CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 luglio 2013, n. 17953
CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 luglio 2013, n. 17953
Tributi – Accertamento – Irpef – Ilor – Conti correnti – Somme imponibili – Usura
Svolgimento del processo
1. La CTR del Lazio, con sentenza pubblicata il 14 dicembre 2005, accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza resa dalla CTP di Roma che aveva accolto il ricorso proposto da S.F. avverso tre avvisi di accertamento emessi dall’Ufficio II.DD. di Roma relativi ad IRPEF e ILOR per gli anni 1992,1993 e 1994.
2. Nel riformare la decisione resa dal giudice di primo grado che aveva ritenuto inapplicabile retroattivamente l’art.14 comma 4 della legge n.537/1993 e valutato privi dei requisiti indicati nell’art.38 3 comma D.P.R.600/1973 gli elementi offerti dall’Ufficio per ritenere dimostrata la mancata tassazione di proventi derivanti da usura, la CTR evidenziava come la controversia aveva preso luogo da un procedimento penale a carico del S. per i reati di cui all’art.640 c.p. (recte art.644 c.p.) in relazione all’art. 132 delle Leggi bancarie e creditizie. Aggiungeva che la Guardia di Finanza, con successivo processo verbale di contestazione, dopo l’esame di dieci conti correnti bancari intestati e cointestati al contribuente ed in assenza dì chiarimenti o documentazione da parte del S. -che pure era stato invitato a fornire spiegazioni circa gli accreditamenti risultanti sui detti conti- aveva emesso i tre avvisi di accertamento. Correttamente l’Ufficio aveva ritenuto applicabile l’art.14 comma 4 della legge n.537 del 1993, uniformandosi a numerosi precedenti di questa Corte, pure applicando la presunzione legale contemplata dall’art.32 comma 1 n.2 del D.p.r. n. 600/1973 che, pur non essendo assoluta, non era stata superata da alcuna prova di segno contrario da parte del contribuente.
Appariva pertanto immune da censura l’operato dell’Ufficio che aveva qualificato come reddito da capitale tutte le somme versate sui conti correnti del contribuente il quale, né in sede penale né in quella tributaria e neppure nella fase del giudizio di secondo grado, nella quale non si era presentato, aveva offerto alcuna prova concreta di segno opposto.
Segnalava, infine, che la sentenza penale resa nei confronti del S., dallo stesso non prodotta nel corso del giudizi dì primo grado ancorché a tanto il contribuente fosse stato onerato dalla CTP, non aveva statuito l’assoluzione, ma il proscioglimento per intervenuta prescrizione, avendo anzi il giudice penale ritenuto accertati i fatti costituenti reato contestati al S.ai capi A) e B) della rubrica. Sulla base di tali argomentazioni, il giudice di appello riformava la sentenza di primo grado, respingendo il ricorso del contribuente che condannava al pagamento delle spese del giudizio dì appello.
3. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per Cassazione il S. affidandolo a 4 motivi, al quale ha resistito l’Agenzia delle entrata con controricorso.
Motivi della decisione
4. Va preliminarmente dichiarata la carenza di legittimazione processuale del Ministero delle Finanze pure evocato in giudizio dalla parte ricorrente, al quale è subentrato l’Agenzia delle entrate regolarmente costituitasi.
5. Con il primo motivo di ricorso il S. ha dedotto violazione e falsa applicazione dell’art.327 c.p.c, in relazione all’art.53 D.lgs. 546/1992, dell’art.16 della legge 289/2002 nonché dell’art.1 legge n.212/2003, rilevando che l’appello alla sentenza emessa il 21 novembre 2002 e depositata il 27 ottobre 2003, notificato dall’Agenzia il 5 febbraio 2005, era stato proposto oltre il termine di legge che andava a scadere il 12 dicembre 2004, non trovando applicazione la sospensione dei termini fino all’1 giugno 2004 prevista dall’art.16 della legge n.289/2002, entrato in vigore successivamente alla sentenza di primo grado, non avendo il contribuente presentato istanza di sospensione del giudizio e così manifestando l’intenzione di non aderire al condono fiscale. Osservava che la stessa CTP aveva rilasciato, su sua richiesta, la sentenza di primo grado con attestazione del passaggio in giudicato e che tale questione era stata espressamente evidenziata nella memoria di costituzione presentata innanzi al giudice di appello, senza peraltro essere mai stata esaminata da questi esaminata.
4.1. L’Agenzia delle entrate contestava tale doglianza, evidenziando la tempestività dell’appello proposto ai sensi dell’art.16 comma 6 secondo periodo 1,n.28 9/20 02-non applicandosi alla fattispecie il primo periodo dello stesso comma invocato dal ricorrente-.Aggiungeva che il termine per appellare la decisione di primo grado, cominciato a decorrere dal 2/6/2004, veniva a scadere il 16/7/2005 e che non era necessaria alcuna istanza del contribuente, essendo avvenuta la discussione del procedimento di primo grado anteriormente all’1 gennaio 2003.
4.2. La doglianza è infondata guanto alla prospettata violazione di legge ed inammissibile quanto al vizio di omessa motivazione.
Quanto alla prima parte della censura, è sufficiente evidenziare che questa Corte, con indirizzo al quale il Collegio intende dare continuità, ha stabilito che la sospensione, sino all’I giugno 2004, dei termini per la proposizione dei ricorsi, appelli, controdeduzioni, ricorsi per cassazione, controricorsi e ricorsi in riassunzione, compresi i termini per la costituzione in giudizio prevista dall’art. 16, comma 6, della legge n. 27 dicembre 2001 n. 289 opera con riguardo a tutte le liti fiscali non ancora definite, senza alcuna distinzione, non richiedendo la norma una dichiarazione di rinuncia alla sospensione dei termini e all’operatività del condono, rimanendo indifferente la circostanza che nel corso dell’udienza di trattazione davanti al giudice “a quo” le parti abbiano dichiarato genericamente di non volersi avvalere delle disposizioni recate dall’art. 16 cit.-cfr.Cass. n. 6826 del 20/03/2009-.
Al riguardo, sì è sottolineato che la questione della sospensione dei termini per la proposizione dell’impugnazione è altra e diversa da quella della sospensione dei giudizi tributari (1 gennaio 2003 – 1 giugno 2004) prevista dalla citata L. n. 289 del 2002, art. 16, comma 6, giacché nell’ambito complessivo della disposizione, la L. n. 289 del 2002, art. 16, comma 7, in tema di sospensione dei termini d’impugnazione appare concepito in termini di assoluta autonomia rispetto al precedente comma 6 sulla sospensione del processo, con la conseguenza che la sospensione dei termini d’impugnazione non è necessariamente vincolata alle modalità operative previste per la sospensione del processo (cfr. Cass., 25/2/2009, n. 4515). Ne consegue che i termini d’impugnazione sono da considerarsi in ogni caso sospesi fino al giugno 2004, riferendosi la predetta sospensione “ex lege” a tutte le liti fiscali non ancora definite, senza alcuna distinzione, e non richiedendo la norma una dichiarazione di rinuncia alla sospensione dei termini e all’operatività del condono. Alla stregua dei principi sopra esposti l’appello proposto dall’Agenzia in data 1 febbraio 2005 contro la sentenza pubblicata il 27 ottobre 2 003 deve ritenersi tempestivo in relazione alla sospensione dei termini ex lege disposta.
Quanto alla omessa decisione della questione relativa alla tempestività dell’appello da parte della CTR è sufficiente evidenziare, per inferire l’infondatezza del rilievo, che la valutazione nel merito delle ulteriori censure avanzate dalla parte appellante ad opera della CTR ha determinato l’implicito esame (ed il conseguente rigetto)delle questioni processuali che, se accolte, avrebbero impedito l’esame stesso dell’ impugnazione.
5. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art.14 comma 4 della legge n.537/1993, dell’art.11 delle preleggi, della legge n.212/2000 e dell’art.3 comma 2 del d.lgs.n.472/1997. Secondo il ricorrente l’art.14 comma 4 l.n.537/1993 non va considerato come disposizione avente natura interpretativa e non può essere applicato retroattivamente come invece aveva ritenuto il giudice di appello, avendo anche questa Corte, prima della novella menzionata, escluso che i proventi di natura illecita potessero costituire reddito soggetto ad imposizione. Aggiungeva che anche lo Statuto del contribuente introdotto con la legge n.212/2000, ponendosi al vertice delle norme fiscali, aveva sancito il divieto di retroattività. Evidenziava, ancora, che non era ipotizzabile l’applicazione di una sanzione per un comportamento ritenuto illecito da una norma entrata in vigore successivamente alla commissione della violazione, alla stregua di quanto previsto dall’art. 3 comma 1 del d.lgs.n.472/1997, dovendosi applicare il regime punitivo in vigore al momento del fatto. A giudizio dell’ Agenzia delle Entrate dette censure dovevano ritenersi infondate in ragione della natura di norma di interpretazione autentica dell’art.14 comma 4 della legge n.537/1993 ed in ogni caso della irrilevanza di tale disposizione rispetto all’avviso di accertamento notificato per l’anno dì imposta 1994.
5.1. Tale motivo di ricorso è infondato. Per costante giurisprudenza di questa Corte, in tema di efficacia nel tempo delle norme tributarie, le disposizioni della legge 27 luglio 2000, n. 212 non hanno efficacia retroattiva, in base al principio di cui all’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, ad eccezione delle norme che costituiscono attuazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, in quanto espressione dì principi costituzionali vigenti. Pertanto, anche l’art. 3 della medesima legge, che ha codificato il principio di irretroattività nella materia fiscale, non trova applicazione con riferimento alle leggi anteriormente vigenti. Proprio in base a tale principio questa Corte ha rigettato il motivo di impugnazione di una sentenza della Commissione Tributaria Centrale che aveva applicato retroattivamente l’art. 14, quarto comma, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, in tema di tassazione dei proventi derivanti da attività illecita sul presupposto che, dopo l’approvazione della legge 27 luglio 2000, n. 212, sarebbe stata abrogata l’efficacia retroattiva di tutte le norme tributarie promulgate precedentemente, in forza degli artt. 1, comma 2, e 3, commi 1 e 2, della stessa legge-cfr. Cass. n. 9913 del 16/04/2008; Cfr. Cass. n. 24192 del 13/11/2006-. Si è inoltre aggiunto che l’art. 14, comma 4, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 costituisce interpretazione autentica della normativa contenuta nel d.P.R. n. 917 del 1986 e criterio ermeneutico decisivo per giungere ad identica conclusione anche in riferimento alla precedente disciplina di cui agli artt. 1 e 6 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597. Ne consegue, in sede dì accertamento dei redditi d’impresa delle persone fisiche, nel vigore del d.P.R. n. 597 del 1973, che ì proventi illeciti, dovendo essere “determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria” di redditi, possono essere determinati dall’ufficio in base a quanto disposto dall’art. 39 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. Cfr. n. 8990 del 16/04/2007-, Orbene, uniformandosi a tale ultimo indirizzo, il giudice dì appello ha correttamente ritenuto legittimo il ricorso all’art.14 ult. cit. operato dall’amministrazione anche per gli avvisi di accertamento relativi agli anni di- imposta 1992 e 1993, non ponendosi alcuna questione in ordine alla vigenza della previsione con riguardo all’anno di imposta 1994, periodo al quale la disposizione si applica per espressa previsione.
Ed è appena il caso di osservare che parimenti infondata sì appalesa la questione relativa alla asserita illegittimità connessa al carattere retroattivo delle sanzioni inflitte alla parte ricorrente; ciò non solo in ragione della natura di interpretazione autentica della precedente disciplina introdotta dai TUIR – art.6-, ma anche in relazione alla riconosciuta ulteriore violazione della disposizione dì cui all’art.32 TUIR, non ricorrendo in parte qua i presupposti per giustificare l’omessa irrogazione della sanzione fissati dalla giurisprudenza di questa Corte- per i quali v. , ex plurimis, Cass. n. 4683 del 23/03/2012; Cass. n. 4685 del 23/03/2012; Cass. n. 4031 del 14/03/2012;Cass. n. 2192 dei 16/02/2012-.
6. Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art.3 e dell’art.7 della legge 241/1990 ed omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, nonché violazione degli artt. 2697,2727 e 2723 cod. civ. in relazione all’art.116 c.p.c.
Evidenzia che l’avviso di accertamento era privo dì motivazione, essendosi limitato l’Ufficio a compiere un rinvio al processo verbale della Guardia di Finanza, senza valutare gli elementi esposti dalla stessa, non ammettendosi la motivazione per relationem nel diritto tributario. Osserva che l’obbligo di motivazione era del resto stato sancito dallo Statuto del contribuente (l.n.212/2000), aggiungendo che l’ufficio aveva ingiustificatamente fondato i propri accertamenti su una presunzione derivante da altra presunzione, poiché l’avviso di accertamento era stato motivato facendo riferimento alle inattendibili risultanze del processo verbale di constatazione, senza ricorrere a deduzioni e motivi propri e senza fornire elementi dì prova documentale. Per tale motivo l’Amministrazione era venuta meno all’obbligo sulla stessa incombente, ai sensi dell’art.2697 cod.civ., di fornire la prova del fatto giuridicamente rilevante. Aggiunge di non essere stato messo in condizioni di provare, nel contraddittorio con l’amministrazione e previa convocazione, le ragioni circa le causali delle operazioni in conto corrente, infine sottolineando che ai fini penali lo stesso era stato prosciolto dal reato ascrittogli.
6.1. L’Agenda delle Entrate, nel resistere a tale doglianza, ha dedotto che il processo verbale della Guardia di Finanza era stato pienamente conosciuto dal contribuente al quale era pure stato notificato, sicché nessuna violazione dell’art.7 l.n.212/2002 era ipotizzabile, poi aggiungendo che la motivazione degli avvisi, rinviando agli accertamenti degli organi preposti all’attività istruttoria, doveva ritenersi pienamente sufficiente, per il resto evidenziando la natura di presunzione legale nascente dell’art.32 comma 1 n.2 D.P.R. 600/1973.
6.2. Orbene, osserva il Collegio che è destituita di giuridico fondamento la doglianza relativa alla mancanza di motivazione degli avvisi di accertamento.
La giurisprudenza di questa Corte, alla quale il Collegio intende dare continuità, è infatti ferma nel ritenere che la motivazione “per relationem”, con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima, per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’Ufficio stessa, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio-cfr.Cass. n. 21119 del 13/10/2011;Cass. n. 4523 del 21/03/2012-, Parimenti infondata è la doglianza relativa alla prospettata violazione dell’art.2727 e dell’art.2728 cod.civ.
Ed invero, con motivazione scevra da profili di illegittimità, il giudice di appello ha parimenti fondato la propria decisione sul disposto di cui alìart.32 comma 1 n.2 del DPR n.600/1973, con riguardo all’utilizzazione da parte dell’Ufficio finanziario delle risultanza relative ai conti correnti bancari riferibili al contribuente ed agli accertamenti ivi compiuti dall’Amministrazione.
Ora, questa Corte, nel chiarire che l’assoluzione in sede penale dal reato di usura non preclude all’Ufficio di considerare i versamenti risultati sui conti come redditi imponibili suscettibili di rettifiche secondo la disciplina di cui all’art.32 comma n.2 D.P.R. n. 600/1973- cfr.Cass.n.16080/2001- ha più volte ritenuto che “i dati raccolti dell’ufficio in sede di accesso ai conti correnti bancari del contribuente consentono, in virtù della presunzione contenuta nel D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 39, di imputare gli elementi da essi risultanti direttamente a ricavi dell’attività svolta-dal medesimo, salva la possibilità per il contribuente dì provare che determinati accrediti non costituiscono proventi della detta attività” (v.,Cass., 13 settembre 2010 n. 19493; Cass. 11 gennaio 2008 n. 430; Cass. 13 febbraio 2006 n. 3115; Cass. 29 maggio 2003 n. 8614; Cass. 29 marzo 2002 n. 4601;v., poi, di recente, Cass.n. 14026 del 3 agosto 2012-. In relazione agli accertamenti bancari, non rileva, per altro, il supposto(da parte del ricorrente) divieto di doppia presunzione (cd. praesumptio de praesumpto), che quand’anche ritenuto esistente, attiene esclusivamente alla correlazione di una presunzione semplice con altra presunzione semplice, ma non con altra presunzione legale, qual è appunto configurabile la fattispecie di cui trattasi (Cass. 21944/2010; Cass., 21 dicembre 2007, n. 27032; Cass. 22 febbraio 2002, n. 2612). Senza dire, in ogni caso, che il riferimento al concetto di presunzione su presunzione può avere senso solo allorché si ponga mente all’ assenza del fatto noto, elemento imprescindibile nello schema della prova presuntiva .Ciò che non ricorre nel caso di specie, nel quale sono stati, appunto, i dati raccolti dal conto corrente a consentire l’adozione del provvedimento impugnato, in assenza dì prove di segno contrario da parte del contribuente sul fatto che i proventi “desumibili dalla movimentazione bancaria non debbono essere “recuperati a tassazione”, o perché egli ne ha già “tenuto conto nelle dichiarazioni”, o perché (Cass., n. 9573/2007; Cass., n. 1739/2007) “non sono fiscalmente rilevanti” in quanto “non si riferiscono ad operazioni imponibili”.
Orbene, il giudice di appello si è pienamente conformato ai principi sopra esposti, evidenziando che, a fronte degli accertamenti compiuti dalla Guardia di Finanza e recepiti dall’Amministrazione, il contribuente non aveva fornito né innanzi al giudice tributario, ne in sede penale – ove la sentenza di proscioglimento del contribuente, riconsiderata nel suo contenuto fattuale dal giudice di appello, aveva comunque acclarato i fatti costituenti reato di usura a carico del contribuente- alcun elemento idoneo a scardinare gli elementi posti a base dall’accertamento e desunti dai conti correnti riferibili al contribuente.
Ed è appena il caso di osservare che la statuizione della CTR circa la mancanza di prova contraria offerta dal contribuente non è stata oggetto di doglianza da parte del ricorrente e deve pertanto ritenersi non più modificabile in questa sede.
Anche per quel che riguarda la questione relativa alla prospettata lesione del principio del contraddittorio in danno del contribuente, le doglianze della parte ricorrente sono sfornite di giuridico fondamento, avendo questa Corte chiarito- Cass.sent. n. 14026/2012, cit.- che il rispetto di tale canone processuale non si pone con riguardo all’attività di controllo dei dati acquisiti attraverso “inviti e richieste” di trasmissione agli uffici finanziari di dati, documenti ed informazioni, ai sensi degli artt. 32 c. nn 3-8 ter) Dpr n. 600/73 e 51 c. 2 nn. 3-7 bis) Dpr. n. 633/72, in ordine alla quale il Legislatore ha ritenuto prevalenti le esigenze di funzionalità degli uffici ed efficienza dell’azione amministrativa rispetto alla “anticipata” partecipazione del privato già nella fase istruttoria della ricerca, individuazione ed acquisizione di dati ed informazioni che dovranno essere poi sottoposti a controllo ai fini dell’ esercizio -peraltro solo eventuale- della potestà di accertamento. Non ravvisandosi quindi ragioni per discostarsi dai principi testè ricordati ai quali il Collegio ritiene di dare continuità la doglianza è dunque infondata. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione che liquida in euro 6.000,00, oltre spese prenotate a debito, in favore dell’Agenzia delle Entrate.
Possono essere interessanti anche le seguenti pubblicazioni:
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 11 marzo 2020, n. 6831 - In tema di accertamenti fondati sulle risultanze delle indagini sui conti correnti bancari l'onere del contribuente di giustificare la provenienza e la destinazione degli importi movimentati sui…
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 25 gennaio 2022, n. 2200 - Le indagini bancarie nei confronti di una società a responsabilità limitata possono essere estese ai conti correnti dei soci della stessa soltanto se sussistano elementi indiziari che inducano…
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 11 febbraio 2020, n. 3211 - In tema di imposte sui redditi e di IVA, in relazione all'attività accertativa l'utilizzazione dei dati risultanti dalle copie dei conti correnti bancari acquisiti dagli istituti di credito…
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 04 novembre 2021, n. 31826 - In tema di imposte sui redditi, lo stretto rapporto familiare e la composizione ristretta del gruppo sociale è sufficiente a giustificare, salva la prova contraria, la riferibilità delle…
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 02 ottobre 2020, n. 21230 - In tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora l'accertamento effettuato dall'ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari del contribuente, l'onere…
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 30 maggio 2022, n. 17413 - In tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora l'accertamento effettuato dall'ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l'onere probatorio…
RICERCA NEL SITO
NEWSLETTER
ARTICOLI RECENTI
- ISA 2024 le cause di esclusione per l’anno 2
La legge istitutiva degli Indici Sintetici di Affidabilità fiscale (ISA) ha una…
- Il diritto riconosciuto dall’uso aziendale n
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 10120 depositat…
- L’indennità sostitutiva di ferie non godute
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 9009 depositata…
- Il giudice tributario è tenuto a valutare la corre
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 5894 deposi…
- Il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 10267 depositat…