Corte di Cassazione sentenza n. 13964 del 12 aprile 2012
SICUREZZA SUL LAVORO – DPI – RIMOZIONE DI COIBENTI DI LANA MINERALE – MATERIALE CANCEROGENO – SENZA L’USO DI DISPOSITIVI DI PROTEZIONE INDIVIDUALE
massima
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Vi è la responsabilità per varie violazioni al D.Lgs. 81/2008, in tema di sicurezza sul lavoro: presso un ospedale milanese, ove erano in corso lavori di manutenzione, il lavoratore (che agiva in subappalto) aiutato da tre persone che coordinava, è stato sorpreso mentre rimuoveva coibenti di lana minerale, che è materiale cancerogeno, senza l’uso di dispositivi di protezione individuale in area non confinata e senza alcun accorgimento per tutelare i lavoratori e le persone presenti nello ambiente.
Ai sensi dell’art. 2087 c.c., il datore di lavoro è tenuto ad adottare le misure necessarie per tutelare l’integrità fisica e morale dei lavoratori, rispettando non solo le specifiche norme prescritte dall’ordinamento in relazione al tipo specifico di attività imprenditoriale e lavorativa, ma anche quelle che si rivelino necessarie in base alla particolarità del lavoro, all’esperienza e alla tecnica; la previsione dell’obbligo contrattuale di sicurezza comporta che al lavoratore è sufficiente provare il danno e il nesso causale, spettando all’imprenditore provare – Cass. civ., Sez. lavoro, 17/11/1993, n. 11351; idem Cass. civ., Sez. lavoro, 23/09/2010, n. 20142 – di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, con conseguenza che solo l’effettiva interruzione del nesso di causalità tra l’infortunio (o la malattia) e un comportamento colpevole dell’imprenditore esclude la responsabilità di costui, non essendo sufficiente un semplice concorso di colpa del lavoratore, ma occorrendo o una di lui condotta dolosa, ovvero la presenza di un rischio elettivo generato da un’attività non avente rapporto con lo svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti di esso.
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FATTO
1. Con sentenza 9 dicembre 2010, il Giudice monocratico del Tribunale di Milano ha ritenuto (Omissis) responsabile di varie violazioni al Decreto Legislativo n. 626 del 1994, in tema di sicurezza sul lavoro, e lo ha condannato alla pena di giustizia.
Per giungere a tale conclusione, il Giudice ha reputato circostanze accertate-basandosi sugli esiti un sopralluogo e sulle testimonianze di vari soggetti che lo confermavano- quanto segue. Presso un ospedale milanese, ove erano in corso lavori di manutenzione, l’imputato (che agiva in subappalto) aiutato da tre persone che coordinava, è stato sorpreso mentre rimuoveva coibenti di lana minerale, che è materiale cancerogeno, senza l’uso di dispositivi di protezione individuale in area non confinata e senza alcun accorgimento per tutelare i lavoratori e le persone presenti nello ambiente.
Avendo come referente le menzionate emergenze fattuali, il Giudice ha tratto, in diritto, la conclusione sulla sussistenza del contestati illeciti.
Per l’annullamento della sentenza, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione deducendo travisamento dei fatti, in particolare, rilevando:
– che non è emersa alcuna prova circa il rapporto lavorativo con le tre persone che erano presenti nel cantiere: i suoi dipendenti erano altri come dimostrato dai documenti della difesa;
– che non è provato che fosse un subappaltatore: era solo il fornitore dei canali di lamiera e si trovava sul posto per consegnare il materiale.
DIRITTO
2. Il Giudice ha avuto cura di indicare le fonti probatorie documentali e testimoniali dalle quali ha tratto la conclusione sulla ricostruzione storica dei fatti per cui è processo e conseguente addebitabilità allo (Omissis) delle contestate contravvenzioni; la motivazione della impugnata sentenza è congrua, completa, corretta.
In tale contesto, il ricorrente sostiene che le persone che lavoravano nel cantiere non erano alle sue dipendenze; la circostanza (rilevata anche dal Giudice sulla base delle risultanze del libro matricola dell’ (Omissis)) è ininfluente dal momento che gli stranieri, intenti a rimuovere il materiale pericoloso, hanno dichiarato di essere dipendenti dell’imputato (all’evidenza lavoranti “in nero”).
Su questo tema, il ricorrente chiede una rinnovata ponderazione del coacervo probatorio – alternativa a quella correttamente effettuata dal Giudice di merito – ed introduce problematiche che esulano dai limiti cognitivi della Cassazione.
L’imputato, nell’atto ricorso, sostiene di non avere ottenuto il subappalto (con affermazione squalificata dalla documentazione che lo contraddice) e di non avere preso parte ai lavori (con generica prospettazione superata dalle concordi testimonianze di segno contrario); queste allegazioni difensive sono, all’evidenza, infondate.
Inoltre, le deduzioni del ricorrente sono prive della necessaria concretezza dal momento che non vengono segnatati elementi o argomenti a sostegno dell’assunto difensivo.
Il sostanza, il ricorrente formula censure in fatto, generiche e manifestamente infondate perchè in insanabile contrasto con le emergenze acquisite. Per le esposte considerazioni, la Corte dichiara inammissibile il ricorso con condanna del proponente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma- che reputa congruo quantificare in euro mille- alla cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento di euro mille alla cassa delle ammende.
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