CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 dicembre 2019, n. 34558
Pubblico impiego – Scambio di mail intercorso tra le parti da intendere come manifestazione dell’intento di giungere ad una risoluzione consensuale del rapporto – Assenza effetti negoziali vincolanti – Sottoscrizione dell’accordo in una successiva fase – lnterpretazione dei contratti e degli atti prodromici – Compito esclusivo del giudice del merito, censurabile solo per violazione dei canoni ermeneutici ex art. 1362 c.c. e seguenti ss
Ritenuto che
la Corte d’Appello di Roma, riformando la pronuncia del Tribunale della stessa città, ha rigettato la domanda con la quale A. I., già dipendente con funzioni dirigenziali dell’Agenzia delle Entrate, aveva chiesto la condanna della parte datoriale al pagamento della somma di euro 103.592,94, o in subordine la riassunzione per due anni o in ogni caso il risarcimento del danno, in relazione ad un accordo ex art. 40 C.C.N.L. avente ad oggetto la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, con corresponsione di 18 mensilità di retribuzione, poi non adempiuto dall’Agenzia sul presupposto della risoluzione del rapporto stesso per sopraggiunti limiti di età;
la Corte territoriale riteneva che lo scambio di e-mail intercorso tra le parti fosse da intendere come manifestazione dell’intento di giungere ad una risoluzione consensuale del rapporto/ma ancora senza effetti negoziali vincolanti, per il fatto che la sottoscrizione dell’accordo sarebbe dovuta intervenire in una successiva fase, con riferimento alla quale sarebbe stato altresì necessario stabilire anche la data della cessazione del rapporto, elemento essenziale in mancanza del quale non si poteva affermare l’esistenza di un efficace vincolo contrattuale; d’altra parte, l’azione non era stata impostata come diretta ad ottenere risarcimento a titolo precontrattuale e dunque nulla poteva essere riconosciuto;
avverso la predetta sentenza l’I. ha proposto ricorso per cassazione con un unico articolato motivo, poi illustrato da memoria, cui ha resistito con controricorso l’Agenzia delle Entrate;
Considerato che
con l’unico articolato motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) degli artt. 1326, 1372 e 1453 c.c., nonché dell’art. 40 del C.C.N.L. del personale dirigente Area VI, sostenendo che tra le parti era già sorto un contratto vincolante, mentre la indicazione del termine di cessazione del servizio non aveva natura essenziale ai fini della conclusione dell’accordo stesso, così come l’invito alla futura stipula era da intendere alla stregua di una mera formalizzazione successiva di un accordo già perfezionatasi, tenuto anche conto che l’accettazione della proposta da parte del dipendente era stata indicata dalla stessa Amministrazione come “irrevocabile”;
il motivo è inammissibile; è pacifico (Cass. 27 marzo 2012, n. 4919; Cass. 27 settembre 2006, n. 21019; in tema di avvenuta conclusione o meno del contratto, Cass. 23 agosto 2006, n. 18375) che l’interpretazione dei contratti e degli atti ad essi prodromici sia compito esclusivo del giudice del merito, censurabile soltanto per violazione dei c.d. canoni ermeneutici (art. 1362 ss. c.c.), come nel caso di specie non è avvenuto; del resto, l’interpretazione fornita dalla Corte territoriale è una non implausibile lettura degli atti intercorsi tra le parti, tra l’altro coerente con l’intrinseco scopo anticipatorio della previsione collettiva, in sé vanificato nel momento stesso in cui poteva fruirsi di una sopravvenuta e diversa causa di cessazione del rapporto, così come con la pacifica (v. ricorso per cassazione, pag. 10, punto 1.2 in fine) esigenza datoriale di fissare l’effettiva cessazione dal servizio sulla base delle proprie esigenze organizzative;
con il motivo di ricorso si prospetta in definitiva un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento espressi dal giudice di merito, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione. (Cass. S.U. 25 ottobre 2013, n. 24148); le spese del giudizio sono da regolare secondo soccombenza;
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.500,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
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