CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 19 giugno 2013, n. 15317
Tributi – Contenzioso – Atto d’appello sottoscritto dal funzionario in assenza di delega – Validità – Sussiste
Svolgimento del processo
Il Centro Studi Associati di M.G. ed I.L., associazione tra professionisti per l’esercizio della professione di dottore commercialista, propone ricorso per cassazione, affidato a sei motivi, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia n. 29/6/06, depositata il 22 settembre 2006, che, accogliendo l’appello dell’Agenzia delle entrate, ufficio di Bari 1, ha rigettato l’impugnazione dell’iscrizione a ruolo, portata dalla cartella di pagamento notificata il 13 agosto 2003, relativa all’IRAP per l’anno 1999.
L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.
Motivi della decisione
Il ricorso contiene sei motivi, che rispondono ai requisiti prescritti dall’art. 366-bis cod. proc. civ.
Con il primo motivo il ricorrente censura la sentenza per vizio di motivazione in ordine al seguente fatto: se il “Dirigente Capo del 2° Reparto G.R.”, che aveva sottoscritto l’atto di appello, fosse legittimato o meno a rappresentare in giudizio l’Agenzia delle entrate di Bari 1; con il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 2697 cod. civ. per avere la sentenza impugnata, pur in presenza di una richiesta dell’appellato di verificare i poteri di delega alla firma del detto Dirigente Capo del 2° Reparto, erroneamente posto a carico dello studio appellato l’onere di provare l’inesistenza della suddetta delega; con il quarto e con il terzo motivo denuncia, rispettivamente, violazione della normativa istitutiva dell’IRAP sotto il profilo del presupposto impositivo costituito dalla sussistenza di autonoma organizzazione, e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza, nella specie, dell’autonoma organizzazione; con il quinto e con il sesto motivo si duole, denunciando vizio di motivazione e violazione di legge, della quantificazione delle spese processuali al cui pagamento è stato condannato in appello in ragione della soccombenza.
In ordine al primo motivo si osserva che “il vizio di motivazione, denunciabile coma motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ., può concernere esclusivamente l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisicele della controversia, non anche l’interpretazione e l’applicazione delle norme giuridiche, giacché – ove il giudice del merito abbia correttamente deciso le questioni di diritto sottoposte al suo esame, sia pure senza fornire alcuna motivazione o fornendo una motivazione inadeguata, illogica o contraddittoria – la Corte di cassazione, nell’esercizio del potere correttivo attribuitole dall’art. 384, secondo coma, cod. proc. civ., deve limitarsi a sostituire, integrare o emendare la motivazione della sentenza impugnata” (Casa., sez. unite, 25 novembre 2008, n. 28054; Cass. n.. 5595 del 2003). Nella specie il ricorrente censura infatti la sentenza per avere contraddittoriamente motivato in ordine alla ritenuta insussistenza dell’obbligo (“nessuna norma obbliga…”) per l’ufficio di “produrre in giudizio l’atto autorizzativo interno, la cui esistenza deve presumersi fino a prova contraria”.
Quanto al secondo motivo, nel processo tributario “gli artt. 10 e 11, coma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, riconoscono la qualità di parte processuale e conferiscono la capacità di stare in giudizio all’ufficio del Ministero delle finanze (oggi ufficio locale dell’Agenzia delle entrate) nei cui confronti è proposto il ricorso, organicamente rappresentato dal direttore o da altra persona preposta al reparto competente, da intendersi con ciò stesso delegata in via generale a sostituire il direttore nelle specifiche competenze, senza necessità di speciale procura; ne discende che, nel caso in cui non sia contestata la provenienza dell’atto d’appello dall’ufficio competente, questo deve ritenersi ammissibile, ancorché recante in calce la firma illeggibile di un funzionario che sottoscrive in luogo del direttore titolare, finché non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque, l’usurpazione del potere d’impugnare la sentenza di primo grado, dovendosi altrimenti presumere che l’atto provenga dall’ufficio e ne esprima la volontà” (Cass. n. 874 del 2009, n. 13908 del 2008, n. 2432 del 2001).
In ordine al terzo ed al quarto motivo, si osserva che l’art. 2 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, nel primo periodo stabilisce come presupposto dell’IRAP l’esercizio “abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi”; l’esercizio di un’attività con siffatti requisiti non è invece richiesta per le società e per gli enti, compresi gli organi e le amministrazioni dello Stato, in quanto “l’attività esercitata” da tali soggetti, a mente del secondo periodo dello stesso art. 2, “costituisce in ogni caso presupposto d’imposta”. Il successivo art. 3, tra i “soggetti passivi dell’imposta”, che “sono coloro che esercitano una o più delle attività di cui all’articolo 2”, individua espressamente, alla lettera e) del coma 1, le società semplici esercenti arti e professioni e quelle ad esse equiparate a norma dell’art, 5, canna 3, del t.u.i.r. del 1986, vale a dire “le associazioni senza personalità giuridica costituite fra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni”. L’attività esercitata da tali soggetti, strutturalmente “organizzati” per la forma nella quale l’attività stessa è svolta, costituisce pertanto ex lege presupposto d’imposta (“in ogni caso”), prescindendosi dal requisito dell’autonoma organizzazione (Cass. n. 16784 del 2010).
Quanto ai due motivi attinenti alle spese per l’appello, essi sono inammissibili, in quanto “in tema di regolamento delle spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, pertanto, esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi” (Cass. n. 5386 del 2003).
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese del giudizio vanno compensate fra le parti, in quanto l’orientamento giurisprudenziale di riferimento in ordine ad IRAP e associazione di professionisti ha preso corpo in epoca successiva alla promozione del giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Dichiara interamante compensate fra le parti le spese del giudizio.
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