CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 26746 depositata il 18 settembre 2023
Lavoro – Credito per indennità di fine rapporto – Credito per incassi su clienti – Controvalore di prodotti non rinvenuti con inventario – Violazione patto di non concorrenza – Penale – Determinazione dell’ammontare della penale – Rigetto
Rilevato che
1. La Corte di appello di Venezia ha confermato la sentenza del Tribunale di Verona che, decidendo la cause riunite proposte dall’agente G.V. e dalla preponente P.C. s.p.a., aveva accertato un credito del V. per indennità di fine rapporto (a titolo di Firr, indennità suppletiva e indennità sostitutiva del preavviso) ed un concorrente credito della società P.C. in relazione ad incassi su clienti che non erano stati versati, al controvalore di prodotti non rinvenuti in sede di inventario oltre che a titolo di penale per la mancata osservanza del patto di non concorrenza. Per l’effetto, effettuata la compensazione, aveva condannato l’agente al pagamento della somma di € 99.770,00 oltre accessori.
2. Il giudice di appello ha ritenuto accertato che l’agente nel biennio successivo alla cessazione del rapporto avesse violato il patto di non concorrenza che lo vincolava alla società P.C. ed ha evidenziato che, in base all’accordo intercorso tra le parti, l’inadempimento era sanzionato con una penale da quantificarsi in una somma pari all’indennità per il patto di non concorrenza che l’agente era tenuto a restituire nella misura in cui era stata pagata o anticipata. La Corte ha poi escluso che in applicazione dell’art. 14 dell’A.E.C. fosse possibile ridurne l’importo ad € 12.500,00. A tal proposito ha osservato che tra le parti erano intercorsi diversi e più favorevoli accordi che precludevano l’applicazione dell’A.E.C..
3. Per la cassazione della sentenza prone ricorso G.V. che articola due motivi ai quali resiste con tempestivo controricorso la P.C. s.p.a. che ha comunicato memoria illustrativa.
Ritenuto che
4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360 n. 3) c.p.c., con riferimento all’art. 1751 bis c.c., art. 7 AEC del 13.02.2009, art. 1460 c.c. e art. 1453 c.c., in quanto avrebbe omesso di rilevare l’inefficacia del patto di non concorrenza post contrattuale inter partes, e quindi degli obblighi dallo stesso derivanti in capo all’agente, alla luce dell’omessa corresponsione da parte della mandante della relativa indennità, che avrebbe dovuto determinare l’invalidità / risoluzione del patto medesimo.
4.1. Ad avviso del ricorrente erroneamente la Corte di merito avrebbe omesso di rilevare che il patto di non concorrenza sottoscritto era inefficace non essendo stato adempiuto dalla società l’obbligo di versare la relativa indennità, di natura non provvigionale, al momento della risoluzione del rapporto, in conformità a quanto disposto dall’art. 1751 bis c.c. e perciò ne era stata chiesta in giudizio la risoluzione (e non l’adempimento come pure si sarebbe potuto). Osserva che l’obbligo di non concorrenza sarebbe sorto solo per effetto del pagamento dell’indennità e dunque nella specie non era mai venuto ad esistenza. Deduce infine che, anche a voler ritenere inadempiuto il patto di non concorrenza da parte dell’agente in ogni caso stante la richiesta di risoluzione avanzata nulla poteva essere chiesto non essendo ravvisabile alcun inadempimento.
5. Il motivo è infondato.
5.1. Va rilevato che con accertamento di fatto non censurato la Corte di merito ha verificato che qualche mese dopo la cessazione del rapporto, e comunque prima della scadenza del termine di due anni previsto nel patto di non concorrenza, il V. aveva violato il patto sottoscritto. Conseguentemente, in esito all’interpretazione del patto, ha ritenuto che non fosse dovuta l’indennità prevista a compensazione dell’impegno di non agire in concorrenza per il tempo convenuto. Ha poi ritenuto che la circostanza che la datrice di lavoro avesse trascurato di versare l’indennità all’atto della cessazione del rapporto di lavoro integrava un inadempimento dal quale però non derivava l’inefficacia del patto.
5.2. Tanto premesso ritiene il Collegio che la censura mossa alla sentenza con il ricorso sia in primo luogo generica. Si suggerisce infatti che l’inadempimento dell’obbligo datoriale di versare l’indennità avrebbe giustificato la risoluzione del patto di non concorrenza ma dalla sentenza impugnata, e dalla sentenza di primo grado pure riprodotta, non si evince che in giudizio l’agente abbia agito per ottenere la risoluzione del patto né tanto meno che tale questione sia stata tempestivamente posta in via di eccezione. A ciò si aggiunga che per effetto del patto di non concorrenza stipulato dalle parti l’obbligo per l’agente era sorto all’atto della sottoscrizione e non risulta, dall’interpretazione datane dal giudice di merito che ne è incaricato, che si trattasse di obbligo condizionato all’avvenuto pagamento dell’indennità.
Al contrario, il giudice di merito ha accertato che il mancato pagamento dell’indennità costituiva la reazione datoriale all’inadempimento dell’agente. Ne consegue che, ovviamente, quest’ultimo nulla avendo ricevuto nulla deve restituire ma resta comunque tenuto a pagare la penale prevista dal patto e connessa proprio all’inadempimento dell’obbligo di non concorrenza.
6. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. dell’art. 14 dell’A.E.C. del 20.3.2002 con riferimento alla determinazione dell’ammontare della penale che, in base all’accordo era stata parametrata all’importo dovuto all’agente per l’indennità connessa all’obbligo di non concorrenza assunto. Ritiene il ricorrente che non essendo stato versato nulla a tale titolo nulla doveva essere restituito. Nella chiarezza della volontà espressa dalle parti la Corte non avrebbe potuto discostarsi dall’interpretazione letterale della clausola. Quanto poi all’entità della penale ed alla ritenuta impossibilità di ridurla sostiene che la Corte di merito avrebbe erroneamente escluso l’applicazione della normativa collettiva sebbene questa fosse più favorevole all’agente. Infine sarebbe ugualmente errata la sentenza nella parte in cui ha escluso la riducibilità della penale in ragione della sua eccessiva onerosità tenuto conto del fatto che la società non aveva mai fornito la prova del danno sofferto per effetto dell’attività in concorrenza svolta dall’agente.
7. Anche questo motivo non può essere accolto.
7.1. Come è noto l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un contratto o di una sua specifica clausola integra una indagine di fatto che è affidata al giudice di merito. Ne consegue che il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’ interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (cfr. Cass. 09/04/2021 n. 9641, 15/11/2017n. 27136 e anche 09/10/2012 n. 17168).
7.2. Tanto premesso nel caso in esame pur denunciandosi una violazione dell’interpretazione letterale in definitiva se ne propone una lettura alternativa e contrapposta rispetto a quella del tutto aderente al tenore letterale della clausola che è stata letta nella sua interezza dando conto sia del tenore testuale ma anche, correttamente, della ragione specifica della sua previsione e del carattere sanzionatorio in funzione di deterrenza dal compimento di attività anche solo potenzialmente lesive. Si tratta di una lettura che appare coerente con la funzione della clausola e non si espone alle censure che le vengono mosse.
7.3. Quanto alla denegata riduzione dell’importo va ricordato che il criterio cui il giudice deve porre riferimento per esercitare il potere di riduzione della penale non è la valutazione della prestazione in sé astrattamente considerata, ma l’interesse che la parte ha, secondo le circostanze, all’adempimento della prestazione cui ha diritto, tenendosi conto delle ripercussioni dell’ inadempimento sull’equilibrio delle prestazioni e della sua effettiva incidenza sulla situazione contrattuale concreta (Cass. 09/05/2007 n. 10626, 04/04/2006 n. 7835 ed anche Cass. n. 15497 del 2002 e n. 2655 del 1997). A tali principi si è attenuta la Corte di merito che correttamente ha valutato la clausola nel suo complesso sia con riguardo ai benefici assicurati che con riguardo agli obblighi richiesti ed ha ritenuto proporzionata, con valutazione di merito riservatale, la misura della penale convenuta.
8. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in e 5.500,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.