CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 ottobre 2022, n. 31147
Previdenza – Esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria – Rilascio della tessera di libera circolazione – Requisito sanitario – Accertamento tecnico preventivo ex art. 445-bis c.p.c. – Legittimazione passiva INPS
Fatti di causa
Con sentenza depositata l’8.6.2018, il Tribunale di Torino, pronunciando in sede di opposizione ad accertamento tecnico preventivo obbligatorio ex art. 445-bis, comma 6°, c.p.c., ha dichiarato E.B.H. in possesso del requisito sanitario utile ai fini dell’esenzione alla partecipazione alla spesa sanitaria e al rilascio della c.d. tessera di libera circolazione da parte della Regione Piemonte.
Il Tribunale, in particolare, ha ritenuto che, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 10, d.l. n. 203/2005 (conv. con l. n. 248/2005), l’INPS dovesse ritenersi legittimato a resistere in via esclusiva in tutte le controversie ex art. 445-bis c.p.c. concernenti la materia dell’invalidità civile, indipendentemente dal tipo di beneficio oggetto della domanda dell’assistibile, e ha conseguentemente rigettato sia l’eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dall’Istituto che la sua richiesta di chiamare in causa gli altri enti a suo avviso legittimati a contraddire.
Avverso tali statuizioni ha proposto ricorso per cassazione l’INPS, deducendo tre motivi di censura. E.B.H. è rimasto intimato. La causa è stata rimessa all’udienza pubblica a seguito di infruttuosa trattazione camerale con ordinanza n. 23308 del 2021 della Sesta sezione civile di questa Corte.
Il Pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte con cui ha chiesto il rigetto del ricorso. L’INPS ha depositato memoria.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di censura, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 91, 92, 113 e 116 c.p.c., 152 att. c.p.c. e 2697 c.c., in relazione all’art. 445-bis c.p.c., per avere il Tribunale posto le spese di lite a carico dell’INPS, ancorché l’accertamento del requisito sanitario fosse intervenuto in relazione a prestazioni non di spettanza dell’ente e nonostante che fosse stata eccepita al riguardo la disintegrità del contraddittorio.
Con il secondo motivo, si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 101 e 102 c.p.c., 130, d.lgs. n. 112/1998, 10, d.l. n. 203/2005 (conv. con l. n. 248/2005), e 3, comma 3, l. n. 104/1992, per non avere il Tribunale pronunciato il difetto di legittimazione a resistere dell’INPS in relazione all’accertamento del requisito sanitario presupposto delle provvidenze oggetto del giudizio.
Con il terzo motivo, si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5, d.m. n. 44/2014, ex art. 13, comma 6, l. n. 247/2012 e della tabella allegata al d.m. n. 44/2014, cit., per avere il Tribunale liquidato le spese di lite senza indicare lo scaglione di riferimento e le ragioni giustificative di un aumento o diminuzione dei valori medi in esso indicati.
I primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente, in considerazione dell’intima connessione delle censure rivolte all’impugnata sentenza, e sono infondati.
Come puntualmente ricordato dal Pubblico ministero, questa Corte di legittimità ha recentemente ribadito, sulla scorta di numerosi precedenti sul tema (tra i quali Cass. nn. 6010, 6084 e 6085 del 2014 e 8533 e 8878 del 2015), che il procedimento per accertamento tecnico preventivo ha il solo fine di accertare la sussistenza delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa che si intende far valere, esulando dal suo oggetto qualunque declaratoria sul diritto alla prestazione, destinata a sopravvenire solo in esito ad ulteriori accertamenti, ancorché relativi a fatti antecedenti o concomitanti rispetto ad essa, e che, conseguentemente, nel giudizio previsto dall’ultimo comma dell’art. 445-bis, il thema decidendum deve incentrarsi esclusivamente sulla contestazione delle conclusioni del CTU (ovvero sugli altri aspetti preliminari che sono stati oggetto della verifica giudiziale e ritenuti non preclusivi dell’ulteriore corso del procedimento, relativi ai presupposti processuali ed alle condizioni dell’azione: così specialmente Cass. n. 8533 del 2015, cit.) e non può eccedere l’accertamento del requisito sanitario richiesto dalla legge per il diritto ad una prestazione previdenziale o assistenziale, al punto che il decisum non può contenere nemmeno una declaratoria sul relativo diritto (così, tra le più recenti Cass. nn. 27010 del 2018, 9876 del 2019 e 17787 del 2020, l’ultima delle quali ha perciò cassato senza rinvio la sentenza nella parte in cui statuiva sul diritto del ricorrente alla prestazione richiesta, precisando che rimaneva fermo ad ogni modo l’accertamento del requisito sanitario).
Del pari acquisito, nella giurisprudenza di questa Corte legittimità, è il principio secondo cui la specificazione della prestazione in vista della quale si richiede l’accertamento ex art. 445-bis c.p.c. non vale a determinare l’oggetto del giudizio, che è solo quello di accertare il requisito sanitario che di essa è presupposto, quanto piuttosto a verificare la sussistenza, in capo al richiedente, di un interesse concreto all’accertamento ex art. 100 c.p.c., onde evitare il rischio della proliferazione smodata del contenzioso sull’accertamento del requisito sanitario (così, tra le più recenti, Cass. nn. 9876 del 2019, cit., 2587 del 2020, 14629 e 36382 del 2021); e proprio per ciò, ai fini dell’individuazione del legittimato a resistere in giudizio in una fattispecie di riconoscimento di handicap grave, questa Corte ha recentemente valorizzato la previsione dell’art. 20, comma 1, d.l. n. 78/2009 (conv. con l. n. 102/2009), che – modificando l’art. 10, comma 6, d.l. n. 203/2005 (conv. con l. n. 248/2005), e completando il trasferimento all’INPS della responsabilità ultima degli accertamenti sanitari in materia di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità – ha individuato l’ente previdenziale come legittimato esclusivo a resistere alle domande aventi ad oggetto il riconoscimento dello stato di invalidità psicofisica non riconosciuto in sede amministrativa, indipendentemente da quello che sia o possa essere il contenuto della prestazione in vista della quale tale accertamento è stato giudizialmente chiesto (Cass. n. 24953 del 2021).
Si tratta, ad avviso del Collegio, di una conclusione che – in disparte le specificità proprie dello status di portatore di handicap grave per ciò che concerne la verifica dell’interesse ad agire, puntualmente evidenziate da Cass. n. 24953 del 2021, cit. – deve essere generalizzata in riferimento all’intero contenzioso per il quale il legislatore ha previsto l’accertamento tecnico preventivo obbligatorio del requisito sanitario che è presupposto delle prestazioni previdenziali e/o assistenziali apprestate dall’ordinamento.
Com’è noto, l’art. 10, d.l. n. 203/2005, cit., dopo aver previsto al comma 1 il subentro dell’INPS “nell’esercizio delle funzioni residuate allo Stato in materia di invalidità civile, cecità civile, sordomutismo, handicap e disabilità, già di competenza del Ministero dell’economia e delle finanze”, ha stabilito, al comma 6 (nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 20, comma 5, d.l. n. 78/2009, cit.), che “a decorrere dalla data di effettivo esercizio dal parte dell’INPS delle funzioni trasferite, gli atti introduttivi dei procedimenti giurisdizionali in materia di invalidità’ civile, cecità civile, sordomutismo, handicap e disabilità, nonché le sentenze ed ogni provvedimento reso in detti giudizi devono essere notificati all’INPS”, presso le sedi provinciali dell’Istituto, prevedendo poi, al successivo comma 6-bis, le modalità per la partecipazione, a tali giudizi, di “un medico legale dell’ente”, “su richiesta del consulente nominato dal giudice” e in deroga a quanto previsto dall’art. 201 c.p.c.-
Ora, è precisamente a tale contesto normativo (riconosciuto costituzionalmente legittimo da Corte cost. n. 243 del 2014) che va ricollegata l’introduzione, ad opera dell’art. 38, comma 1, lett. b), d.l. n. 98/2011 (conv. con l. n. 111/2011), dell’accertamento tecnico preventivo obbligatorio di cui all’art. 445-bis c.p.c., che – come è noto – ha a sua volta previsto che “nelle controversie in materia di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità, disciplinati dalla legge 12 giugno 1984, n. 222, chi intende proporre in giudizio domanda per il riconoscimento dei propri diritti presenta con ricorso al giudice competente […] istanza di accertamento tecnico per la verifica preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere”: la ratio di tale strumento processuale non può infatti ritenersi avulsa dalla scelta compiuta dal legislatore di concentrare sull’INPS non solo le funzioni amministrative di accertamento, ma anche la titolarità passiva dei procedimenti in materia di invalidità civile, cecità civile, sordomutismo, handicap e disabilità; e proprio perché oggetto del procedimento per accertamento tecnico preventivo obbligatorio non è – come sopra s’è chiarito – il riconoscimento del diritto al singolo beneficio o alla specifica prestazione, ma solo l’accertamento dello stato psicofisico utile a fungere da presupposto per il riconoscimento di un beneficio assistenziale al medesimo correlato, deve in ultima analisi ritenersi che l’INPS sia anche l’unico soggetto legittimato passivo nelle controversie di cui all’art. 445-bis c.p.c. che abbiano ad oggetto l’accertamento del requisito sanitario in materia di invalidità civile, cecità civile, sordomutismo, handicap e disabilità.
Si tratta, del resto, di una conclusione che è letteralmente suggerita dall’art. 445-bis, comma 5°, secondo periodo, c.p.c., che, disponendo che il decreto di omologa (non impugnabile né modificabile) debba essere “notificato agli enti competenti, che provvedono, subordinatamente alla verifica di tutti gli ulteriori requisiti previsti dalla normativa vigente, al pagamento delle relative prestazioni, entro 120 giorni”, lascia intendere che la competenza di volta in volta individuata per le provvidenze nulla abbia a che fare con la legittimazione processuale nei procedimenti per accertamento tecnico preventivo. E si tratta peraltro di una conclusione che va logicamente tenuta ferma anche nel caso in cui – come nella specie – il procedimento, a seguito della dichiarazione di dissenso di cui all’art. 445-bis, comma 6°, sia sfociato nella sentenza che l’ultimo comma dell’art. 445-bis qualifica espressamente come “inappellabile”: posto che tale giudizio è – come anzidetto – limitato alla contestazione delle conclusioni del CTU o agli altri aspetti preliminari relativi ai presupposti processuali ed alle condizioni dell’azione, deve escludersi che valga in specie il principio (già espresso da Cass. n. 6565 del 2004, specificamente richiamata dall’INPS nel secondo motivo di censura) secondo cui la verifica giudiziale compiuta sulla situazione di invalidità non potrebbe essere invocata e fare stato in giudizi diversi, ossia in quelli distinti aventi come peiltum le diverse pretese che a tale accertamento si ricollegano, in considerazione dei limiti soggettivi del giudicato e della conseguente impossibilità dell’accertamento del requisito sanitario di far stato nei confronti di terzi estranei alla lite e titolari di rapporti autonomi e distinti da quelli per i quali il giudicato medesimo è intervenuto, giacché, una volta ammesso che – per espressa volontà di legge – la pronuncia resa in esito al giudizio ex art. 445-bis, comma 6°, c.p.c., è destinata a riguardare solo un elemento della fattispecie costitutiva, vale a dire il requisito sanitario utile ai fini della prestazione, diventa giocoforza ritenere che gli enti preposti alla concessione delle ulteriori provvidenze conseguenti all’accertamento del requisito sanitario che sia intervenuto non già in forza di un decreto di omologa, ma in forza di una sentenza resa ex art. 445-bis comma 7° c.p.c., non possano essere tecnicamente considerati come “terzi” rispetto al giudizio concernente l’accertamento del requisito sanitario, bensì come “aventi causa” ex art. 2909 c.c., dovendo in tale ultima espressione includersi – giusta un autorevole suggerimento dottrinale – anche coloro la cui situazione giuridica è strettamente dipendente da quella facente capo alla parte titolare della situazione decisa con il giudicato, per modo che l’esistenza, l’inesistenza o le particolari caratteristiche di questa siano il presupposto dell’esistenza, inesistenza o delle particolari caratteristiche di quella; e salvo, s’intende, il caso in cui che il terzo verso cui s’intende far valere il giudicato non sia titolare di una situazione incompatibile con quella decisa (ad es. perché già convenuto per il pagamento in un precedente giudizio relativo allo stesso periodo ma conclusosi negativamente per l’attore) o che il giudicato non sia frutto di collusione o dolo delle parti in suo danno (arg. ex art. 404 comma 2° c.p.c.).
È il caso piuttosto di aggiungere che contrari argomenti rispetto a quanto sopra esposto non possono essere desunti da Cass. n. 23899 del 2021, essendo tale pronuncia intervenuta in fattispecie in cui il giudizio di merito non si era svolto ratione temporis nelle forme di cui all’art. 445-bis c.p.c.; mentre è evidente che, alla stregua delle suesposte considerazioni, non può più darsi continuità al diverso principio affermato (sia pure in fattispecie concernenti la diversa vicenda dell’impugnazione della statuizione sulle spese del procedimento culminato nel decreto di omologa) da Cass. nn. 27356 del 2020 e 10966 del 2022, cit. dall’INPS nella memoria dep. ex art. 378 c.p.c., dovendo identificarsi nell’INPS – per le ragioni anzidette – l’unico legittimato passivo delle controversie per accertamento tecnico preventivo obbligatorio di cui all’art. 445-bis c.p.c.-
Ritenuta, pertanto, l’infondatezza dei primi due motivi di censura, resta da dire che il terzo motivo è invece inammissibile: è sufficiente al riguardo ricordare che è consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio di diritto secondo cui la parte che propone ricorso per cassazione deducendo l’illegittima liquidazione delle spese processuali ha l’onere di indicare il concreto aggravio economico subito rispetto a quanto sarebbe risultato dalla corretta applicazione delle disposizioni legali (cfr. Cass. nn. 20128 del 2015, 15363 del 2016, 7327 del 2018, 6195 del 2022) e rilevare che nulla del genere è dato nella specie leggere nel ricorso per cassazione, dove si dice affatto genericamente che “la sentenza non sembra aver fatto corretta applicazione delle norme di riferimento e della giurisprudenza di legittimità che si è formata sulla materia” (cfr. pag. 12 del ricorso per cassazione) e ci si diffonde sulle norme che disciplinano la liquidazione delle spese (ibid., pagg. 13-14), senza tuttavia indicare quale avrebbe dovuto essere in concreto il compenso massimo liquidabile in relazione alle singole fasi processuali e alle attività compiute in ciascuna di esse (peraltro nemmeno specificamente indicate).
Il ricorso, in conclusione, va rigettato, nulla statuendosi sulle spese del giudizio di legittimità per non avere l’intimato svolto alcuna attività difensiva.
Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13.
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