Corte di Cassazione sentenza n. 4400 depositata il 20 febbraio 2020
compenso amministratori – delibera presupposto per la deducibilità
FATTI DI CAUSA
La società U. spa ricorre contro la sentenza n. 57/6/11 della CTR del Veneto con la quale è stato respinto l’appello contro la sentenza della CTP di Vicenza che aveva parzialmente respinto il ricorso contro l’avviso di accertamento n. R87030300441/2008, emesso ai sensi dell’art. 41 bis dpr 600 del 1973, con cui veniva ripreso a tassazione ai fini irpeg, per l’anno 2003, l’importo di euro 60.000 rappresentante le remunerazioni aggiuntive attribuite a due dei quattro amministratori delegati della società stessa.
La società adduceva la legittimità di tale costo ai sensi dell’art. 2389 c.c., essendo stati tutti i consiglieri di amministrazione nominati amministratori delegati, ed essendo state attribuite ai due amministratori in questione particolari cariche che giustificavano le remunerazioni aggiuntive.
A fronte del rigetto parziale del ricorso da parte della CTP (che annullava l’avviso di accertamento solo ai fini irap) e del rigetto dell’appello da parte della CTR (che dava atto che la controversia in appello riguardava solo l’irpeg, non avendo l’ufficio appellato la pronuncia di annullamento ai fini irap), la società ricorre a questa Corte per la cassazione di quest’ultima decisione sulla base di sette motivi.
Si costituisce l’ufficio con controricorso.
La società ha depositato memoria del 24.9.2019.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la società ricorrente deduce vizio della sentenza emessa dalla CTR di Venezia ex art. 360 n. 3 c.p.c. per violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto. Violazione e/o falsa applicazione del disposto di cui all’art. 2381 (ora comma secondo) c.c., dell’art. 2389 c.c. e dell’art. 109 del dpr n. 917 del 1986 (tuir). La CTR ha errato sull’interpretazione delle norme che consentono al consiglio di amministrazione di delegare proprie attribuzioni ad un comitato esecutivo composto da tutti i suoi componenti come amministratori delegati
Con il secondo motivo deduce vizio della sentenza emessa dalla CTR di Venezia ex art. 360 n. 5 c.p.c. per omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. I giudici di seconde cure trascurano di rilevare la presenza di una clausola statutaria (art. 21) documentalmente provata agli atti, che legittima il cda a nominare “uno o più amministratori delegati fissandone le attribuzioni e le retribuzioni di legge”.
Con il terzo motivo deduce vizio della sentenza emessa dalla CTR di Venezia ex art. 360 n. 3 c.p.c. per violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto. Violazione e/o falsa applicazione del disposto di cui all’art. 2389, secondo comma, (ora terzo) c.c. In ogni caso, nell’ipotesi in esame, le “rimunerazioni” di cui all’art. 2389, secondo comma, (ora terzo) c.c. sono state deliberate nei confronti di due soltanto dei quattro amministratori investiti di “particolari cariche”.
La CTR ha errato laddove ha ritenuto che le remunerazioni da riconoscersi agli amministratori delegati non possano essere deliberate dal CdA i cui membri siano tutti amministratori delegati, come nella specie.
Con il quarto motivo deduce vizio della sentenza emessa dalla CTR di Venezia ex art. 360 n. 3 c.p.c. per violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto. La CTR del Veneto ha erroneamente preteso di sussumere la fattispecie in esame sotto il primo comma dell’art. 2389 c.c. Invero l’unica norma idonea a regolarla è quella di cui al secondo (ora terzo) comma dell’art. 2389 c.c.
La CTR ha erroneamente interpretato la sentenza n. 21933 del 2008 di questa Corte a sezioni unite.
I primi quattro motivi possono essere trattati congiuntamente perché attengono a questioni che, in sostanza, sono strettamente connesse tra loro e, nel loro insieme, rappresentano il cuore della controversia.
In estrema sintesi, occorre, infatti ricordare la vicenda di cui ci si occupa.
La società in questione aveva quattro consiglieri di amministrazione (che erano anche soci), e tutti e quattro erano stati nominati amministratori delegati, con un compenso di 10.000 euro annui ciascuno. Due dei quattro amministratori delegati avevano, invece, ricevuto nell’anno in contestazione (2003) il compenso di 40.000 euro ciascuno, con la giustificazione che così era stato deliberato in virtù dell’attribuzione ad essi di compiti particolari.
L’ufficio ha recuperato a tassazione non il compenso agli amministratori delegati, ma la speciale remunerazione attribuita a due di essi, e quindi l’importo di 60.000 euro (i 30.000 euro che ciascuno dei due ha ricevuto, in aggiunta alla retribuzione “ordinaria” degli amministratori delegati).
La CTR, rigettando l’appello, ha confermato la ripresa a tassazione di tale importo, partendo dal presupposto che non sia consentita la nomina ad amministratori delegati di tutti i membri del consiglio di amministrazione.
Questo, logicamente, dovrebbe fare venire meno la deducibilità quanto meno della remunerazione aggiuntiva concessa a due di essi, negandosi che anche essi, come gli altri, potessero essere nominati amministratori delegati.
La formulazione dell’art. 2381 c.c. fino al 2004 (e quindi applicabile ai fatti di causa) nel senso che:
Il consiglio di amministrazione, se l’atto costitutivo o l’assemblea lo consentono, può delegare le proprie attribuzioni ad un comitato esecutivo composto di alcuni dei suoi membri, o ad uno o più dei suoi membri determinando i limiti della delega. Non possono essere delegate le attribuzioni indicate negli articoli 2423, 2443, 2446 e 2447
poteva indubbiamente portare a ritenere che la nomina ad amministratori delegati di tutti i consiglieri di amministrazione non fosse possibile, atteso che la norma faceva riferimento ad “alcuni” consiglieri, per quanto l’apertura successiva secondo cui la delega poteva essere concessa a “più membri” del consiglio di amministrazione non vietava che essa potesse essere concessa a tutti. Per inciso, tale dubbio non è risolto neppure nella formulazione successiva al 2004, in cui il comma 2 della stessa norma afferma che
2. Se lo statuto o l’assemblea lo consentono, il consiglio di amministrazione può delegare proprie attribuzioni ad un comitato esecutivo composto da alcuni dei suoi componenti, o ad uno o più dei suoi componenti.
Ora, come principio generale, la distinzione tra consiglieri esecutivi e non esecutivi è classica del nostro sistema societario, oggetto di molte analisi per i problemi che si pongono; la tradizione è che il CdA abbia un potere di controllo sull’operato dei consiglieri esecutivi; se tutti i membri del CdA sono consiglieri esecutivi, viene meno questa distinzione nella “governance” della società
Va anche detto che nel codice di autodisciplina delle società quotate (non quella del caso di specie, che comunque è pur sempre una società di capitali) vi è una chiara distinzione tra consiglieri non esecutivi ed esecutivi, quindi è escluso che l’intero CdA possa avere compiti esecutivi.
Lo stesso statuto della società in questione, all’art. 21, si riferisce a “uno o più amministratori delegati”; è vero che “più” non pone limiti quantitativi, ma non vi è neppure la espressa previsione di “tutti”
Peraltro, se tutti i consiglieri fossero amministratori delegati non si capirebbe come si potrebbero attuare altre previsioni dell’art. 2381 c.c., per esempio gli obblighi del comma 3 e 5, che comunque esistevano anche prima che la nuova norma entrasse in vigore; la stessa revoca, cui si riferisce la giurisprudenza anche di questa Corte (sez I n. 7587 del 2016).
Vedi cass n. 25085 del 7.12.2016 il cda può delegare le proprie attribuzioni ai singoli consiglieri anche disgiuntamente
In ogni caso, come ricordato più volte dal contribuente, la norma che si riferisce allo specifico importo recuperato a tassazione – che, è sempre bene ricordare, non è il compenso degli amministratori delegati, ma la speciale remunerazione concessa a due di essi – non è l’art. 2381 c.c., bensì l’art. 2389 c.c., che nella formulazione vigente all’epoca dei fatti recitava
Compensi degli amministratori
1. I compensi e le partecipazioni agli utili spettanti ai membri del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo sono stabiliti nell’atto costitutivo o dall’assemblea.
2. La rimunerazione degli amministratori investiti di particolari cariche in conformità dell’atto costitutivo è stabilita dal consiglio di amministrazione, sentito il parere del collegio sindacale.
Venendo quindi in rilievo, ai fini di causa, il comma 2.
La CTR sul punto ha ritenuto che le remunerazioni da riconoscersi agli amministratori delegati ai sensi di tale norma non potessero essere deliberati dal CdA i cui membri fossero tutti amministratori delegati, come nella specie, per cui ha ritenuto che nel caso concreto si versasse in un’ipotesi esulante dall’art. 2389 comma 2 c.c., superando così implicitamente la previsione dello statuto societario.
In realtà, però, dagli atti di causa, ed è stato sostanzialmente rilevato dall’ufficio in controricorso, emerge che i suddetti motivi non sono perfettamente centrati sulla ragione del recupero, in quanto questa è, al di là delle suddette considerazioni, un’altra, chiaramente indicata nell’avviso di accertamento, dedotta dall’ufficio fin dal primo grado ed in controricorso, e non contestata dal ricorrente:
nella delibera del CdA del dicembre 2002 si afferma, in effetti, che per il 2003 il compenso generale degli amministratori sarebbe stato di 10.000 euro ciascuno, tranne che per due di essi per i quali era stabilito in euro 40.000 ciascuno, ma in una delibera successiva, del dicembre 2003, si afferma che il compenso degli amministratori delegati per l’anno 2003 è di 10.000 euro per tutti, mentre sarà di 40.000 per due amministratori nell’anno 2004.
E’ questo dato formale che, anche a volere ammettere la possibilità che tutti i consiglieri di amministrazione siano nominati amministratori delegati e che ad alcuni di questi ultimi sia riconosciuta una remunerazione speciale, ha determinato il recupero dell’importo in questione, apparendo dalla sequenza delle delibere che, infine, per l’anno 2003 il compenso di tutti gli amministratori delegati fosse rimasto di euro 10.000 ciascuno, e che la speciale remunerazione di euro 30.000 ciascuno per due di essi decorresse solo dal 2004.
Se questa è la situazione evidenziata dall’ufficio in controricorso, su cui non vi è specifica contestazione, ciò comporta, a questo punto, l’infondatezza dei motivi dedotti che non sarebbero comunque idonei a determinare la deducibilità di tali importi, avendo questa Corte (Sez. V n. 5349 del 2014) affermato che un compenso non deliberato non è deducibile. In questo senso la corresponsione delle somme in questione non è conforme all’art. 2389 c.c., in quanto non deliberate validamente in tale misura.
Con il quinto motivo deduce vizio della sentenza emessa dalla CTR di Venezia ex art. 360 n. 4 c.p.c. per nullità del procedimento in relazione all’omessa pronuncia in punto di eccepita doppia imposizione. Omesso esame del motivo n. 4 di appello (pag. 16-17 del ricorso in appello).
I compensi ai due amministratori delegati ripresi a tassazione nei confronti della società, sono stati però assoggettati a tassazione in capo alle due persone fisiche, per cui la mancata possibilità di deduzione da parte della società comporta una doppia tassazione in violazione dell’art. 67 dpr n. 600 del 1973.
La CTR non ha preso in considerazione tale argomento, esposto dal contribuente in appello.
Con il sesto motivo deduce vizio della sentenza emessa dalla CTR di Venezia ex art. 360 n. 3 c.p.c. per violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto. Violazione degli artt. 23, 53, e 97 Cost., dell’art. 67 dpr 600 del 1973 e dell’art. 163 del dpr 917 del 1986, violazione del divieto di doppia imposizione.
La situazione evidenziata nel quinto motivo comporta violazione di legge anche sotto i profili evidenziati in quest’ultimo, tali per cui la stessa imposta non può essere applicata più volte in dipendenza dello stesso presupposto, neppure nei confronti di soggetti diversi.
Ora, in merito al quinto motivo è indubbio che la CTR non si sia espressa sul punto.
Tuttavia, questa Corte ha ritenuto (sez V n. 21968 del 2015) che nel giudizio di legittimità, alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c., una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di appello, la Corte di cassazione può evitare la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nei merito sempre che si tratti di questione di diritto che non richiede ulteriori accertamenti di fatto, a maggior ragione quando la stessa questione è proposta anche come “error in judicando”, sotto il profilo della violazione di legge.
Nella specie, quindi, il riscontro della denunciata omissione di pronunzia consente nel contempo di delibare, ai sensi dell’art. 384, comma 2 ultima parte, c.p.c. (come modificato dall’art. 12 l. 40/2006) anche la questione, di puro diritto, introdotta dal sesto motivo.
In questo senso, il motivo è infondato.
Questa Corte si è già espressa sul tema della asserita doppia imposizione in caso del tutto analogo in cui si controverteva della deducibilità, per la società, dei compensi agli amministratori che erano anche soci (non della remunerazione speciale, ma questo non muta la sostanza), e si invocava la violazione del principio in questione in caso di recupero a tassazione, asserendo che, poiché i compensi agli amministratori erano stati assoggettati a tassazione ai fini delle imposte dirette, la ritenuta indeducibilità dei costi si sarebbe risolta in un’illegittima doppia imposizione.
In tale occasione la Corte (sez. V n. 33217 del 2018) ha negato la violazione di tale principio affermando che
In tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’operatività del divieto di doppia imposizione, previsto dall’art. 67 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, postula la reiterata applicazione della medesima imposta in dipendenza dello stesso presupposto. Tale condizione non si verifica in caso di duplicità meramente economica di prelievo sullo stesso reddito, quale quella che si realizza, in caso di partecipazione al capitale di una società commerciale, con la tassazione del reddito sia ai fini dell’IRPEG, quale utile della società, sia ai fini dell’IRPEF, quale provento dei soci, attesa la diversità non solo dei soggetti passivi, ma anche dei requisiti posti a base delle due diverse imposizioni (Cass. n. 19687 del 2011; conf. a Cass. n. 8351 del 2002).
In altri termini, se non vi sono i presupposti per la deducibilità dei compensi agli amministratori, come viene riconosciuto in questa sede con riferimento ai compensi speciali, il fatto che da un lato essi non vengano dedotti dalla base imponibile societaria, e dall’altro rappresentino redditi delle persone fisiche ai quali i compensi sono corrisposti non integra una doppia imposizione in senso giuridico, perché il presupposto della tassazione è diverso. In un caso si tratta di costi non deducibili dalla base imponibile societaria ai fini irpeg assoggettati, per così dire, indirettamente a tassazione. Nell’altro, di redditi percepiti da persone fisiche ed in capo ad esse direttamente tassati.
Con il settimo motivo deduce vizio della sentenza emessa dalla CTR di Venezia ex art. 360 n. 3 c.p.c. per violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto. Violazione e/o falsa applicazione del disposto di cui all’art. 6, comma 2, del d. Ivo 18 dicembre 1997, n. 472.
Le sanzioni sono state illegittimamente irrogate perché sussistevano le condizioni per riconoscere l’esimente di cui all’art. 6 comma 2 del decreto suddetto, attesa l’interpretazione del concetto di “particolari cariche” fornita dall’Agenzia in occasione del recupero degli importi
Il motivo è infondato.
Non si ravvisano, infatti, quelle obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni che vengono in rilievo nel caso di specie, sia perché, come evidenziato, il recupero a tassazione è stato determinato principalmente dalla situazione di fatto emergente dal contenuto delle delibere societarie che da interpretazioni della normativa, sia perché l’esimente ricorre quando la disciplina normativa, della cui applicazione si tratti, contenga una pluralità di prescrizioni, il coordinamento delle quali appaia concettualmente difficoltoso per l’equivocità del loro contenuto, derivante da elementi positivi di confusione.
Nella specie non sussiste tale situazione in ordine al concetto di “particolari cariche” come addotto dal contribuente.
In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza e, considerato il valore della causa, si liquidano in euro 3.000 oltre spese prenotate a debito.
P.Q.M.
Respinge il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in euro 3.000 oltre spese prenotate a debito.
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