La Corte di Cassazione con la sentenza n. 16298 del 27 giugno 2013 interviene in materia accertamento con strumenti standardizzati riconfermando il principio inerente la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati.
La vicenda ha riguardato un contribuente che ha causa della crisi economica è stato costretto alla chiusura dell’attività economica esercitata a cui l’Amministrazione finanziaria notificava un avviso di “accertamento Irpef” fondato sulla strettissima applicazione degli standards rispetto all’impresa gestita dalla contribuente. Avverso tale atto impositivo il contribuente ricorreva alla Commissione Tributaria che decideva, secondo i giudici della Regionale, ritenendo corretto l’accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate. Il contribuente ricorre avverso al sentenza dei giudici di appello alla Corte Suprema per la cassazione della sentenza.
Gli Ermellini hanno ritenuto che, nel caso di specie, le doglianze del contribuente sono fondate è meritano accoglimento. Infatti nelle motivazione, i giudici di legittimità, ritengono che il ricorso “definirsi, richiamando, per un verso i principi fissati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.105/2003 ed applicando, quindi, quanto deciso dalle SS.UU. di questa Corte con la Sentenza n.26635/2009, la quale, nel solco di precedenti pronunce (Cass. n.23602/2009, n.26459/2008, n. 27648/2008, n.4148/2009), dando una lettura costituzionalmente orientata del quadro normativo di riferimento, ha avuto modo di precisare che “La procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.” Precisando che l’esito del contraddittorio ” non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreta, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito”.
Pertanto per i giudici della Corte Suprema questi fondamentali passaggi non sono stati realizzati in secondo grado, laddove sono state disattese le “doglianze della contribuente” a causa della loro presunta “genericità”.
Questa attestazione, però, viene considerata illogica dai giudici della Cassazione, i quali, anzi, considerano meritevoli di approfondimento – affidato nuovamente alla Commissione tributaria regionale – i richiami fatti dalla contribuente “alla cessazione dell’attività” e “alla distruzione di un rilevante quantitativo di merce”, perché tali da rendere comprensibile lo “scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards”.
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