen., secondo le quali: “il profitto a cui fa riferimento l’art. 240, comma 1, cod. pen., deve essere identificato col vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato” (vedi Sez. Unite 24.2.1993, n. 1811, Bissoli; 17.10.1996, n. 9149, Chabni Samir).
Come affermato dalla condivisibile giurisprudenza di questa Suprema Corte, inoltre, in tema di reati tributari, il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente prevista dall’art. 1, comma 143, della legge n. 244 del 2007 va riferito all’ammontare dell’imposta evasa, che costituisce un indubbio vantaggio patrimoniale direttamente derivante dalla condotta illecita e, in quanto tale, riconducibile alla nozione di profitto del reato, costituito dal risparmio economico conseguente alla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale, di cui certamente beneficia il reo; a tal fine, per la quantificazione di questo risparmio, deve tenersi conto anche del mancato pagamento degli interessi e delle sanzioni dovute in seguito all’accertamento del debito tributario (così questa sez. 3, 23 ottobre 2012, n. 45849).
4. Diverso è il caso della cd. frode fiscale, in cui la stessa Sez. 3, in passato, ha precisato che il sequestro preventivo “per equivalente”, disposto nei confronti di persona sottoposta ad indagini per il reato di frode fiscale finalizzata all’evasione delle imposte sui redditi, non può avere ad oggetto beni per un valore eccedente il profitto del reato, sicché il giudice è tenuto a valutare l’equivalenza tra il valore dei beni e l’entità del profitto cosi come avviene in sede di confisca (così Sez. 3, n. 1893 del 12/10/2011 dep. il 2012, Manfellotto, Rv. 251797, che, in applicazione del principio enunciato, ha ritenuto corretta la quantificazione del profitto attraverso la sua assimilazione al risparmio derivante dal mancato versamento delle imposte sui redditi nonché alla percentuale del 25 per cento, pan alla aliquota evasa, calcolata sull’ammontare delle operazioni inesistenti fatturate). Trova, dunque, applicazione, in casi come quello che ci occupa, il diverso principio secondo cui in tema di misure cautelari reali, spetta al giudice che, in sede di riesame, proceda alla conferma del sequestro preventivo funzionale alla confisca di valore del profitto del reato, il compito di valutare la corretta determinazione dell’entità di quest’ultimo (ex multis, Sez. 6, n. 18767 del 18/2/2014, Giacchetto, rv. 259678).
Peraltro, ritiene il Collegio che tale principio, a ben guardare, non si discosti da quello più volte ribadito per cui, in tema di misure cautelari reali, il tribunale del riesame che proceda alla conferma del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, non deve accertare, ai fini del rispetto del principio di proporzionalità, l’esatta corrispondenza tra profitto del reato e “quantum” sottoposto a vincolo cautelare, essendo, invece, sufficiente che motivi sulla non esorbitanza del valore dei beni sequestrati rispetto al credito garantito (Sez. 3, n. 39091 del 23/4/2013, Cianfrone, Rv. 257284). Ne consegue che, laddove la valutazione del giudice risponda a tali criteri, essa è insindacabile in sede di legittimità.
Il provvedimento del tribunale del riesame che conferma il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente può essere, infatti, ritenuto illegittimo nel solo caso in cui non contenga alcuna valutazione sul profitto del reato e/o sul valore dei beni sequestrati; valutazione quest’ultima necessaria al fine di verificare il rispetto del principio di proporzionalità tra il credito garantito ed il patrimonio assoggettato a vincolo cautelare, non essendo consentito differire l’adempimento estimatorio alla fase esecutiva della confisca (ex multis, sez. 3, 7 ottobre 2010, n. 41731).
5. La giurisprudenza di questa Corte Suprema ormai da tempo, è orientata nel ritenere che nella valutazione del fumus commissi delicti, quale presupposto del sequestro preventivo, il giudice del riesame non può avere riguardo alla sola astratta configurabilità del reato, ma deve tener conto, in modo puntuale e coerente, delle concrete risultanze processuali e dell’effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti, indicando, sia pur sommariamente, le ragioni che rendono sostenibile l’impostazione accusatoria, e plausibile un giudizio prognostico negativo per l’indagato, pur senza sindacare la fondatezza dell’accusa (tra le varie, venivano ricordate le sentenze sez. 5 49596/2014 rv. 261677; sez. 5, n. 18078/2010 rv. 247134).
La motivazione del provvedimento impugnato, come si avrà modo di specificare analiticamente di qui a poco, è solo apparente, perché avrebbe dovuto quanto meno svolgere, come richiesto peraltro dal precedente annullamento di questa Corte di legittimità, una critica valutazione della censura della difesa (seppure nel limiti dei giudizio cautelare) soprattutto circa rapporti con le decisioni in sede di processo tributario e circa la sussistenza del mezzo fraudolento richiesto dall’art. 3 D.lgs. 74/2000.
Fondato, in primis, è il rilievo che il Tribunale di Monza non abbia ottemperato a quanto richiestogli in termini di motivazione dalla sentenza 37167/17 di questa Corte, che aveva censurato la motivazione dell’ordinanza del 9 dicembre 2016, in quanto non era stata valutata l’incidenza delle decisioni della Commissione Tributaria che aveva ritenuto insussistente l’evasione fiscale derivante dal contratto di affitto.
Il giudice del rinvio avrebbe dovuto procedere ad un’attenta disamina dei contenuti delle due decisioni della Commissione Tributaria Provinciale di Milano sottoposte alla sua attenzione, quella della Sez. 42 n. 6145/2016 del 27/6/2016 nel proc. 5489/2015 e quella della medesima Sez. 42, in diversa composizione, n. 75/17 del 3/10/2016 nel proc. 8013/2016 R.G. per decidere sulla legittimità o meno della permanenza della misura cautelare reale.
Diversamente da quanto ritiene il ricorrente, tuttavia il tribunale monzese avrebbe anche potuto escludere la rilevanza di detta pronunce con riguardo alla fattispecie contestata, ma avrebbe dovuto darne conto con una motivazione logica, congrua, e soprattutto che seguisse la linea interpretativa dell’art. 19 D.lgs. 74/2000 ormai consolidata nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità.
Questa Corte di legittimità ha ormai un orientamento consolidato – che il Collegio condivide e che pertanto intende ribadire – nel senso che lo sgravio fiscale, ed anche la sentenza non definitiva, vengono ad incidere, senza inficiare la logica dell’autonomia nell’accertamento del merito della condotta – sul concetto di profitto del reato.
Il tema con cui il Tribunale di Monza era stato da questa Corte di legittimità chiamato a confrontarsi – e non l’ha fatto – era quello di come possa esserci profitto se non c’è più la pretesa fiscale.
Si controverte, in altri termini, su somme che all’esito del processo non potrebbero essere destinate all’autorità fiscale che non le pretende.
I difensori avevano evidenziato in sede di riesame che le pronunce tributarie avvalorano ulteriormente, da un lato, la liceità della condotta fiscale posta in essere dalla G.H. e, dall’altro, l’inconsistenza e l’erroneità della ricostruzione prospettata dall’Amministrazione Finanziaria per il tramite degli atti impositivi poi annullati.
Entrambe le Commissioni Tributarie Provinciali, dopo aver correttamente riconosciuto che “il thema decidendum … si incentra sul contratto di affitto di azienda stipulato tra la G.H. e la sua controllante F. con il quale quest’ultima concedeva in affitto l’azienda denominata G.H.”, si sono diffusamente ed analiticamente soffermate su tale aspetto.
Con la prima, la sentenza n. 6145/42/16, rilevavano i difensori come la Commissione Tributaria avesse:
1. in primis precisato che entrambe le società, seppur “facendo parte di un Gruppo Societario riferibile allo stesso nucleo familiare, comunque, si presentavano come due distinte persone giuridiche le quali non possono essere tout court riunificate sulla base della unicità proprietaria”;
2. evidenziato, con specifico riferimento alla contestazione sui costi derivanti dal canone di affitto, che lo stesso “in termini strettamente contrattuali/civilistici” deve ritenersi “valido ed efficace indipendentemente se i soggetti contraenti sono appartenenti alla stessa base azionaria”; evidenziando “la inconsistenza di tale ripresa considerato che, qualora si dovesse ritenere tale costo puramente formale e/o fittizio, per correttezza contabile nonché logica, si dovrebbero annullare i corrispondenti ricavi conseguiti – dalla concedente e riconosciuti dall’ufficio. In altri termini se tale contratto deve ritenersi simulato e quindi nullo gli effetti della nullità dovrebbero operare per entrambi i contraenti sia sul lato attivo – che su quello passivo;
3. sottolineato, in via ulteriore, che “neppure si riesce a comprendere la qualifica di antieconomicità attribuita al contratto in parola non essendo stata svolta alcuna indagine comparativa per riconoscergli tale veste”, concludendo che “il contratto deve ritenersi valido ed efficace indipendentemente se i soggetti contraenti sono appartenenti alla stessa base azionaria”;
4. accertato, quanto poi alla contestata “modularità del canone”, ossia alla variazione intervenuta nel suo ammontare, che la stessa era conseguente “alla necessità di far gravare sull’utilizzatore dell’azienda l’ulteriore beneficio derivante dall’uso di uno stabilimento balneare il cui costo di ammodernamento è stato ribaltato sull’affittuario”;
5. ancora, in relazione all’asserito, ma mai concretizzatosi, risparmio fiscale conseguito dalla G.H., evidenziato che, appunto, “i costi sostenuti dalla società affittuaria hanno rappresentato componenti positive di reddito in capo alla società proprietaria la quale li ha assoggettati a tassazione nel proprio bilancio e nel quale le componenti negative erano rappresentate da oneri derivanti da finanziamenti e da quote di ammortamento”;
6. del pari, ritenuto “incomprensibile il concetto di utili extrabilancio richiamato sempre, dall’ufficio finanziario, considerato che la contabilità risulta perfetta, le somme contestate risultano debitamente “iscritte e neppure i militi della Gdf hanno rilevato alcunché di natura extracontabile”;
7. sulla scorta delle summenzionate considerazioni, affermato che “non vi è stato alcun raggiramento di obblighi e/o divieti previsti dalla normativa tributaria considerato che la costituzione di società diverse a cui affidare ad una la proprietà ed all’altra la gestione aziendale, nonché la stipula di un contratto di affitto di azienda, rientrano tutti tra i contratti tipici previsti dal nostro ordinamento e, come chiarito, non presentano alcun vizio che li invalidi” e, pertanto, ribadito “la sostanziale validità del contratto di affitto il quale ha generato costi e ricavi perfettamente legali e legittimi”.
E quanto sopra, avevano obiettato ancora i difensori, era stato ulteriormente confermato dalla successiva sentenza tributaria, la n. 75/42/17, la quale, all’esito di una nuova valutazione della fattispecie sottesa al proprio giudizio, aveva integralmente annullato l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate, in materia di IVA, per l’anno 2009, sulla scorta del seguente iter logico-giuridico:
1. “risulta documentata la separata ed autonoma soggettività giuridica delle due società … risultando priva di rilievo censoreo la circostanza che i due enti costituiscano espressione di una medesima compagine sociale di natura famigliare. Emerge dalla documentazione prodotta, e per la verità, sotto tale profilo non pare contestata neppure dall’ufficio accertatore, la formule regolarità delle poste contabili in contestazione così come il loro riflesso fiscale, risultando i canoni dichiarati da F. quali redditi sottoposti a tassazione”;
2. “la contrazione di un mutuo gravoso giustifica ladicotomia societaria attuata tra proprietà immobiliare/gestione dell’azienda alberghiera”, ossia la duplice esistenza della F. (proprietaria) G.H. (gestionale);
3. in ordine all’aumento del canone, “non pare priva di oggettivabile rilievo economico la scelta di attribuire alla società del gruppo destinato a beneficiare, di maggiori ricavi correlati alle spese di ristrutturazione dell’immobile, una quota parte di dette spese attraverso un aumento significativo del canone di affitto”.
Il rilievo difensivo era stato che il giudice tributario, in due distinte occasioni, aveva potuto ripercorrere il contratto di affitto di azienda alberghiera, dar conto delle ragioni, di fondo dell’operazione e delle evoluzioni del corrispettivo negli anni, giungendo a constatare la congruità dei canoni di affitto e ad evidenziare l’assenza di un qualsiasi risparmio e/o evasione in base al suddetto contratto di affitto, così come di qualsiasi finalità fraudolenta.
I difensori evidenziavano che i ripetuti accertamenti delle commissioni tributarie avevano trovano evidente fondamento nelle oggettive e documentate circostanze della vicenda. In particolare, per quanto riguarda la quantificazione del canone di affitto e l’aumento dello stesso (condiviso dalle parti in una sola occasione), era stata prodotta all’Ufficio delle imposte e nel giudizio tributario una analitica relazione di stima, che non veniva contestata dall’Ufficio, tesa a confermare l’oggettiva congruità, del canone medesimo di euro 1.606.000. E la parte aveva presentato un prospetto di dati derivanti da documentazione contabile teso a dimostrare l’elevato ammontare degli interventi e delle spese sostenute (per complessivi euro 859.000) in occasione dell’acquisizione della disponibilità del B.M., onde fornire puntuale e oggettiva dimostrazione delle ragioni che sottostanno all’aumento del canone pattuito dalle parti ad euro 2.400.000. Era stato eccepito, invece, che la successiva riduzione del canone ad euro 1.800.000 era conseguita alle evoluzioni del mercato immobiliare, e più in generale del sistema economico in crisi, ed era non solo perfettamente comprensibile e coerente con il momento ma giustificata dalle specifiche dinamiche del ramo di azienda.
Era stato anche evidenziato che il canone di affitto rappresenta voce di costo in capo a G.H. ma, allo stesso tempo, è stato registrato e dichiarato quale componente positiva del reddito d’impresa di F. In altri termini, com’è giusto che fosse, la società affittuaria deduceva i canoni, mentre la società titolare dei beni imputava a reddito imponibile i canoni di affitto percepiti, con un’operazione nel suo complesso si caratterizza in termini di perfetta simmetria fiscale, sia per ciò che riguarda l’IRES che l’IVA.
Venivano documentalmente allegati, nel “Riepilogo dati da conto economico 2007-2012”, i dati risultanti dai relativi bilanci delle società G.H. e F. per il periodo 2007-2012, emergendo dagli stessi che il totale dei canoni di affitto di azienda, pari ad euro 11.261.901, risulta contabilizzato nei bilanci di G.H. ma anche in pari misura da F., quale componente dei ricavi, ammontanti nel totale ad euro 23.940.125. A fronte di ciò, risultano contabilizzati costi della produzione, per totali euro 17.117.036 (in cui sono compresi gli ammortamenti per euro 4.829.914), e costi per oneri finanziari (ossia gli interessi passivi per il famoso mutuo originariamente accesso per l’acquisto) per euro 5.501.429. Con un risultato imponibile, in capo a F. s.r.l. (per il suddetto periodo 2007-2012) ammontante a ben euro 1.162.000.
La tesi difensiva circa l’assenza del profitto si era incentrata sulla affermazione che, proprio nell’ottica del gruppo societario, i 100 euro di costo dedotti da G.H. avevano rappresentato 100 euro tassati in capo a F. E che la stessa IVA (pagata e dedotta da G.H. s.r.l.) era stata regolarmente registrata e, dichiarata da F. s.r.l., la quale aveva compensato simili importi con l’IVA che aveva acquisito a credito in virtù degli ingenti interventi di ristrutturazione originari.
Tra l’altro, veniva evidenziata come la stessa F. avesse, da ultimo, subito una verifica fiscale ed avesse ricevuto avviso di accertamento, senza che emergesse alcun rilievo sostanziale di comportamenti evasivi od elusivi, essendosi definito il procedimento con l’unico recupero assolutamente estraneo alla vicenda in esame, in termini di ripresa a tassazione di una riserva da rivalutazione di poi oggetto di riduzione di capitale; senza neppure ricevere alcun rilievo IVA. Veniva in proposito allegato agli atti il processo verbale di contraddittorio della Direzione Provinciale delle Entrate di Monza del 22 dicembre 2015 (allegato 4), ed il successivo avviso di accertamento emesso nei confronti della F. s.r.l.; cui la stessa società F. s.r.l. ha prestato acquiescenza, con il relativo pagamento delle somme richieste con l’unico rilievo ivi formulato.
La valutazione che si richiedeva ai giudici del riesame – e che non c’è stata – riguardava anche il fatto che la posizione della F. fosse perciò stata definitivamente confermata come corretta dallo stesso ufficio impositore, sia relativamente agli importi da essa dedotti a titolo di ammortamenti sia quali interessi passivi pagati per il mutuo bancario accesso originariamente. E ciò anche ai fini dell’IVA.
Veniva anche sostenuto che la stessa questione dei finanziamenti infruttiferi è perfettamente coerente e comprensibile, oltre che ricorrente in situazioni come quella in esame, in quanto il socio è chiamato a ripianare le perdite societarie e lo fa normalmente tramite finanziamenti infruttiferi, che oltretutto non incidono minimamente sul conto economico e sul risultato imponibile d’esercizio.
La tesi sostenuta era che nel caso in esame la società F., proprietaria del ramo di azienda, affitta tale ramo di azienda alla propria controllata, che ovviamente deve pagare il canone, salvo poi essere finanziata dalla prima in relazione al proprio eventuale risultato in perdita.
Il dato principale, tuttavia, è che non vi sarebbe stato nessuno spostamento dal profilo reddituale a quello patrimoniale in quanto i costi dedotti da G.H. sono stati contabilizzati da F. come ricavi, le perdite di esercizio di G.H. sono state, ripianate (e tale operazione non ha ovviamente inciso sul profilo reddituale) con finanziamenti infruttiferi di F., ed anche questa operazione non avrebbe inciso sul profilo reddituale ed ai fini IVA.
Con questi rilievi, emergenti dal processo tributario, il tribunale brianzolo, come gli richiedeva specificamente questa Corte di legittimità nella precedente pronuncia, era chiamato a confrontarsi.
Ebbene, correttamente i giudici del riesame hanno ricordato il dictum di Sez. 3 n. 39187/2015 secondo cui, in tema di reati tributari, il profitto, confiscabile anche per equivalente, del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, va individuato nel valore dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’Amministrazione finanziaria che agisce per il recupero delle somme evase, con la conseguenza che lo stesso non è configurabile, e non è quindi possibile disporre o mantenere il sequestro funzionale all’ablazione, in caso di annullamento della cartella esattoriale da parte della commissione tributaria, con sentenza anche non definitiva, e di correlato provvedimento di “sgravio” da parte dell’Amministrazione finanziaria”.
Il tribunale brianzolo è caduto in errore, tuttavia, laddove ha ritenuto che tale giurisprudenza non fosse pertinente alla vicenda in esame “in quanto fondata su un presupposto totalmente diverso, e segnatamente riferita al reato di cui all’art. 11 d.lgs. 74/2000, nel quale il profitto deve individuarsi nei beni sottratti alla garanzia della pretesa tributaria, in assenza della quale viene meno uno dei presupposti dell’illecito. Nello schema delineato dall’art. 11 d.lgs. 74/2000, invero, elemento costitutivo è l’idoneità della condotta a rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva, il che presuppone necessariamente un titolo, cioè un provvedimento esecutivo dell’amministrazione finanziaria, in assenza del quale alcuna pretesa tributaria vi sarebbe da salvaguardare”. E ha concluso che “analoga struttura tipica non ricorre nella fattispecie dell’art. 3 d.lgs. 74/2000 (nella presente sede rilevante), nella quale l’attualità della pretesa tributaria non è uno dei presupposti del reato, sicché il giudice penale non solo ha completa autonomia nel valutare la violazione o l’elusione delle norme tributarie rilevanti, ma conserva addirittura il potere (connaturale al sistema del doppio binario di cui agli artt. 19 ss. D.lgs. 74/2000) di condannare in caso di pretesa tributaria non attuale (perché ad esempio il relativo procedimento non è mai stato iniziato) o finanche prescritta”.
Le pronunce di questa Corte Suprema, infatti, hanno valorizzano in più occasioni l’annullamento della cartella esattoriale da parte della commissione tributaria, diversamente da quanto si legge nel provvedimento impugnato, anche in vicende processuali nelle quali si discuteva dell’applicabilità di disposizioni penali tributarie diverse dall’art. 11 d.lgs. 74/2000, come invece parrebbe ritenere il Tribunale di Monza (così, ad esempio, entrambe riferite all’art. 4 D.lgs. 74/2000 Sez. 3 n. 37121 del 29/3/2017. Villa, non mass, e Sez. 3 n. 19994 del 21/9/2016 dep. 2017, Bifulco, Rv. 269763 richiamata anche nella sentenza emessa dalla Terza Sezione Penale nel presente procedimento). E si trattava di disposizioni nelle quali si fa riferimento all’imposta evasa e non alla pretesa tributaria.
E seppure secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di reati tributari, il profitto del reato oggetto del sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente – costituito dal risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale – rimane inalterato anche nella ipotesi di sospensione della esecutività della cartella esattoriale da parte della commissione tributaria (Sez. 3, n. 9578 del 17/01/2013, Tanghetti, Rv. 254748), è altrettanto vero che, nel caso in esame, non di sospensione dell’esecutività della cartella, bensì di definitivo annullamento, da parte del giudice tributario, dell’avviso di accertamento.
E del resto, nel richiedere al tribunale brianzolo di confrontarsi con le pronunce tributarie nel caso specifico, afferente il fumus del reato di cui all’art. 3 D.lgs. 74/2000, la stessa sentenza 37167/17 riconosceva evidentemente tale possibilità.
Tale deficit motivazionale, pertanto, andrà colmato dal giudice del rinvio.
6. La fondatezza delle doglianze difensive, tuttavia, non si esaurisce qui.
Come viene ricordato nel provvedimento impugnato, la precedente sentenza di legittimità aveva chiesto ai giudici del riesame di analizzare la questione concernente la sussistenza del mezzo fraudolento, elemento costitutivo della figura delittuosa di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici.
Va ricordato che la norma che viene in rilievo, per il principio del favor rei, è quella di cui all’art. 3 D.lgs. 74/2000 (dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici) nel testo previgente alla riforma dei reati tributari operata con il D.lgs. 158/2015 secondo cui, con le soglie ivi indicate “fuori dei casi previsti dall’art. 2, è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, sulla base di una falsa rappresentazione nelle scritture obbligatorie e avvalendosi di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l’accertamento, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi”.
La norma in questione oggi vigente – gioverà ricordarlo – non è applicabile al caso che ci occupa in quanto ne sono stati dilatati i confini applicativi, in quanto quella previgente era articolata in tre segmenti distinti (la cd. struttura trifasica: una falsa dichiarazione dei redditi o Iva, una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie posta a base del predetto mendacio, una utilizzazione di “mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l’accertamento”) mentre con la modifica del comma 1 del citato articolo 3, la struttura dell’illecito oggi è divenuta bifasica, tramite l’eliminazione dell’elemento della “falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie” e una più articolata descrizione delle condotte artificiose.
Dunque, oggi è stata eliminata la prima delle tre fasi indicate, rendendo non più necessario l’elemento della falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie, con ciò aumentando i potenziali soggetti attivi del reato e la condotta materiale consiste nel compimento di “operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente” (descritte dalla nuova lett. g-bis dell’art. 1, v. supra) ovvero dell’avvalersi “di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria” (cfr. lett. g-ter dell’art. 1, v. supra). Nel 2015 è stata inoltre elevata (da un milione di euro) a un milione e cinquecentomila euro la soglia relativa all’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione ed è stata introdotta una soglia, alternativa, rapportata all’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie; è stato poi introdotto un nuovo secondo comma con cui si precisa che “il fatto si considera commesso avvalendosi di documenti falsi quando tali documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o sono detenuti a fini di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria” e un nuovo terzo comma, secondo cui “non costituiscono mezzi fraudolenti la mera violazione degli obblighi di fatturazione e di annotazione degli elementi attivi nelle scritture contabili o la sola indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di elementi inferiori a quelli reali”. L’intenzione del legislatore delegato – in linea con le direttive dell’art. 8 della legge delega – è stata dunque quella di “dilatare i confini” applicativi della norma.
Sia nella vecchia che nella nuova formulazione rimane, tuttavia, il riferimento ai “mezzi fraudolenti”, sulla cui esistenza la Terza Sezione di questa Corte, nella precedente sentenza di legittimità, aveva invitato il giudice del rinvio a dispiegare il proprio sforzo motivazionale.
Con riferimento ai “mezzi fraudolenti”, il legislatore delegato del 2015, come si legge dai lavori preparatori della legge di riforma dei reati tributari, ha preferito continuare ad impiegare tale formula, già presente nella previgente formulazione, anziché quella di «comportamenti fraudolenti» contenuta nella legge delega, anche per garantire la continuità con gli approdi interpretativi al riguardo raggiunti nell’ormai significativo periodo di vigenza del decreto legislativo n. 74 del 2000.
Nella nozione di “mezzi fraudolenti” rientrano – come oggi specifica il novellato art. 1 sub g-ter) D.lgs. 74/2000 – quelle “condotte artificiose attive nonché quelle omissive realizzate in violazione di uno specifico obbligo giuridico, che determinano una falsa rappresentazione della realtà”. La nozione di “mezzi fraudolenti” di cui all’art. 1 deve leggersi in coordinamento con il comma 3 del “nuovo” art. 3, disposizione che esclude espressamente che nella definizione possano rientrare le semplici violazioni degli obblighi di fatturazione o annotazione, ovvero i fenomeni di cd. “sottofatturazione”.
Ebbene, sul punto i giudici del rinvio hanno fornito una motivazione in gran parte sovrapponibile a quella dell’ordinanza in precedenza annullata da questa Corte di legittimità. E pertanto non hanno adempiuto a quanto loro richiesto dalla precedente sentenza di annullamento.
Soprattutto, non si sono confrontati con la necessità di discernere con chiarezza le operazioni “simulate” ex art. 3, da quelle “elusive” ex art. 10-bis 212/2000, recentemente introdotto dal d.lgs. 128/2015.
7. Hanno ricordato due recenti, articolate e pienamente condivisibili pronunce di questa Corte di legittimità (Sez. 3, 40272 del 1/10/2015, Mocali, Rv. 264949-50-51 e Sez. 3n. 38016 del 21/4/2017, Ferrari, Rv. 270550-51) che, com’è noto, nel sistema previgente, non esisteva una nozione legislativa di “abuso del diritto”, essendo questo un istituto di derivazione giurisprudenziale. Era presente, però, una specifica norma che, per le imposte sui redditi, consentiva di disconoscere i vantaggi fiscali di determinate operazioni (ad esempio, fusioni societarie, classificazioni di bilancio) qualora ne fosse dimostrato il loro utilizzo indebito, strumentale all’ottenimento di vantaggi tributari altrimenti non spettanti.
Si trattava dell’art. 37-bis del DPR n. 600/73, ove era pure contenuta una procedura da osservare, consistente, tra l’altro, nella previa richiesta di chiarimenti al contribuente. Tale disposizione è stata, tuttavia, espressamente abrogata dall’art. 1, comma secondo, del D.lgs. n. 128 del 2015 che così prevede: «L’articolo 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, è abrogato. Le disposizioni che richiamano tale articolo si intendono riferite all’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, in quanto compatibili».
Il nuovo testo legislativo (D.lgs. n. 128 del 2015), dunque, si prefigge lo scopo, da un lato, di delineare quali condotte possono integrare il ed. “abuso del diritto”, dall’altro, di abrogare l’art. 37-bis del DPR 600/73 e di disciplinare l’intero tema in una norma nuova, l’art. 10-bis della L. 212/2000.
Così facendo, il divieto di “abuso del diritto” è pacificamente operante per tutti i tipi di imposte, essendo contenuto non più nel DPR n. 600/73 bensì nella L. n. 212/2000, fatta eccezione, per espressa disposizione legislativa, per i diritti doganali di cui all’art. 34 del DPR n. 43/73, che restano disciplinati dai comparti normativi di riferimento.
Tanto premesso, secondo le nuove disposizioni, “configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi indebiti”.
Queste operazioni non sono opponibili all’Amministrazione finanziaria, che ne può disconoscere i vantaggi tributari determinando le imposte secondo le regole ordinarie, fermo restando il riconoscimento di quanto già versato dal contribuente.
Nel testo viene precisato che: a) per “operazioni prive di sostanza economica” si intendono i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, “inidonei a produrre effetti significativi diversi da quelli fiscali” (ad esempio, indici di mancanza di sostanza economica possono essere b) per “vantaggi fiscali indebiti”, i benefici, anche non immediati, contrastanti con le finalità delle norme tributarie o con i principi dell’ordinamento tributario.
In ogni caso, il legislatore sancisce che non si considerano abusive le operazioni giustificate da valide ragioni economiche, non marginali, anche di ragione organizzativo o gestionale, “che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente”. È comunque ferma la facoltà di scelta tra regimi opzionali diversi e tra operazioni comportanti un differente carico fiscale.
8. Se è vero, dunque, che, in tema di violazioni finanziarie, l’istituto dell’abuso del diritto di cui all’art. 10-bis l. 27 luglio 2000, n. 212, che, per effetto della modifica introdotta dall’art. 1 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128, esclude ormai la rilevanza penale delle condotte ad esso riconducibili, ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, cosicché esso non viene mai in rilievo quando i fatti in contestazione integrino le fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi, è anche vero, però, che non è più configurarle il reato di dichiarazione infedele, in presenza di condotte puramente elusive ai fini fiscali, in quanto l’art. 10 bis, comma 13, della legge 27 luglio 2000, n. 212, introdotto dall’art. 1 del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, esclude che operazioni esistenti e volute, anche se prive di sostanza economica e tali da realizzare vantaggi fiscali indebiti, possano integrare condotte penalmente rilevanti (Sez. 3, 40272 del 1/10/2015, Mocali, Rv. 264949-50-51, in relazione ad una fattispecie in cui l’esposizione in dichiarazione di elementi passivi nel reddito di impresa a seguito di un contratto di “stock lending” è stata ritenuta condotta non più penalmente rilevante in quanto unicamente elusiva e quindi rientrante nella previsione del suddetto “ius superveniens”).
La medesima sentenza 40272/2015 ha precisato che la disposizione transitoria di cui all’art. 1, comma quinto, D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, che prevede l’applicazione dell’art. 10-bis l. 27 luglio 2000, n. 212 anche alle condotte commesse anteriormente alla propria entrata in vigore solo se non sia ancora stato notificato un atto impositivo, non impedisce di ritenere non più penalmente rilevanti le condotte fiscalmente elusive integranti mero abuso del diritto, per effetto del comma 13 del medesimo art. 10-bis, in quanto tale comma, realizzando una sostanziale “abolitio criminis”, deve operare retroattivamente senza condizioni.
Sul punto, è opportuno ricordare come questa Corte, prima ancora dell’introduzione del sopra citato art. 10 bis (cfr. Sez. 5, n. 36859 del 16 gennaio 2013, Mainardi e altri, Rv. 258037) si sia mostrata sempre ferma nell’affermare che intanto si può parlare di operazione elusiva in quanto l’operazione sia effettivamente esistente sotto il duplice profilo giuridico ed economico; con il risultato di ritenere ricadente nella sfera punitiva penale (sub art. 2 o art. 3, a seconda dell’utilizzo o meno di fatture o documenti equipollenti) l’operazione che, pur se valida sotto il profilo giuridico, è in realtà fittizia (nel senso di inesistente) sul piano economico.
E’ su questo punto che il giudice del rinvio dovrà spiegare se e perché ritiene che l’operazione posta in essere dagli odierni ricorrenti lo sia.
La non sempre agevole distinzione fra operazioni simulate (inesistenti) e operazioni elusive emerge dalla lettura dell’arresto giurisprudenziale sopra citato, in cui è stata ritenuta “inesistente” l’operazione di dividend washing avente ad oggetto la distribuzione di utili mai conseguiti: in quella fattispecie, la Corte ha escluso la ricorrenza di “contratti simulati in senso civilistico”, visto che gli acquisti e le retrocessioni di quote delle varie società erano voluti, anche sul piano della minima dimensione cronologica del trasferimento dei relativi diritti, sostenendo tuttavia che “un conto è che una proprietà passi davvero di mano, sia pure a prezzo vile o per una frazione di secondo…, ben altra cosa è che la traslazione riguardi anche un contenuto economico che il diritto oggetto di cessione non può avere (nella fattispecie, i dividend derivanti dagli utili, proprio perché appunto mai conseguiti).
Nella pronuncia in questione, la Corte ebbe ad affermare che si deve parlare di operazione inesistente anche quando un’operazione giuridica vi sia, ma debba intendersi non coincidente, sul piano economico, da quella documentata, che è la sola presa in considerazione, agli effetti penali, dal D.lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 e 8.
Anche ciò che giuridicamente è effettivo può, dunque, essere senz’altro fraudolento, se sul piano economico non vi è stata affatto l’operazione che le parti di un contratto abbiano convenuto.
Tale opzione interpretativa può conservare validità anche di fronte al nuovo dato normativo – quello rappresentato dal citato art. 10-bis della legge 212/2000 – che, nel definire le operazioni “abusive” come quelle “prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti” (comma 1), le sottrae espressamente a qualsiasi sanzione di carattere penale (comma 13): la “sostanza economica” – per come definita nel comma secondo dell’art. 10-bis – dovrebbe attenere alla “ragione economica”, ossia alla sola “inidoneità delle operazioni (fatti, atti, contratti) a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”, ma sempre però sul presupposto che le operazioni intanto siano qualificabili come “non inesistenti” sotto il profilo del loro contenuto commerciale.
Non c’è oggi sanzione penale per operazioni dotate di reale consistenza economica, pur se poste in essere nella totale assenza di ragioni diverse dal risparmio fiscale che le possano giustificare economicamente; operazioni che invece nel passato, pur con qualche incertezza, sono state ritenute penalmente rilevanti in presenza di specifiche disposizioni fiscali antielusive, quali quelle di cui all’art. 37, comma terzo, e – ancor più – di cui all’abrogato successivo art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973.
In tale prospettiva, va letta la ricordata sentenza 40272/2015, che contiene un’importante applicazione del nuovo art. 10-bis dello Statuto del contribuente, in una fattispecie di prestito di azioni effettuato essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale.
In quella pronuncia la Corte, stimando che l’operazione, “né inesistente, né simulata, ma esistente e voluta”, presentava “tutti gli elementi che il nuovo art. 10-bis considera essenziali per la configurabilità di un’operazione abusiva”, ha ritenuto di conseguenza che “la predetta condotta non può che essere considerata come penalmente irrilevante in forza della statuizione di irrilevanza penale delle operazioni abusive sancita comma 13 del nuovo art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente”; disposizione, come si è detto, “destinata ad esplicare effetto, oltre che naturalmente per le nuove operazioni abusive poste in essere dalla data del 1 ottobre 2015, anche per quelle poste in essere prima di tale data per il principio di retroattività della legge penale più favorevole sancito dall’art. 2 del cod. pen.”
In motivazione, la Corte – va ancora una volta ribadito – ha comunque precisato che “rimane impregiudicata la possibilità di ravvisare illeciti penali – sempre, naturalmente, che ne sussistano i presupposti – nelle operazioni contrastanti con disposizioni specifiche che perseguano finalità antielusive (ad esempio, negando deduzioni o benefici fiscali, la cui indebita autoattribuzione da parte del contribuente potrebbe bene integrare taluno dei delitti in dichiarazione).
Parimenti rimane salva la possibilità di ritenere, nei congrui casi, che – alla luce delle previsioni della normativa delegata e della possibile formulazione del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici – operazioni qualificate in precedenza dalla giurisprudenza come semplicemente elusive integrino ipotesi di vera e propria evasione”.
Occorrerà, tuttavia, di volta in volta, valutare, e conseguentemente motivare, in casi come quello che ci occupa, sull’esistenza dei “mezzi fraudolenti” nei termini sopra illustrati.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame al Tribunale d Monza.
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