La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 26522 depositata il 27 novembre 2013 intervenendo in materia di associazione in partecipazione ha statuito che deve essere convertito in lavoro subordinato il rapporto tra l’associato e l’associante, qualora venga a mancare il presupposto del rischio a carico del primo e, inoltre, l’attività svolta sia inserita all’interno dell’organizzazione aziendale.
La vicenda ha riguardato una società a cui veniva notificato una cartella di pagamento per contributi previdenziali omessi, a seguito d’ispezione INPS ha visto trasformare due rapporti di associazione in partecipazione in altrettanti rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con relative sanzioni e richiesta da parte dell’INPS degli arretrati relativi alle differenze contributive.
La società avverso la cartella ricevuta ricorreva al Tribunale che accoglieva la domanda di annullamento dell’atto impugnato. Avverso la decisione del giudice di prime cure, la parte soccombente, proponeva ricorso alla Corte di Appello che riformava la sentenza di primo grado. In particolare, nel ritenere la fondatezza della pretesa INPS, evidenziava che:
- la compartecipazione prevista dai contratti stipulati dalla società appellata era calcolata solo sui ricavi lordi, al netto degli sconti praticati, e non sugli utili;
- non vi era stata alcuna forma di partecipazione dei due lavoratori alla gestione dell’impresa non potendo questa ridursi solo al controllo dei ricavi senza alcuna informazione circa le spese e, più in generale, sulla gestione dell’impresa;
- l’attività dagli stessi svolta si inseriva nell’ambito della organizzazione aziendale ed essi ripetevano dal titolare dell’impresa i poteri di controllo e direzione del lavoro esercitati sugli altri addetti alla sala ristorante-pizzeria.
Per la cassazione di tale pronuncia propone ricorsa la società affidato a tre motivi di censura.
Gli Ermellini rigettano il ricorso depositato. Inanzi tutto è ritenuta infondata la motivazione secondo cui sarebbe l’INPS a dover dimostrare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato.
I giudici di legittimità affrontano la problematica inerente alla distinzione tra associazione in partecipazione e lavoro subordinato. Per cui in base alle considerazioni di seguito riportate, statuiscono alcuni criteri distintivi:
a) la possibilità delle parti di escludere l’associato dalle perdite. Limitare la divisione ai soli utili non comporta la paerdita del carattere aleatorio del contratto, dal momento che, in caso di mancanza di utili, l’apporto lavorativo dell’associato è destinato a rimanere senza compenso.
b) la possibilità delle parti di legare la partecipazione dell’associato ai ricavi d’impresa anziché agli utili. Poiché le parti sono libere di determinare la partecipazione economica dell’associato, questa può ben essere commisurata ai soli ricavi, perché anche in tale caso, non v’è dubbio che sussiste pur sempre un diretto coinvolgimento dell’associato nelle fortune dell’impresa.
Pertanto laddove è resa una prestazione lavorativa inserita stabilmente nel contesto dell’organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d’impresa e senza ingerenza ovvero controllo dell’associato nella gestione dell’impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale “favor” accordato dall’art. 35 Cost., che tutela il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni”.
Infine viene precisato che pur indicando chiaramente, sul contratto, che si tratti di un rapporto di associazione in partecipazione, la stessa indicazione non assume alcun rilievo, in quanto era in contrasto con le concrete modalità di svolgimento dello stesso cosi come emerse dall’istruttoria (la pattuizione della partecipazione solo ai ricavi, l’esclusione di qualsiasi effettivo coinvolgimento nella gestione aziendale con un controllo limitato solo ai ricavi, l’inserimento nella organizzazione aziendale) e questo anche a dispetto delle dichiarazione dei due lavoratori che avevano dichiarato che si trattasse di associazione in partecipazione.
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