TRIBUNALE DI PALERMO – Ordinanza 03 marzo 2020, n. 81
Straniero – Accoglienza dei richiedenti protezione internazionale – Previsione che il permesso di soggiorno per richiesta di asilo non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica. – Decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, art. 4, comma 1-bis, introdotto dall’art. 13, comma 1, [lettera a)], numero 2), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132.
Con ricorso ex art. 700 del codice di procedura civile, depositato il 9 dicembre 2019, S. I. esponeva tra l’altro che: dopo avere fatto ingresso in Italia in data 21 marzo 2017 ed avere presentato istanza di protezione internazionale, la Questura di Palermo provvedeva al rilascio del permesso di soggiorno per «richiesta asilo»; di avere trovato accoglienza presso il Centro di accoglienza straordinario per migranti richiedenti asilo «…», sito in …; di avere inoltrato l’11 luglio 2019 richiesta di iscrizione anagrafica nelle liste dei residenti al Comune di …, che veniva rigettata dall’ufficiale delegato, in virtù della disposizione di cui all’art. 4, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 142/2015, come riformato dal decreto-legge n. 113/2018 e della circolare del Ministero dell’interno n. 15/2018.
Pertanto, agiva in giudizio chiedendo l’emissione di un provvedimento ex art. 700 del codice di procedura civile di condanna del comune a provvedere all’iscrizione nelle liste anagrafiche dei residenti.
Quanto al fumus bonis iuris, deduceva: che il Comune di … aveva effettuato un’errata interpretazione dell’art. 4, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 142/2015, in quanto il decreto del Presidente della Repubblica, n. 223/89 non avrebbe richiesto alcun «titolo per l’iscrizione anagrafica», bensì solo di documentare la propria identità – circostanza che avrebbe potuto essere assolta con l’esibizione del permesso di soggiorno per richiesta asilo; richiamava, inoltre, l’art. 6, comma 7, del decreto legislativo n. 286/98 il quale, ai fini dell’iscrizione anagrafica, si sarebbe limitato a parificare il cittadino italiano a quello straniero regolarmente soggiornante. Precisava, inoltre, che il decreto-legge n. 113/2018 avrebbe semplicemente fatto venire meno la procedura semplificata introdotta precedentemente dalla legge n. 46/2017, senza introdurre nel nostro ordinamento alcuna preclusione o divieto di iscrizione anagrafica per il richiedente asilo.
Per quanto concerne, invece, il presupposto del periculum in mora, esponeva che la mancata iscrizione nelle liste anagrafiche avrebbe impedito al ricorrente di godere di servizi, il cui presupposto essenziale è costituito proprio dall’essere residenti in un determinato territorio, quali: prestazioni socio assistenziali e di welfare locale, servizi inerenti l’istruzione e la formazione, nonché l’iscrizione ai centri per l’impiego e decorrenza del termine per richiedere in futuro la cittadinanza italiana. Chiedeva, pertanto, in via preliminare, di annullare il provvedimento impugnato; in via principale, di emettere, inaudita altera parte, un provvedimento d’urgenza che accerti il diritto del ricorrente all’iscrizione anagrafica, ordinando al Sindaco di procedere all’immediata iscrizione del ricorrente, con vittoria di spese.
Con decreto depositato il 16 dicembre 2019, il giudice istruttore rigettava la richiesta di emissione di un provvedimento inaudita altera parte, fissando l’udienza di comparizione delle parti.
A seguito della notifica del ricorso, si costituiva in giudizio il Comune di …, eccependo in via preliminare il difetto di competenza del giudice adito, in quanto l’art. 3, comma 3 del decreto-legge n. 13/17, stabilendo che «Le sezioni specializzate sono altresì competenti per le cause e i procedimenti che presentano ragioni di connessione con quelli di cui ai comuni 1 e 2», si sarebbe riferito a cause che presentano ragioni di connessione oggettiva propria con i procedimenti previsti dai primi due commi della medesima norma, circostanza non ricorrente nel caso di specie. In conseguenza di ciò, eccepiva altresì l’incompetenza per territorio del Tribunale di Palermo, in favore di quella del Tribunale di Termini Imerese.
In merito al presupposto del fumus boni iuris, deduceva che l’ufficiale dell’anagrafe del comune aveva agito in adempimento della legge che gli precludeva di procedere all’iscrizione anagrafica del richiedente asilo, sulla base di un’interpretazione letterale e teleologica della disposizione in esame; in particolare, rinveniva la ratio della norma nella «precarietà» del permesso rilasciato, considerato inoltre che il legislatore garantisce ai richiedenti asilo il godimento di una serie di diritti di natura sanitaria, di apertura di rapporti di credito, di accoglienza, di svolgimento di attività formativa e lavorativa, anche in assenza di iscrizione nelle liste anagrafiche.
Quanto al periculum in mora, eccepiva la genericità delle allegazioni di parte ricorrente, comunque rilevando che i pregiudizi da lui lamentati sarebbero stati scongiurati dall’art. 5, comma 3, del decreto legislativo n. 142/2015 (c.d. decreto accoglienza), disposizione che avrebbe consentito, in ogni caso, al richiedente asilo l’accesso a tutti i servizi previsti dal decreto nonché a quelli comunque erogati sul territorio nazionale.
Concludeva, pertanto, chiedendo, in via preliminare, la pronunzia di difetto di competenza, in favore del tribunale di Termini Imerese; in via cautelare, il rigetto della domanda, con vittoria di spese; in subordine, l’adozione di ogni altro provvedimento ritenuto opportuno dal giudice.
A scioglimento della riserva assunta, si osserva quanto segue.
1. Eccezione di incompetenza
L’art. 3, comma 3 del decreto-legge n. 13/17 («Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale», convertito in legge con modificazioni dalla legge 13 aprile 2017, n. 46), prevede che «Le sezioni specializzate sono altresì competenti per le cause e i procedimenti che presentano ragioni di connessione con quelli di cui ai commi 1 e 2». Tali commi richiamati, disciplinano difatti la competenza delle (nuove) sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, richiamando dunque talune tipologie di controversie tra le quali possono menzionarsi le controversie concernenti il mancato riconoscimento del diritto di soggiorno sul territorio nazionale ovvero proposte dai richiedenti protezione internazionale come in particolare le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei provvedimenti previsti dall’art. 35 del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, ovvero anche relative al mancato riconoscimento dei presupposti per la protezione speciale a norma dell’art. 32, comma 3, del medesimo decreto legislativo.
Ora, deve ritenersi che la norma di cui al terzo comma, dal dato testuale di generica formulazione («controversie che presentano ragioni di connessione»), non richiami i criteri tecnico-giuridici di connessione oggettiva tra cause previsti dal codice di procedura civile ma, piuttosto, intenda attribuire alle sezioni specializzate ogni controversia che sia legata a quelle di loro stretta competenza, in quanto proposta da soggetti richiedenti protezione internazionale e concernenti tematiche afferenti alla protezione stessa. E ciò in quanto la ratio deve essere individuata nell’esigenza di scongiurare giudicati contrastanti o contraddittori, ogni qual volta vi siano domande legate tra loro da quale profilo di connessione concernente la causa petendi o il petitum.
Nel caso di specie, dunque, la domanda di richiesta di iscrizione nelle liste anagrafiche discende certamente dallo status di richiedente protezione del ricorrente e, dunque, può concludersi che il fatto generatore a monte della richiesta sia il medesimo. In altri termini, la domanda di iscrizione viene posta in quanto il soggetto richiede in prima istanza il riconoscimento di uno status che legittimerebbe tale iscrizione ed è pertanto opportuna e doverosa la trattazione di entrambe le domande da parte dello stesso giudice.
Alla luce di quanto precede, l’eccezione di incompetenza sollevata da parte resistente non può che essere respinta, competente essendo questa sezione specializzata.
Da ciò discende l’infondatezza della conseguente eccezione di incompetenza territoriale, considerato che il decreto-legge n. 13 del 17 febbraio 2017, convertito con legge n. 47 del 2017, ha previsto l’istituzione di sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e di libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea presso i Tribunali distrettuali nel quale hanno sedi le Corti d’appello.
Dunque, questa sezione specializzata presso il Tribunale di Palermo è certamente (anche) il giudice territorialmente competente.
2. La domanda cautelare: fumus boni iuris
Tutto ciò premesso, nel merito, occorre passare al vaglio i presupposti di applicabilità dell’invocata tutela, i quali sono costituiti, così come previsto dall’art. 700 del codice di procedura civile, dalla sussidiarietà rispetto ad altri strumenti cautelari tipici, dal c.d. fumus boni iuris e dal periculum in mora.
Evidenziato che non si rinvengono altri strumenti cautelari tipici pertinenti al caso di specie, deve essere rilevato che gli elementi fattuali della vicenda, già indicati nella premessa, sono pacifici tra le parti e non v’è sostanziale contestazione.
Per quanto concerne l’accertamento del presupposto del fumus boni iuris, che si sostanzia nella verifica della ragionevole parvenza del diritto fatto valere, appare opportuno delineare il quadro normativo che viene in rilievo nel caso di specie.
L’ufficiale delegato dell’… del … ha rigettato la richiesta presentata da S. I. «in relazione al disposto dell’art. 4, comma 1-bis del decreto legislativo n. 142/2015, come riformulato dal decreto-legge n. 113/2018 e dal disposto della circolare del Ministero dell’interno n. 15/2018».
L’art. 4, comma 1-bis, del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, nell’attuale testo prevede che «Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’art. 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286»
Ancora, la disposizione richiamata, ovverosia il decreto del Presidente della Repubblica n. 223/89, disciplina i requisiti ed il procedimento di iscrizione anagrafica, prevedendo, tra le altre cose, che l’iscrizione viene effettuata anche per trasferimento di residenza dall’estero dichiarato dall’interessato (v. art. 7, comma 1, lettera c); viene altresì specificato che i soggetti che rendono dichiarazioni anagrafiche devono comprovare la propria identità mediante l’esibizione di un documento di riconoscimento (v. art. 6, comma 3) e che è necessario verificare che chi richiede l’iscrizione abbia dimora abituale nel territorio (v. art. 19, comma 2).
Proseguendo, l’art. 6, comma 7, del decreto legislativo n. 286/1998, prevede parità di condizioni, ai fini dell’iscrizione e della variazione anagrafica, sia per i cittadini italiani che per gli stranieri regolarmente soggiornanti, precisando che si considera abituale la dimora dello straniero anche in caso di documentata ospitalità da più di tre mesi presso un centro di accoglienza.
Pertanto, dalla lettura congiunta e coordinata di tali norme, si evince che sono due i requisiti richiesti allo straniero al fine di ottenere l’iscrizione nelle liste anagrafiche: essere regolarmente soggiornante in Italia ed avere una dimora abituale.
Al fine, quindi, di comprendere la reale portata della norma scrutinata, occorre procedere in primo luogo ad una interpretazione letterale volta a stabilire la sussistenza o meno di un discrimine tra lo straniero titolare di un permesso di soggiorno per richiesta asilo e quello titolare di un permesso di soggiorno di altra tipologia.
Ebbene, dirimente è l’analisi dell’art. 4 del decreto legislativo n. 142/2015 nella sua interezza, il quale circoscrive i limiti di utilizzabilità, nonché la valenza, del permesso di soggiorno rilasciato al richiedente asilo.
In particolare, tale disposizione prevede che esso sia titolo di legittima permanenza dello straniero nel territorio, da equiparare al documento di riconoscimento (comma 1 «Al richiedente è rilasciato un permesso di soggiorno per richiesta asilo valido nel territorio nazionale per sei mesi, rinnovabile fino alla decisione della domanda o comunque per il tempo in cui è autorizzato a rimanere nel territorio nazionale ai sensi dell’art. 35-bis, commi 3 e 4, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25. Il permesso di soggiorno costituisce documento di riconoscimento ai sensi dell’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445); tuttavia, tale equipollenza viene meno allorquando lo stesso debba essere utilizzato ai fini dell’iscrizione anagrafica, per la quale non è da considerarsi quale documento di riconoscimento (comma 1-bis: «Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’art. 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286».).
Pertanto, il permesso di soggiorno rilasciato per fini diversi dalla richiesta asilo ha valore di documento di riconoscimento per l’attestazione della regolarità del soggiorno finalizzato all’iscrizione nelle liste anagrafiche; viceversa, il permesso di soggiorno rilasciato in seguito a richiesta d’asilo, sebbene in generale costituisca documento di riconoscimento, perde tale funzione ai fini dell’acquisizione della residenza.
A risultati non dissimili dall’esame testuale, si giunge effettuando un’interpretazione teleologica della norma, volta ad individuarne la ratio.
Difatti, la relazione introduttiva al disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 113/2018 prevede espressamente – pur nella consapevolezza della non vincolatività di questo indirizzo interpretativo – che «il permesso di soggiorno per richiesta asilo non consente l’iscrizione all’anagrafe dei residenti, fermo restando che esso costituisce documento di riconoscimento»; prosegue precisando che tale scelta trova la sua ragion d’essere nella precarietà di tale permesso, non idoneo a definire in via stabile la condizione del soggetto, che è invece in via di definizione.
Così delineato il quadro normativo di riferimento, prima di valutare la sussistenza eventuale di una questione di legittimità costituzionale sotto vari profili, deve ragionarsi parimenti se sia possibile una interpretazione conforme ai precetti costituzionali, interpretazione che è stata pure sostenuta da taluni giudici di merito, richiamati dalle parti nei propri scritti difensivi.
Ebbene, si è ritenuto da taluni che il decreto-legge n. 113/2018 non abbia voluto porre un divieto assoluto di iscrizione ai titolari di permesso di soggiorno per richiesta asilo, ma abbia semplicemente abrogato la procedura semplificata di iscrizione, prevista dall’art. 5-bis del decreto legislativo n. 142/15, secondo cui il richiedente protezione internazionale, ospitato nei centri di accoglienza, veniva iscritto nelle liste della popolazione residente dietro semplice comunicazione da parte del responsabile del centro.
Dunque, venuta meno la procedura semplificata, la norma andrebbe interpretata nel senso di subordinare la richiesta presentata dai richiedenti asilo agli stessi requisiti prescritti per qualunque altro soggetto, compresa la prova di essere regolarmente soggiornanti per altro titolo; tuttavia, così facendo si giungerebbe ad una interpretatio abrogans della disposizione in esame, considerato che l’abrogazione della procedura semplificata prevista in precedenza avrebbe potuto realizzarsi semplicemente abrogando l’art. 5-bis del decreto legislativo n. 142/15.
E ciò non è consentito, tenuto conto che tra due opzioni interpretative possibili occorre privilegiare quella che attribuisce ad una disposizione almeno un effetto giuridico, piuttosto che il contrario.
Pertanto, ritenuta non compatibile con le ordinarie regole ermeneutiche la sopraesposta interpretazione conforme a Costituzione, non può che concludersi per l’interpretazione alla stregua del dato letterale che conduce al rifiuto di procedere all’iscrizione del ricorrente.
Circostanza che porterebbe al rigetto, per carenza del fumus boni iuris, della domanda cautelare.
Tuttavia, l’apparente fondatezza della questione di legittimità costituzionale (sulla quale infra), impone l’esame della sussistenza del requisito del periculum in mora.
3. Periculum in mora
Al fine di valutare la fondatezza della domanda cautelare – nonché la rilevanza dell’eventuale giudizio di legittimità costituzionale – occorre verificare se sussista il fondato timore che, nelle more del giudizio, i diritti fatti valere dal ricorrente siano esposti ad un pericolo imminente ed irreparabile.
Sul punto, parte ricorrente ha esposto che il diniego opposto dal comune pregiudica il suo diritto di godere di quei servizi per i quali la residenza costituisce presupposto essenziale e, segnatamente: l’accesso a prestazioni di welfare locale e socio assistenziali, ai servizi afferenti l’istruzione e la formazione, l’iscrizione ai Centri per l’impiego e, nondimeno, il decorso del termine per la richiesta di cittadinanza italiana.
Ebbene, non può negarsi che la residenza nel territorio sia posto da molteplici disposizioni quale requisito per l’accesso a servizi che consentono il libero esplicarsi dei diritti fondamentali. Il decorso del tempo rischia di comprometterne l’immediato godimento, con evidenti ripercussioni in termini di integrazione sociale.
A tal proposito, si osserva incidentalmente che parte resistente ha eccepito l’insussistenza del periculum, scongiurato dall’art. 5, comma 3, del decreto legislativo n. 142/2015, norma che garantirebbe, in ogni caso, al richiedente asilo l’accesso a tutti i servizi previsti dal decreto nonché a quelli comunque erogati sul territorio nazionale.
Tuttavia tale disposizione ha una portata più valoriale che precettiva, considerando la genericità delle locuzioni utilizzate;
inoltre, la norma si riferisce ai «servizi previsti dal presente decreto» che sono per lo più servizi di accoglienza, accesso ai centri governativi di prima accoglienza ed ospitalità nei centri stessi.
In definitiva, dunque, non v’è dubbio che il trascorrere del tempo potrebbe pregiudicare radicalmente il godimento dei diritti personali del ricorrente.
4. Rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale
Premesso tutto quanto sopra esposto, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, lettera a), n. 2, del decreto-legge n. 113/2018, che ha introdotto l’art. 4, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 142/2015, è rilevante.
La rilevanza della questione è da ricondurre alla circostanza per cui l’illegittimità della norma sottoposta a scrutinio potrebbe condurre all’accoglimento della domanda cautelare formulata dal ricorrente, integrando il presupposto del fumus boni iuris.
Ed infatti, il rigetto della domanda di iscrizione anagrafica è stata motivata dall’ufficiale delegato sulla base del disposto di cui all’art. 4, comma 1-bis del decreto legislativo n. 142/15, che è stata ritenuta norma chiara e dirimente.
Pertanto, il diniego opposto al ricorrente trova la sua ragion d’essere nella norma sospetta di illegittimità costituzionale.
Inoltre, la questione di legittimità appare non manifestatamente infondata, considerata l’impossibilità di darne un’interpretazione conforme a Costituzione, come prima esposto.
Ed invero, la norma sembra porsi in contrasto con diversi precetti costituzionali. Si deve ribadire che la preclusione all’iscrizione anagrafica è stata giustificata dalla relazione illustrativa al decreto-legge con la precarietà del soggiorno del migrante e con la necessità di definire in via prioritaria la sua condizione giuridica. Tuttavia, al legislatore è consentito dettare norme che regolino l’ingresso e la permanenza dei cittadini extracomunitari nel nostro paese purché non palesemente irragionevoli e non contrastanti con obblighi internazionali. Ora, sembra che nel caso in esame il trattamento deteriore riservato al richiedente asilo sia irragionevole rispetto alla sua condizione giuridica ed in particolare al suo titolo che legittima la permanenza.
In primo luogo, viene in rilievo l’art. 2 della Costituzione, in quanto l’impossibilità di esercitare taluni diritti della persona ostacola il libero esplicarsi della personalità del soggetto, sia come singolo, sia nel contesto sociale ove tenta di radicarsi. Difatti, la disposizione sottoposta a scrutinio impedisce al richiedente asilo l’accesso ad una moltitudine di servizi assistenziali e sociali, necessari per il godimento del tempo che egli trascorre nel territorio nazionale, per l’integrazione nel tessuto sociale e per il libero esternarsi delle proprie capacità (sui quali si è detto nei paragrafi precedenti).
L’art. 2 della Costituzione deve, altresì, valutarsi unitamente al successivo art. 3. A tal proposito, la Corte costituzionale (sent. 15-21 giugno 1979, n. 54) ha avuto modo di affermare che il principio di eguaglianza nell’ambito dei diritti inviolabili dell’uomo riguarda anche il rapporto tra stranieri: il trattamento giuridico dovrebbe essere uguale per tutti gli stranieri, salvo trattamenti migliorativi previsti per taluni di essi. Ed infatti, il legislatore ben può apportare delle deroghe che tengano in precipua considerazione circostanze peculiari, tali da giustificare trattamenti in melius, e non il contrario.
L’art. 4, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 142/15 sembra porsi in contrasto con il principio di uguaglianza inteso sia nella sua accezione formale, che in quella sostanziale, in quanto introduce delle differenziazioni tra situazioni, creando un discrimine irragionevole non solo tra cittadini italiani e cittadini stranieri, ma anche tra stranieri titolari di un permesso di soggiorno per richiesta asilo e stranieri titolari di un permesso di soggiorno per altro motivo.
In particolare, il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione impone che la tutela concessa dallo Stato sia effettiva e che un trattamento differenziato sia ammissibile solo se riconducibile ad analoghi principi ispiratori; nel caso di specie, la «precarietà» del permesso di soggiorno per richiedenti asilo non pare integrare un’idonea giustificazione di tali trattamenti differenziati, posto che il nostro ordinamento possiede tutti i meccanismi atti a consentire, nel caso di rigetto della domanda tendente ad ottenere la protezione internazionale, la cancellazione dalle liste anagrafiche con revoca della residenza, senza che ciò debba necessariamente compromettere medio tempore il godimento dei diritti e l’accesso ai servizi atti a condurre una vita dignitosa.
D’altro canto, la norma crea una discriminazione irragionevole sotto altro profilo. Premesso che il legislatore ha previsto che il permesso di soggiorno per i richiedenti asilo consenta di svolgere attività lavorativa (art. 22 decreto legislativo n. 142/2015 «Il permesso di soggiorno per richiesta asilo di cui all’art. 4 consente di svolgere attività lavorativa, trascorsi sessanta giorni dalla presentazione della domanda, se il procedimento di esame della domanda non è concluso ed il ritardo non può essere attribuito al richiedente»), la preclusione all’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente impedisce al richiedente in concreto di fruire del sistema pubblico volto alla ricerca dell’occupazione.
La mancata iscrizione all’anagrafe, infatti, preclude l’accesso alle politiche attive del lavoro di cui all’art. 11 decreto legislativo n. 150/2015, politiche riservate per espressa previsione di legge ai residenti sul territorio (art. 11, comma 3, lettera c), decreto legislativo n. 150/2011), così come preclude l’inserimento del titolare del permesso per richiesta asilo nel sistema informativo unitario delle politiche del lavoro che prevede la formazione di una scheda anagrafica del lavoratore (cfr. art. 13, decreto legislativo n. 150/2015).
Ancora, la questione di legittimità deve essere sollevata anche con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui pone l’obbligo di adeguamento dello Stato italiano alle fonti internazionali e comunitarie ed, in particolare, con riferimento all’art. 12 del Patto internazionale sui diritti civili e politici. Ed invero, ogni straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode di alcuni diritti fondamentali e garanzie previsti dalle norme internazionali.
L’art. 12 sopra richiamato, riconosce allo straniero il diritto di circolare liberamente, di scegliere liberamente la sua residenza e di lasciare il territorio dello Stato, fatte salve le restrizioni previste dalla legge e necessarie in una società democratica alla sicurezza nazionale, alla sicurezza pubblica o al mantenimento dell’ordine pubblico, alla prevenzione delle infrazioni penali, alla protezione della salute o della morale o alla protezione dei diritti e libertà altrui.
Specifico riferimento viene fatto, dunque, al diritto di scelta della propria residenza. Peraltro, nel caso dei richiedenti asilo, non si rinvengono ragioni, tra quelle richiamate, idonee a giustificare delle restrizioni; anzi, viceversa, consentire allo straniero di ottenere la residenza in un determinato territorio permette allo Stato di monitorarne la presenza, in un’ottica di sicurezza e di mantenimento dell’ordine pubblico.
Nello stesso analogo senso, può sussistere la violazione in forma interposta dell’art. 2, protocollo n. 4, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in base al quale «chiunque si trovi legalmente nel territorio di uno Stato ha diritto alla libertà di movimento e alla libertà di scelta della residenza in quel territorio».
Per le ragioni suesposte, la questione di legittimità afferente la norma di cui all’art. 13, comma 1, lettera a), n. 2, del decreto-legge n. 113/2018, che ha introdotto l’art. 4, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 142/2015, si deve considerare rilevante e non manifestatamente infondata.
5. Sospensione del procedimento
Il secondo comma dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, consente al giudice di sollevare ex officio questione di legittimità costituzionale delle norme che è chiamato ad applicare, e prevede la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale con sospensione del giudizio in corso.
Per completezza motivazionale, tenuto conto della natura del presente procedimento proposto ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile, si pone la questione della possibilità, nelle more della definizione del giudizio di legittimità costituzionale, di accordare una tutela provvisoria, in via interinale, al ricorrente, che si sostanzierebbe nell’ordine di iscrizione nelle liste anagrafiche.
Sul punto, la Suprema Corte di cassazione ha nel tempo affermato che «il provvedimento d’urgenza ex art. 700 del codice di procedura civile illegittimamente emesso con riguardo a norme che escludono il diritto con esso riconosciuto e per le quali è stata sollevata questione di legittimità costituzionale con sospensione del giudizio di merito, ha carattere abnorme, in quanto è correlato solo formalmente alla previsione normativa che attribuisce efficacia temporanea al provvedimento cautelare di tutela interinale dei diritti, la sorte del quale è affidata alla sentenza di merito» (Cass. 12 dicembre 1991, n. 13415).
Così anche le Sezioni Unite, con sentenza 7 luglio 1988, n. 4476, in una vicenda in cui un giudice ordinario aveva adottato, nel corso di una controversia in primo grado, un provvedimento d’urgenza di sospensione del pagamento di un contributo sanitario nella misura stabilita dalla legge ritenendo essere quest’ultima, in tale parte, affetta da un dubbio non manifestamente infondato di legittimità costituzionale – hanno ritenuto, in via preliminare, l’estraneità di tale censura al tema della giurisdizione, affermando che il giudice che disattende le norme di legge dettate per il rapporto di cui deve conoscere e lo regola, invece, sia pure provvisoriamente, in base ad una diversa disciplina (arbitrariamente desunta da altre disposizioni e ritenuta più consona agli interessi in gioco), rende una decisione contra legem e comunque inammissibile, dando luogo ad un provvedimento abnorme.
D’altro canto, se in una recente pronuncia della Corte costituzionale è stata ammessa la possibilità di concedere la tutela cautelare in via provvisoria, ciò è stato possibile soltanto in quanto il giudizio a quo era costituito da un procedimento giurisdizionale amministrativo, perciò solo strutturalmente e funzionalmente diverso dal giudizio ordinario (Corte costituzionale n. 172 del 2012).
Per tali motivi, deve dunque sospendersi il giudizio in attesa della decisione della Corte costituzionale, senza provvedimenti interinali.
Si rimettono le spese al termine del giudizio.
P.Q.M.
Il giudice designato, ogni diversa domanda ed eccezione disattese, visto l’art. 700 del codice di procedura civile e l’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
a) dichiara rilevante e non manifestatamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, inserito dall’art. 13, comma 1, n. 2), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, convertito con modificazioni dalla legge 1° dicembre 2018, n. 132, per contrasto con gli articoli 2, 3 e 117, 1 comma della Costituzione, in riferimento all’art. 12 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e all’art. 2, protocollo n. 4, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo;
b) dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale ai sensi dell’art. 23, 2 comma, legge n. 87/1953 e sospende il giudizio cautelare;
c) rimette le spese al termine del giudizio.
Dispone che la cancelleria provveda alla trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, alla notifica alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei ministri.
Dispone, altresì, che l’ordinanza venga comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
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