CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 53637 depositata il 29 novembre 2018
Accertamento – Responsabilità penale – Evasione fiscale – Violazioni – Illecito tributario
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza del 7 dicembre 2017 il Tribunale di Pesaro, quale Giudice del riesame delle misure cautelari reali ed in accoglimento dell’appello proposto dal Pubblico Ministero, ha disposto l’estensione degli importi del sequestro preventivo, in specie per equivalente, nei confronti tra gli altri di F. G., D. K. e V. P., indagati per plurimi fatti di evasione fiscale e comunque di illecito tributario.
2. Avverso il provvedimento gli indagati hanno proposto separati ricorsi.
La K. e il P., quali legali rappresentanti della s.r.l. Vip Trading, hanno articolato tre motivi di impugnazione, il G. ha proposto duplice complessa censura.
3. Ricorso K. e P..
3.1. Col primo motivo ed in relazione a quanto previsto dall’art. 14, comma 4-bis della legge 537 del 1993, siccome modificato dall’art. 8, comma 1, d.lgs. 16 del 2012, è stata dedotta la contraddittorietà della tesi della cd. autonomia tra accertamento tributario e profili di responsabilità penale, laddove il Giudice penale avrebbe potuto sequestrare e confiscare più di quanto avrebbe potuto essere preteso dall’Amministrazione Finanziaria. In specie, l’effettiva esistenza dell’operazione e del conseguente esborso economico escludeva il carattere fittizio degli elementi passivi indicati nella dichiarazione, a nulla rilevando che il destinatario dei medesimi fosse un soggetto diverso da quello reale, a differenza di quanto accadeva per l’imposizione indiretta.
In particolare, il Tribunale non aveva tenuto conto della novità normativa che aveva disciplinato le ipotesi di deducibilità dei costi da reato, altresì osservando che dalla mera consapevolezza dell’operazione fraudolenta si faceva conseguire l’indeducibilità dei costi medesimi, altresì introducendo un concetto di inerenza del costo che dipendeva da elementi soggettivi e non oggettivi, in contrasto con le previsioni di legge. Al contrario, il reato di utilizzazione fraudolenta in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti era integrato dalla sola inesistenza oggettiva delle operazioni, non potendo tra l’altro l’ablazione definitiva di un bene essere superiore al vantaggio economico conseguito dall’azione delittuosa.
In ogni caso, date le evidenziate incertezze interpretative, era eventualmente richiesto l’intervento delle Sezioni Unite.
3.2. Col secondo motivo è stato dedotto vizio di motivazione in ragione del fatto che, quanto all’indeducibilità dei costi, era reiterato il motivo già dedotto, ossia la sufficienza della consapevolezza dell’esistenza della cd. frode carosello, sì che la seconda via espositiva altro non era che la duplicazione della prima.
3.3. Col terzo motivo infine è stato dedotto che il sequestro concerneva altresì periodi anteriori alla novella del 2012 la quale, per la prima volta, prevedeva la possibilità di confiscare non solo il prezzo ma anche il profitto del reato, sì che il vincolo reale doveva considerarsi illegittimamente apposto.
4. Ricorso G..
4.1. Col primo motivo è stato allegato vizio di motivazione del provvedimento in relazione alle censure con le quali il ricorrente aveva contestato la legittimità dell’appello del Pubblico Ministero, volto appunto a conseguire l’estensione del sequestro con riguardo alle operazioni soggettivamente inesistenti. Al contrario, facevano difetto i requisiti tanto dell’indicazione in dichiarazione di elementi fittizi, quanto del dolo specifico di evasione, mentre il costo incideva effettivamente sulla determinazione complessiva del reddito.
Al riguardo, il ricorrente ha altresì richiamato dottrina e giurisprudenza a sé favorevoli, anche in relazione al mutato quadro normativo di riferimento a seguito dell’introduzione del decreto legislativo n. 74 cit..
Doveva infine essere eccepita la violazione di legge per inosservanza dell’art. 1, comma 143, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, siccome infine riprodotto dall’art. 12-bis d.lgs. 74 del 2000, quanto all’irrilevanza della condotta contestata in relazione ad ipotetiche, ma inesistenti, frodi al fisco.
4.2. Col secondo motivo, proposto con ulteriore ricorso contestualmente depositato, è stato parimenti eccepito difetto di motivazione in relazione ai rilievi formulati con la memoria difensiva, laddove al contrario il Giudice collegiale pesarese si era acriticamente adeguato all’impugnazione estensiva del Pubblico Ministero, altresì ignorando la contrastante giurisprudenza in materia.
4.3. Con memoria depositata è stata infine sollevata censura in ordine alla carenza assoluta di motivazione sul contrasto giurisprudenziale esistente.
5. Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto dei ricorsi.
Considerato in diritto
6. I ricorsi sono infondati.
6.1. In linea del tutto preliminare, peraltro, la Corte osserva che, in tema di ricorso per cassazione proposto avverso provvedimenti cautelari reali, l’art. 325 cod. proc. pen. ammette il sindacato di legittimità soltanto per motivi attinenti alla violazione di legge. Nella nozione di “violazione di legge” rientrano, in particolare, gli errores in iudicando o in procedendo, al pari dei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza, come tale apparente e, pertanto, inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal Giudice (Sez. 5, n. 43068 del 13/10/2009, Bosi, Rv. 245093; v, anche Sez. 6, n. 6589 del 10/01/2013, Gabriele, Rv. 254893; Sez. 2, n. 18951 del 14/03/2017, Napoli e altro, Rv. 269656); per contro, non può ad es. esser dedotta l’illogicità manifesta della motivazione, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico ed autonomo motivo di cui alla lett. e) dell’art. 606, stesso codice (v., per tutte: Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, Bevilacqua, Rv. 226710; Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003, Pellegrino S., Rv. 224611).
6.2. Sempre in linea generale, va anzitutto ricordato che l’art. 14, comma 4- bis, legge 24 dicembre 1993, n. 537 (come sostituito dall’art. 8, comma 1, d.l. 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44) così recita: «nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il Pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 del codice di procedura penale ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 del codice penale. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione al sensi dell’art. 530 del codice di procedura penale ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’art. 529 del codice di procedura penale, compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi».
7. Per quanto riguarda i ricorsi K. e P., si osserva quanto segue.
7.1. In relazione ai primi due motivi di impugnazione, che possono essere esaminati congiuntamente stante la loro connessione, il contrasto giurisprudenziale cui in ogni caso si sono riferiti i ricorrenti si presenta più apparente che reale.
Vero è infatti che recentemente è stato rilevato che il reato di utilizzazione fraudolenta in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti è integrato, con riguardo alle imposte dirette, dalla sola inesistenza oggettiva delle prestazioni indicate nelle fatture, ovvero quella relativa alla diversità, totale o parziale, tra costi indicati e costi sostenuti, mentre, con riguardo all’IVA, esso comprende anche la inesistenza soggettiva, ovvero quella relativa alla diversità tra soggetto che ha effettuato la prestazione e quello indicato in fattura (Sez. 3, n. 6935 del 23/11/2017, dep. 2018, Fiorin, Rv. 272814).
Ciò posto, peraltro, la fattispecie, come si evince dalla lettura della decisione (analogamente, Sez. 3, n. 26431 del 16/03/2016, Core e altro, non mass., parimenti evocata da parte ricorrente), si riferiva proprio all’ipotesi di imposizione indiretta, per la quale non sussistono dubbi circa l’integrazione del reato in caso di inesistenza soggettiva, ovvero appunto allorché vi sia diversità tra soggetto che ha effettuato la prestazione e quello indicato in fattura. Sì che il riferimento alla differente disciplina allorché si tratti di imposizione diretta non aveva di per sé alcun effetto sulla decisione.
7.1.1. Non vi è quindi in realtà alcuna soluzione di continuità con i principi ormai ripetutamente affermati, con ampia e condivisibile motivazione, da questa Sezione (cfr. Sez. 3, n. 42994 del 07/07/2015, De Angelis, Rv. 265154; Sez. 3, n. 31628 del 22/01/2015, Langella, Rv. 264456), con passaggi motivazionaii testualmente riproposti dal provvedimento impugnato, cui in linea generale non può che farsi riferimento.
Al riguardo, il provvedimento impugnato, ancorché sinteticamente, ha fornito risposta adeguata anche ai rilievi di parte ricorrente (così dando conto di avere valutato i contenuti della memoria colà dimessa, v. anche infra quanto al ricorso G.), tra l’altro certamente non ricadendo nell’ambito del vizio di motivazione censurabile (v. supra) anche in tema di ricorso avverso misure cautelari reali.
In proposito, infatti, il provvedimento impugnato – contestando l’altrui ricostruzione – ha escluso l’inerenza dei costi ad attività di impresa.
Quanto alla novella siccome richiamata, è stato già osservato, traendo spunto dalla relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del decreto legge cit., che “l’indeducibilità non trova applicazione per i costi e le spese esposti in fatture o altri documenti aventi analogo rilievo probatorio che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi, ferme restando le regole generali in materia di detrazione della relativa imposta sul valore aggiunto di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 e in tema di deduzione previste dal testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917; pertanto, ove del caso, l’indeducibilità dei costi rappresentati in documenti emessi da soggetti che in tutto o in parte non hanno effettivamente posto in essere l’operazione, sarà, comunque, rilevablle per effetto delle altre disposizioni normative eventualmente applicabili e connesse ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità dei componenti negativi”. Sì che, se è vero che per effetto della normativa sopra richiamata sia prevista e consentita la deducibilità dei costi relativamente ad operazioni soggettivamente inesistenti, è del pari escluso che tale deducibilità possa essere consentita quando si verta in ipotesi di costi che a norma del T.U.I.R. risultino in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità.
E’ stato così affermato che non entra quindi in gioco la natura soggettiva o meno dell’operazione di emissione di fatture per operazioni inesistenti, quanto il principio generale della “effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità” che, se superato, inibisce l’operazione deduttiva. In definitiva, quindi, devono considerarsi indeducibili i costi comunque “riconducibili” alla condotta criminosa, conseguendone che i costi sostenuti per la realizzazione di una frode, essendo essi stessi lo strumento per realizzare l’evasione di imposta, sono indeducibili e l’intervento legislativo, attuato con il d.l. n. 16 cit., non ha alcuna incidenza sulle fattispecie in esame (così, in sintesi, in motivazione, Sez. 3, n. 31628 cit.).
7.1.2. Allo stesso tempo il Tribunale pesarese ha anche sottolineato il pieno coinvolgimento, nell’ambito della cd. frode carosello, di tutti i soggetti persone fisiche, in relazione alte posizioni degli emittenti interposti e degli utilizzatori finali, nonché delle stesse società estere iniziali venditrici dei prodotti stoccati.
In tal modo, quindi, il provvedimento impugnato, ben lungi da acritiche adesioni, ha condiviso il rilievo secondo cui la non deducibilità dei costi deriva (oltre che dal loro impiego per finanziare atti immediatamente qualificabili come delitto doloso) anche dalla loro inerenza a più generali attività delittuose alle quali l’impresa non sia estranea, dovendosi considerare, a tal proposito, che quando i costi sono direttamente riconducibili ad un contesto illecito, al quale il contribuente stesso abbia partecipato, la possibilità di dedurre i costi si tradurrebbe, per assurdo, nel consolidamento del vantaggio (illecito) ottenuto e comunque nella minimizzazione del rischio che la possibilità di recuperare le somme investite per la consumazione del reato consentirebbe. Ed è stato così sottolineato che le vicende delle frodi carosello siano altamente istruttive in proposito, dal momento che senza la compartecipazione dell’impresa (cd. destinataria finale) alla condivisione del meccanismo fraudolento gli interessi erariali dello Stato non sarebbero pregiudicati né ai fini delle imposte indirette né ai fini di quelle dirette (così, Sez. 3 n. 42994 cit.). Con la conseguenza che divengono indeducibili i costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità.
La ragione principale dell’indeducibilità dei costi in vicende come quelle note con il nome di “frode carosello” sta quindi nella violazione del “principio dell’inerenza” dei costi, nel senso che la piena consapevolezza in ordine all’assunzione del costo, in un contesto di operazioni soggettivamente inesistenti e dunque delittuose, comporta l’accollo di un peso che non è inerente l’attività di impresa strictu sensu a causa della discrasia esistente, in siffatti casi, tra attività imprenditoriale, cui devono essere imputati tutti i costi ad essa inerenti con conseguente loro deducibilità, e attività criminale, cui devono essere invece imputati tutti i costi utilizzati per il compimento dell’operazione delittuosa e che non sono pertanto deducibili in quanto non inerenti. Ciò in quanto il principio di inerenza richiede – affinché si possa attribuire rilevanza agli elementi passivi del reddito d’impresa – che tra il costo che si vuole dedurre e l’esercizio dell’attività imprenditoriale sussista un nesso di causa ed effetto ed i “costi da reato” non hanno alcun rapporto di carattere funzionale con l’esercizio dell’attività di impresa perché evidentemente estranei all’attività di questa (cfr. amplius Sez. 3 n. 42994 cit.).
7.1.3. In definitiva, quindi, il provvedimento impugnato non ha omesso di considerare l’esistenza di una differente interpretazione normativa, fatta propria dal Giudice per le indagini preliminari che aveva diversamente determinato le somme da sequestrare, ma al contempo ha aderito – non acriticamente ma con autonomia di valutazione che viene censurata peraltro senza riscontro alcuno, non potendosi ovviamente discorrere di adesione acritica solamente perché viene privilegiata una tesi rispetto ad un’altra – al principio in forza del quale, in tema di reati tributari, la regola della indeducibilità dei componenti negativi del reddito relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di delitti non colposi trova applicazione anche per i costi esposti in fatture che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi nell’ambito di una frode c.d. carosello, trattandosi di costi comunque riconducibili ad una condotta criminosa (la norma in questione limitandosi a precisare una regola per le procedure di accertamento tributario ai fini delle imposte sui redditi, senza alcuna incidenza sulla configurabilità delle condotte di dichiarazione fraudolenta punite dall’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000).
Va da sé che non si è pertanto in presenza di un vizio di motivazione denunciabile a norma dell’art. 325 cod. proc. pen. (v. supra), mentre il tema di diritto è stato risolto conformemente all’insegnamento di questa Corte.
Ogni ulteriore questione sul merito della vicenda è estranea al giudizio di legittimità.
D’altronde anche parte ricorrente ha sollevato un unico profilo di censura, cui questa Corte aveva già fornito risposta, in specie condivisa dal provvedimento impugnato, nei termini sinteticamente riportati.
7.1.4. Va quindi ribadito che la disposizione di cui all’art. 14, comma 4-bis, della legge n. 537 del 1993 – siccome modificato dall’art. 8 del d.l. n. 16 del 2012, convertito in legge n. 44 de! 2012 – non esplica alcuna rilevanza ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa in relazione al reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, perché trattasi di previsione che, nel prevedere l’indeducibilità dei soli componenti negativi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di delitti non colposi, si limita a stabilire una regola per le procedure di accertamento tributario ai fini delle imposte sui redditi, ma non implica la deducibilità di costi e spese esposti in fatture riferite a soggetti diversi da quelli effettivi.
7.2. In relazione poi al terzo motivo di ricorso, è stato anche recentemente, e decisivamente, osservato che, in tema di reati tributari di cui all’art. 1, comma 143, legge 24 dicembre 2007, n. 244, oggi sostituito dall’art. 12-bis, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto corrispondente all’imposta evasa può essere disposto con riferimento agli illeciti commessi a partire dall’entrata in vigore della legge n. 244 del 2007 (1 gennaio 2008) e dalla corrispondente annualità di imposta, e non da quella relativa all’entrata in vigore della legge 6 novembre 2012, n. 190, atteso che l’integrale rinvio contenuto nel citato art. 1 all’art. 322-ter cod. pen., nella formulazione all’epoca vigente, riguarda entrambe le previsioni di cui ai commi 1 e 2, che sono state formulate con riferimento alla distinta categoria dei delitti contro la P.A. (è stato così ritenuto infondato il motivo di ricorso con il quale si deduceva l’inapplicabilità del sequestro per equivalente del profitto del reato di evasione tributaria in quanto commesso anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 190 del 2012 che, modificando il comma primo dell’art. 322-ter cod. pen., ha introdotto la possibilità di confiscare anche il profitto dei delitti contro la P.A. ivi previsti)(Sez. 6, n. 10598 del 30/01/2018, Cristaudo, Rv. 272720).
Ciò posto, non può ravvisarsi alcuna inammissibilità del vincolo, il profitto in tesi conseguito essendo già ricompreso nel periodo di vigenza della legge.
8. Alla stregua dei rilievi che precedono, anche il ricorso autonomamente proposto dal G. non va accolto.
8.1. In proposito, infatti, se sono state riproposte sostanzialmente le medesime censure svolte dagli altri ricorrenti, va semmai ulteriormente esplicitato, quanto alla successione di leggi, che la novella nulla ha innovato rispetto alla previgente disciplina.
Se infatti la nuova disposizione ha, da un lato, cancellato il precedente principio (secondo il quale “nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti”) ha, dall’altro, confezionato una regola valida esclusivamente per il procedimento tributario e che, se letta nel suo complesso, non ha alcun senso per il procedimento penale e per gli atti, compresi i provvedimenti cautelari, che possono essere compiuti anteriormente all’esercizio dell’azione penale.
Al riguardo, invero, è stato infatti affermato (cfr. la norma cit.) che sostenere l’indeducibilità – collegandola a delitti non colposi, per i quali il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, per i quali sia stato emesso il decreto che dispone il giudizio o la sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice, fondata sulla prescrizione – e comunque affermare che – qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione, ovvero una sentenza (“definitiva”) di non luogo a procedere fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla prescrizione, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’articolo 529 del codice di procedura penale – compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione già prevista, e dei relativi interessi, significa dettare regole irricevibili e senza senso per il procedimento penale.
Al contrario, esse appaiono tutte funzionali per l’accertamento tributario. In tal modo si spiega la ragione per la quale, appunto a determinati epiloghi del procedimento penale, compete, in sede tributaria, “il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi”. Ne consegue che i costi documentati in fatture per operazioni soggettivamente inesistenti non possono essere dedotti ai fini delle imposte dirette dal committente/cessionario, che consapevolmente li abbia sostenuti, in quanto essi sono espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività dell’impresa, comportando la cessazione dell’indefettibile requisito dell’inerenza tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale.
Perciò la consapevolezza da parte del contribuente di partecipare ad un sistema sofisticato di frode fiscale comporta tuttora l’indeducibilità di qualsiasi componente negativo (costi o spese) riconducibile a fatti, atti o attività qualificabili come reato,. per violazione del principio di inerenza, laddove la mancanza di tale consapevolezza (ex art. 14, comma 4-bis, come novellato) comporta la deducibilità del costo, salvo che i componenti negativi del reddito siano comunque relativi a beni e servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività, che configurino condotte delittuose non colpose (cfr. complessivamente, in motivazione, Sez. 3, n. 42994 cit.).
8.2. In conclusione, pertanto, il provvedimento impugnato va esente dalle ragioni di censura azionabili, sia perché, altresì richiamando la giurisprudenza formatasi sul punto, replica quantomeno implicitamente alle considerazioni della difesa ribadendo il concetto di non inerenza calandolo nella realtà del procedimento, sia infine perché i rilievi di inadeguatezza della motivazione (cfr. ad es. pag. 7 del ricorso) si risolvono in realtà in una censura sulla completezza e logicità della motivazione, non consentita in questa sede.
9. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
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