Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 1148 depositata il 10 gennaio 2024

falso in bilancio – la stima sia stata fallace e, quindi, scientificamente errata, non significa che sia stata anche falsa

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Torino, confermando la sentenza pronunciata in primo grado, ha ritenuto F.B. e M.B. responsabili del reato di cui agli artt. 110, cod. pen., 223 commi 1 e 2, n. 1, in relazione agli artt. 216 l. fall. e 2621 cod. civ., per avere, nella qualità di componenti del Consiglio di amministrazione della M.E.F. s.r.l., dichiarata fallita con sentenza del Tribunal,2 di Tortona del 27 ottobre 2010, cagionato il dissesto della società omettendo di svalutare i crediti inesigibili (come imposto dall’art. 2426, n. 8, cod. civ.) analiticamente indicati nell’elenco allegato all’imputazione.

2. Ricorrono per cassazione entrambi gli imputati.

2.1. Il ricorso proposto nell’interesse di F.B. si compone di due motivi.

Con il primo, formulato sotto il profilo della violazione di legge (in relazione all’art. 2621 cod. civ.), si censura l’errore asseritamente commesso dalla Corte di appello nel non aver indicato quali fossero i criteri tecnici, generalmente accettati, dai quali l’imputato si sarebbe consapevolmente discostato nella valutazione dei crediti. Tanto più che, alla luce della ritenuta inapplicabilità di quelli dettati dalla normativa fiscale, la sola inerzia dell’imprenditore (nella relativa riscossione) non potrebbe essere considerata un valido criterio selezionatore, rappresentando, al massimo, una condotta idonea a giustificare un’imputazione (a titolo di bancarotta distrattiva) differente rispetto a quella contestata. Viceversa, la corretta applicazione dei principi dettati dall’OIC, imponendo di imputare a perdita solo i crediti vantati verso imprese fallite o cancellate (per un importo di euro 60.350), avrebbe condotto ad un’inevitabile assoluzione, non comportando la relativa eliminazione né un’erosione del capitale sociale, né, conseguentemente, la necessità di porre in liquidazione la società.

Il secondo, invece, lamenta l’omessa motivazione riguardo ad un requisito essenziale della fattispecie contestata, ossia l’aggravamento del dissesto, effetto che del resto nemmeno sussisterebbe nel caso in esame.

2.2. Il ricorso proposto nell’interesse di M.B. si compone di tre motivi.

Il primo, formulato sotto il profilo della violazione di legge, censura l’erronea valutazione prospettata alla Corte di appello in ordine alla ritenuta inesigibilità dei crediti, fondata, si sostiene, su un apprezzamento postumo conseguente all’impossibilità per il curatore di riscuotere tali crediti, senza, tuttavia, considerare come, ex ante, e, quindi, al momento della redazione del bilancio, la previsione del relativo inadempimento poteva essere solo eventuale (non essendovi, all’epoca, la piena consapevolezza della crisi del settore edilizio). Tant’è che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte, l’organo amministrativo della società aveva posto in essere attività di recupero stragiudiziale dei crediti, tentando di rimediare alla perdita con un versamento soci in conto futuro 21umento di capitale. Il secondo, intimamente connesso al primo, è formulato sotto i profili della violazione di legge (in relazione all’art. 2621 cod. civ.) e ded connesso vizio di motivazione e attiene al profilo soggettivo del reato. Sostiene la difesa che la Corte territoriale, nel ritenere sussistente una consapevole volontà del ricorrente di aggravare il dissesto, non avrebbe tenuto conto né del versamento effettuato dai soci (significativo, al contrario, del desiderio di sanare la situazione di dissesto), né della effettiva entità dei crediti da svalutare (pari, in realtà alla sola limitata somma di euro 60.000, per come chiaramente affermato dal consulente tecnico della difesa e, quindi, tale da non erodere il capitale), né, in ultimo, dei tentativi di recupero dei crediti posti in essere dagli amministratori (e poi proseguiti dalla curatela).

Il terzo, formulato sotto il profilo della violazione di legge, attiene alla sussistenza dell’attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, di cui all’ultimo comma dell’art. 219 l. fall., e deduce l’erroneità del criterio utilizzato dalla Corte territoriale per escludere la sussistenza dell’attenuante (le condizioni di dissesto della società al momento dell’approvazione del bilancio), laddove, secondo la difesa, si sarebbe dovuto valutare esclusivamente il danno provocato dalla mancata costituzione del fondo svalutazione crediti, in sé inidoneo ad ingenerare un effettivo pregiudizio.

CONSIDERATO INI DIRITTO

1. I ricorrenti, per come si è detto, sono stati ritenuti responsabili del reato di cui all’art. 223 comma 2 n. 1, l. fall., per avere concorso a cagionare il dissesto della società, da loro stessi amministrata, occultando l’entità della perdita attraverso una rappresentazione non veritiera, nel bilancio 2008, delle poste attive e, in particolare, dei crediti, riportati nel loro intero valore nominale, pur se, in realtà, tutti inesigibili.

2. Le difese contestano sia la sussistenza del reato (tanto nella sua dimensione oggettiva, in relazione ai criteri utilizzati nella valutazione di inesigibilità e alla concreta efficienza causale dell’asserita falsa valutazione rispetto al dissesto; quanto in quella soggettiva, in relazione all’esistenza di una consapevole volontà di causare o aggravare il dissesto), sia la valutazione del danno, in ipotesi dipendente dalla predetta condotta (in relazione all’applicazione dell’attenuante di cui all’art. 219 l. fall.).

3. Le censure non sono manifestamente infondate e, pertanto, va rilevata l’intervenuta prescrizione.

Va, infatti, premesso che il bilancio, in sé, è un insieme di valori che, nel rispetto delle norme di legge, ha la funzione di informare gli interessati sia in ordine al risultato economico dell’esercizio, che alla situazione patrimoniale e finanziaria dell’impresa. Una fotografia “statica e dinamica” che ha lo scopo di orientare le determinazioni degli altri operatori del mercato (e, in quanto tale, è espressione della necessaria tutela dell’affidamento), degli stessi soci (in particolare per quelli di minoranza, per i quali è il solo strumento legale di informazione contabile sull’andamento degli affari sociali), e dei creditori sociali (quale strumento privilegiato per conoscere la consistenza del patrimonio della società, sola garanzia su cui essi possono fare affidamento).

Si tratta di un atto caratterizzato da profili descrittivi (consistenti nella mera rappresentazione del dato storico) e valutativi (consistenti nella verifica di conformità della situazione fattuale rispetto a parametri predeterminati). E per entrambi è ben ipotizzabile un profilo di falsità. Nel primo caso attraverso la difforme esposizione (anche sotto il profilo omissivo) del dato rappresentato; nel secondo caso, essendo la verifica di conformità vincolata al rispetto di criteri predeterminati dalla scienza e dalla tecnica estimativa, attraverso una valutazione non conforme ai parametri cui essa è vincolata (Sez. 5, n. 22B8 del 13/11/2014, dep. 2015, Rv. 262728; Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012 – dep. 2013, Rv. 254305). Solo in questi casi, infatti, divenendo l’esposizione del dato un modo di rappresentare la realtà (in termini di coerenza o meno con i predetti criteri) non dissimile dalla descrizione o dalla constatazione, la valutazione, ove si discosti consapevolmente dai detti criteri senza fornire adeguata informazione giustificativa, potrà ritenersi “falsa” (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli, Rv. 266803; Sez. 5, n. 46689 del 30/06/20:1.6, Coatti, Rv. 268672; Sez. 5, n. 3552 del 09/02/1999, Rv. 213366).

In concreto, per come si è detto, la falsità contestata ai ricorrenti attiene, sostanzialmente, alla valutazione di esigibilità dei crediti esposti in bilancio al loro valore nominale, laddove, secondo la prospettazione accusatoria, si sarebbero dovuti totalmente svalutare in quanto privi di un effettivo valore di realizzo.

Ebbene, i crediti, secondo la scienza aziendalistica, rappresentano diritti ad esigere, ad una scadenza, individuata o individuabile, un ammontare fisso o determinabile di disponibilità liquide (o di beni o servizi aventi un valore equivalente), dai clienti o da altri soggetti.

In applicazione del principio generale della rappresentazione veritiera e corretta, l’art. 2426, al n. 8, impone che tali poste (il cui valore, per come si è detto, è ontologicamente dipendente dal futuro adempimento del debitore) vengano esposte in bilancio in funzione del loro presumibile realizzo.

La norma codicistica trova, poi, la sua specificazione nel principio contabile n. 15 formulato dall’OIC che, nella formulazione vigente al 13 luglio 2005, precisa(va) che “il valore nominale dei crediti in bilancio deve essere rettificato, tramite un fondo di svalutazione appositamente stanziato, per le perdite per inesigibilità che possono ragionevolmente essere previste e che sono inerenti ai saldi dei crediti esposti in bilancio. Detto fondo deve essere sufficiente (adeguato ma non eccessivo) per coprire, nel rispetto del principio di competenza, sia le perdite per situazioni di inesigibilità già manifestatesi, sia quelle per altre inesigibilità non ancora manifestatesi ma temute o latenti” e deve essere fondato “su presupposti ragionevoli, utilizzando tutte le informazioni disponibili, al momento della valutazione, sulla situazione dei debitori, sulla base dell’esperienza passata, della corrente situazione economica generale e di settore, nonché dei fatti intervenuti dopo la chiusura dell’esercizio che incidono sui valori alla data del bilancio“.

Ciò considerato, la Corte territoriale ha ritenuto falsa l’indicazione del valore esposto in ragione del tempo medio d’incasso progressivamente crescente (dal 2005 in poi) e dalla successiva mancata riscossione.

Ma che la stima sia stata fallace e, quindi, scientificamente errata, non significa che sia stata anche falsa. La possibilità di applicare i criteri di veridicità o di falsità ad un enunciato valutativo dipende non solo dall’esistenza di criteri di valutazione generalmente accettati, ma anche dal loro grado di specificità e di elasticità (Sez. 5, n. 3552 del 09/02/1999, Rv. 213366).

Il principio, per come è formulato, non individua criteri predeterminati, certi e analitici alla luce dei quali determinare tale valore, ma rimanda ad un generale criterio di “ragionevolezza”, alla luce di quali individuare, in ragione delle contingenze specifiche, le effettive prospettive di esigibilità. Si tratta, quindi, di una norma (volutamente) elastica, in quanto volta a ricomprendere ipotesi concrete insuscettibili di essere inquadrate all’interno di rigide classificazioni o predeterminate casistiche.

Nessun ulteriore contributo viene offerto né dalle successive formulazioni del principio, nella sua attuale enunciazione in vigore dal 2016, dove, pur individuandosi alcuni “indicatori” dai quali desumere la “probabilità” che un credito abbia perso valore (le significative difficoltà finanziarie del debitore; eventuali violazioni contrattuali o difficoltà finanziaria del debitore; eventuali procedure di ristrutturazione finanziaria o, comunque, una diminuzione sensibile nei futuri flussi finanziari stimati; condizioni economiche nazionali o locali sfavorevoli o cambiamenti sfavorevoli nelle condizioni economiche del settore economico di appartenenza del debitore), si continua a parlare di “previsioni di perdita”, già manifestatesi oppure “ritenute probabili”; né dai principi contabili internazionali, dove per i crediti (appartenenti alla categoria dei Loans and Receivable) viene dettato lo IAS 39, che, senza neanche prevedere la necessità dello stanziamento di un fondo svalutazione crediti in caso di perdite, si limita ad imporre una Initial Recognition a fair value inclusivo dei costi di transazione direttamente imputabili e una valutazione successiva secondo il criterio del costo ammortizzato con impairment los, all’interno del quale valutare la solvibilità del debitore.

Né, in ultimo, i criteri di esigibilità possono individuarsi in quelli indicati dalla normativa fiscale negli artt. 101 e ss. del TUIR (applicazione che, peraltro, condurrebbe ad esiti incongrui rispetto alla decisione assunta dalla Corte d’appello), in quanto funzionali non già ad assicurare una rappresentazione veritiera e corretta del dato contabile, ma solo a giustificare la deducibilità della relativa perdita e, quindi, la determinazione della base imponibile e della conseguente imposizione tributaria.

Ebbene, proprio alla luce di tale evidenziata elasticità e della genericità della valutazione presupposta nell’applicazione di questo criterio, la semplice indicazione della (pacifica) assenza di tentativi di recupero e del tempo medio d’incasso progressivamente crescente non appare elemento sufficiente per sostanziare il giudizio di falsità: sarebbe stato necessario indicare gli eventuali criteri di valutazione ritenuti applicabili e rilevanti (alla luce della situazione concreta), specificando, poi, in che modo l’omissione di questi ultimi abbia concretamente inciso sulla determinazione del valore.

4. La non manifesta infondatezza del motivo impone di rilevare la sopravvenuta estinzione del reato per decorso del termine massimo di prescrizione. Il reato, infatti, risulta commesso il 27 ottobre 2010 e, in assenza di sospensioni rilevate, si è prescritto il 27 aprile 2023.

5. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata, senza rinvio, perché il reato è estinto per intervenuta prescrizione.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per intervenuta prescrizione.