CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 febbraio 2022, n. 4569

Lavoro – Contratto di collaborazione – Ragioniere commercialista – Prestazioni c.d. protette in favore dei clienti della società – Prestazioni professionali eseguite per la società direttamente – Determinazione del compenso

Rilevato che

1. con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Ancona, in riforma della sentenza del Tribunale di Macerata, accogliendo la domanda proposta da M.S.R. nei confronti della società T.I. s.r.l. – esclusa, preliminarmente, l’improponibilità dell’azione dedotta dalla società in considerazione della clausola compromissoria prevista nel contratto individuale stipulato l’1.1.1994 – ha accertato la parziale nullità del contratto di collaborazione stipulato tra le parti (a fronte del divieto, ex art. 2 del R.D. n. 1815 del 1939 di svolgimento, in forma societaria, di attività di consulenza commerciale e legale, c.d. protetta) e ha determinato il compenso spettante per l’attività di prestazione di servizi tecnico commerciali e legali alle imprese clienti della società in complessivi euro 139.746,53, ai sensi degli artt. 2233 (per le attività non rientranti nel divieto di cui al R.D. n. 1815) e 20141 cod.civ. (per le attività c.d. protette in favore di clienti della società);

2. la Corte territoriale, richiamando un proprio precedente concernente un collaboratore, anch’esso ragioniere commercialista, della stessa società (statuizione confermata da questa Corte di Cassazione con sentenza n. 15708 del 2014), ha affermato la nullità parziale della pattuizione intercorsa tra le parti con riguardo all’esecuzione di prestazioni c.d. protette in favore dei clienti della società (volta ad eludere il, ratione temporis, divieto di esercizio della professione in forma societaria) e la validità di tutte le prestazioni professionali (di assistenza o consulenza in materia tecnica, legale, commerciale, amministrativa contabile o tributaria) da eseguirsi in favore della società direttamente nonché di quelle non protette da eseguirsi in favore dei clienti di questa; ritenuto che la nullità parziale del contratto travolgeva integralmente la clausola determinativa del compenso (in quanto concordato con riferimento unitario al complesso delle prestazioni dedotte in contratto, protette e non protette) ha, poi, proceduto a determinare la somma spettante alla collaboratrice in relazione alla tariffa professionale delle prestazioni di redazione e verifica di bilanci, dichiarazioni IVA e dei redditi in favore dei clienti della società, sulla base dell’art 2233 cod.civ., in relazione alle prestazioni di natura non protetta, con riferimento alle tariffe professionali vigenti, e, con riferimento alle prestazioni c.d. protette eseguite in favore dei clienti, ex art. 2041 cod.civ., a titolo di arricchimento senza causa mediante ricorso alle tariffe professionali quali parametro di liquidazione dell’indennizzo; infine, ha respinto l’eccezione di parziale estinzione del credito sollevata dalla società, ritenendo che il prospetto redatto e sottoscritto dalla R. e attestante l’avvenuta corresponsione di Lire 82.967.240 per l’anno 1996 (da imputarsi invece, secondo la società, al 1997) era confermato dall’accertato svolgimento della prestazione per detto anno 1996 e doveva, dunque, ritenersi una quietanza con imputazione del pagamento – da parte del creditore – ai sensi dell’art. 1195 cod.civ.

3. avverso tale sentenza ricorre la società con cinque motivi, cui resiste la lavoratrice con controricorso illustrato da memoria.

Considerato che

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione dell’art. 339, comma 1, cod.proc.civ.in relazione all’art. 819-ter, comma 1, cod.proc.civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., avendo, la Corte distrettuale, trascurato che la R. era anche amministratore unico della società, con conseguente configurabilità di un rapporto di lavoro professionale autonomo e possibilità di demandare ad arbitri le eventuali controversie; inoltre, la sentenza del Tribunale, che aveva dichiarato il difetto di giurisdizione a fronte della clausola compromissoria non poteva essere appellata, vista la previsione dell’art. 819-ter cod.proc.civ., ma semmai doveva essere oggetto di istanza di regolamento di competenza;

2. con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1418 cod.civ., ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., avendo, la Corte distrettuale, trascurato di valutare che il contratto stipulato tra le parti prevedeva sia prestazioni, protette e non protette, da svolgere a favore della società sia la disponibilità a rendere le prestazioni protette (per le quali era abilitata, essendo in possesso del titolo di ragioniera commercialista regolarmente iscritta all’Albo) a favore dei clienti; conseguentemente, la Corte territoriale avrebbe dovuto configurare l’accordo come patto parasociale nella forma del contratto a favore di terzi nell’interesse della società, eventualmente nullo ex art. 1345 cod.civ., con indagine istruttoria sull’intento illecito comune ad entrambi i contraenti;

3. con il terzo motivo si denuncia violazione degli artt. 1418, 1419 cod.civ. anche in relazione all’art. 1325 cod.civ., ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., avendo, la Corte distrettuale, errato nel ritenere che la nullità parziale del contratto travolgeva la pattuizione dei compensi (pari al 30% degli utili), potendo, la nullità parziale, influire esclusivamente sulla quantità delle prestazioni ma non sui compensi pattuiti;

4. con il quarto motivo si denuncia violazione e errata e falsa applicazione degli artt. 2233 e 2041 cod.civ., ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., avendo, la Corte distrettuale, trascurato che non sussistevano motivi per invalidare la previsione della clausola negoziale di pattuizione dei compensi stipulata tra le parti e non ricorrendo le condizioni di cui all’art. 2041 cod.civ. ossia il danno di un’altra persona, posto che il compenso della socia/amministratore unico R. non ha subito alcun mutamento né alcuna riduzione;

5. con il quinto motivo si denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 1195 cod.civ., anche in relazione agli artt. 2423bis, 2424, 2728 cod.civ., ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., avendo, la Corte distrettuale, trascurato che il debitore (società) e il creditore (la lavoratrice-amministratore unico) si confondevano nella stessa persona e non essendovi prova, nel bilancio della società predisposto dalla stessa R., che fossero appostati debiti della società verso la stessa; non poteva pertanto applicarsi lo schema dell’imputazione delle somme di cui all’art. 1195 cod.civ., posto che il prospetto sottoscritto dalla R. era una semplice scheda contabile idoneo esclusivamente a provare che in quel periodo (anno 1997) la lavoratrice aveva prelevato dalle casse della società la somma di oltre 128 milioni di Lire;

6. il primo motivo di ricorso non è fondato;

6.1. anche tralasciando la novità della questione relativa allo svolgimento dell’incarico di amministratore unico da parte della R. (profilo che non risulta affatto affrontato nella sentenza impugnata e la ricorrente non indica in quale atto difensivo e in quale momento processuale la questione sarebbe stata introdotta), questa Corte ha affermato che in tema di arbitrato, la decisione del giudice ordinario, che affermi o neghi l’esistenza o la validità di un arbitrato irrituale, e che, dunque, nel primo caso – come nel caso di specie – non pronunci sulla controversia dichiarando che deve avere luogo l’arbitrato irrituale e nel secondo dichiari, invece, che la decisione del giudice ordinario può avere luogo, non è suscettibile di impugnazione con il regolamento di competenza, in quanto la pattuizione dell’arbitrato irrituale determina l’inapplicabilità di tutte le norme dettate per quello rituale, ivi compreso l’art. 819 ter c.p.c. (Cass. n. 19060 del 2017; Cass. n. 1158 del 2013);

7. il secondo motivo risulta inammissibile sia per mancato corretto riferimento alla ratio decidendi sia per difetto di interesse ex art. 100 cod.proc.civ. (sull’applicazione del suddetto principio anche in sede di impugnazione, cfr. Cass. n. 1236 del 2012, Cass. n. 594 del 2016), poiché la Corte di appello ha richiamato espressamente alcune parti della motivazione di questa Corte (n. 15708 del 2014 resa in fattispecie analoga, nei confronti della medesima società) ove si faceva riferimento alla nullità parziale del contratto stipulato tra società e collaboratore ai sensi degli artt. 1345 e 1418 cod.civ., per poi affermare di condividerne integralmente il ragionamento giuridico e l’esito, posto che il contratto (e dunque la concorde volontà delle parti) aveva previsto l’esecuzione di prestazioni c.d. protette in favore di clienti della società con ciò eludendo il divieto di esercizio della professione protetta in forma societaria (contenuto dall’art. 2 R.D. n. 1815 del 1939). La Corte territoriale ha, dunque, affermato la nullità parziale del contratto stipulato tra le parti sia richiamando la comune intenzione delle parti (cristallizzata nell’accordo negoziale) sia la violazione di norma;

8. il terzo, il quarto ed il quinto motivo, che attengono al compenso riconosciuto alla lavoratrice, sono inammissibili per plurimi motivi;

8.1. preliminarmente, le censure sono prospettate con modalità non conformi al principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, secondo cui parte ricorrente avrebbe dovuto, quantomeno, trascrivere nel ricorso il contenuto (o la parte saliente) del contratto stipulato tra le parti nel 1994 e del prospetto-quietanza redatto e sottoscritto dalla R., potendosi solo così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto a presidio del suddetto principio dagli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod.pro.civ.;

8.2. l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico (nel caso di specie la volontà delle parti di prevedere un compenso unitario per le distinte attività di amministratore unico e di collaboratore coordinato e continuativo e il valore di quietanza per l’anno 1997 del prospetto redatto e sottoscritto dalla lavoratrice) si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito, e il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. cod.civ., non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione (mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti) ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti (censure che il ricorrente non ha proposto) non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente con quella accolta nella sentenza impugnata (cfr. da ultimo Cass. n. 9461 del 2021);

8.3. in ordine alla contestata ricorrenza dei requisiti previsti dall’art. 2041 cod.civ. le censure sono inoltre inammissibili posto che il motivo deduce, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito (in specie, l’accertamento della volontà delle parti espressa nell’accordo del 1994 circa la spettanza dei compensi): in tal modo si consentirebbe la surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, grado di merito (Cass. n. 8758 del 2017);

9. in conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite sono liquidate secondo il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.;

10. sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002;

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 20012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.