CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 agosto 2013, n. 19731

Tributi – Accertamento – Procedura standardizzata – Presunzioni semplici – Determinazione – Criteri

Svolgimento del processo

P.A., avvocato, ricorre con due motivi nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale del Piemonte che, rigettandone l’appello, nel giudizio introdotto con l’impugnazione dell’avviso di accertamento, ai fini dell’IPPEF, dell’IVA e dell’IRAP per l’anno 1999, con il quale, in applicazione dei parametri previsti dall’art. 3, comma 184, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, all’esito dell’instaurato contraddittorio, tenuto conto delle giustificazioni avanzate dalla contribuente, veniva determinato un maggior reddito, confermava la legittimità dell’atto impositivo impugnato.

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

Motivo della decisione

Il primo motivo, con il quale la ricorrente denuncia “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo e violazione degli artt. 132, n. 4) – 161-162 c.p.c. in relazione all’art. 360, n. 3, 4, 5 c.p.c. per avere il Giudice d’appello ritenuta sufficientemente motivata la sentenza n. 67/25/06 della Commissione tributaria provinciale di Torino”, si conclude con il quesito “se la sentenza emessa dalla Commissione tributaria di primo grado che ometta nelle motivazioni di prendere in esame uno dei motivi della impugnazione dell’accertamento tributario e si limiti a considerazioni del tutto discrezionali costituisca motivo di nullità della sentenza a norma degli artt. 132, n. 4, e 161-162 c.p.c. con conseguente nullità della sentenza stessa”.

Il motivo non è conforme alle prescrizioni fissate dall’art. 366 bis cod. proc. civ. a pena di inammissibilità, non essendo la sua illustrazione accompagnata, per quel che attiene alla denuncia del vizio di motivazione, dalla chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero dalle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione; e, per quel che concerne i lamentati vizi di violazione di legge, da un quesito di diritto adeguato.

Il quesito di diritto, “dovendo assolvere alla funzione di integrare il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale – non può essere meramente generico e teorico, ma deve essere calato nella fattispecie concreta, per mettere la Corte in grado di poter comprendere dalla sua sola lettura, l’errore asseritamene compito dal giudice di merito e la regola applicabile. Me consegue che esso non può consistere in una semplice richiesta di accoglimento del motivo ovvero nel mero interpello della Corte in ordine alla fondatezza della propugnata petizione di principio o della censura così come illustrata nello svolgimento del motivo” (Cass. n. 3530 del 2012).

Nel caso di specie, il riferimento ad “uno dei motivi dell’impugnazione” – che non sarebbe stato preso in esame dovendolo invece essere – è del tutto generico, come del resto quello alle “considerazioni del tutto discrezionali” che il giudice d’appello avrebbe svolto incorrendo nel vizio dedotto.

Con il secondo motivo, denunciando “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio e violazione del d.P.R. 29/09/1973 n. 600 artt. 39 e 54 – d.l. 30/08/1993, n. 331 art. 62 sexies convertito in L. 20/10/1993, n. 427 e artt. 2727 e 2729 c.c.”, la ricorrente assume che gli accertamenti fiscali che si fondino sui soli strumenti presuntivi senza il riscontro di irregolarità contabili o incongruenze e senza che vengano indicati espressamente gli elementi di scostamento costituirebbero violazioni delle norme in rubrica.

Il motivo è infondato.

La procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce, come affermato da questa Corte, “un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che ne giustificano l’esclusione dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilìtà dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in guanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito” (Cass. sez. un., 18 dicembre 2009, n. 26635) . E si è inoltre chiarito come “la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema unitario che non si colloca all’interno della procedura di accertamento di cui all’art. 39 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ma la affianca, essendo indipendente dall’analisi dei risultati delle scritture contabili, la cui regolarità, per i contribuenti in contabilità semplificata, non impedisce l’applicabilità dello “standard”, né costituisce una valida prova contraria, laddove, per i contribuenti in contabilità ordinaria, l’irregolarità della stessa costituisce esclusivamente condizione per la legittima attivazione della procedura standardizzata” (Cass., sez. un., n. 26635 del 2009 cit.; Cass. n. 23096 del 2012).

A tali principi il giudice di appello sì è attenuto, dando conto, in particolare, che in esito al contraddittorio instaurato con la contribuente, l’ufficio aveva operato una sensibile riduzione dei maggiori compensi professionali accertati, tenendo “conto anche dei fattori presuntivi rappresentati dagli anni di esercizio della libera professione forense e dell’avviamento dello studio professionale, prima condotto assieme col padre e successivamente ereditato”; ed ha ritenuto che l’accertamento impugnato non fosse frutto di mera ed acritica applicazione di parametri o studi di settore, ma fosse stato elaborato e concretato tenendo conto della reale capacità contributiva della ricorrente. A tale conclusione è giunto compiendo un’analitica disamina, articolata in cinque punti, delle richieste accolte e di quelle disattese, formulate nella fase del contraddittorio.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna la contribuente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in euro 3.000, oltre alle spese prenotate a debito.