Corte di Cassazione sentenza n. 3046 del 8 febbraio 2013
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – RETRIBUZIONE – DURATA DEL RAPPORTO E QUANTITÀ DELLE PRESTAZIONI LAVORATIVE – PROVA – ONERE DEL LAVORATORE – LIMITI – INDIVIDUAZIONE
massima
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Nel rapporto di lavoro subordinato, l’onere di provare la durata della prestazione, nonché, al suo interno, la misura dell’effettivo impegno lavorativo in termini di giorni e ore, grava sul lavoratore che agisca per il riconoscimento del diritto al pagamento delle retribuzioni o di differenze di retribuzione, salvo che, in presenza di una misura predeterminata e normale delle prestazioni, sia il datore di lavoro ad eccepire il mancato adempimento dei corrispondenti obblighi.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Tribunale, giudice del lavoro, di Chieti, con sentenza depositata in data 19/5/2008, rigettava la domanda proposta da M.D.P. contro la S. s.n.c. di P.G. volta ad ottenere la condanna della società convenuta al pagamento di somme a saldo delle retribuzione per attività lavorativa svolta dal ricorrente alle dipendenze della società. Rigettava, altresì, la domanda riconvenzionale proposta dalla società. Avverso tale sentenza il D.P. proponeva appello. La Corte territoriale di L’Aquila riteneva che incombesse sul datore di lavoro l’onere di provare che il rapporto di lavoro fosse stato a tempo parziale e che tale prova dovesse essere data per iscritto, insufficiente essendo, a superare il relativo onere, la prova testimoniale assunta. Riteneva, inoltre, congrua una liquidazione del corrispettivo dovuto compiuta alla stregua delle previsioni della contrattazione collettiva. In conseguenza, accoglieva l’appello e condannava la società appellata al pagamento in favore del ricorrente della somma di euro 13.140,00.
Avvero tale sentenza propongono ricorso la S. s.n.c. e G.P. affidato a sei motivi.
Resiste con controricorso M.D.P..
La S. s.n.c. ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano: “Nullità della sentenza e del procedimento,anche in relazione alla violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112 e 342 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ. ed all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.”. Deducono che il D.P., con l’atto di appello, non aveva proposto censure specifiche concernenti la deduzione della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno anziché parziale, essendosi lamentato dell’erronea valutazione del primo giudice in relazione al numero di ore lavorate ed al periodo di lavoro ed essendosi limitato a chiedere la declaratoria della “sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato intercoso tra le parti dall’1 dicembre 1991 al 25 novembre 1993” ed il riconoscimento “che l’appellante ha svolto mansioni relative al 4° livello del C.C.N.L. per le imprese del settore commercio vigente all’epoca del rapporto di lavoro e la condanna della società appellata al pagamento delle differenze retributive. Assumono, pertanto, che la decisione di secondo grado ha statuito ultra petita.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano: “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. nonché di ogni altra norma e principio in tema di riparto dell’onere della prova e di individuazione della parte processuale sulla quale incombe tale onere in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.”. Assumono che la regola del riparto dell’onere della prova è dettata dall’art. 2697 cod. civ., secondo cui i fatti costitutivi devo essere dimostrati da colui che fa valere il relativo diritto. Nello specifico, tale onere gravava sul D.P..
3. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano: “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 421, comma 2, cod. proc. civ. nonché di ogni altra norma e principio in tema di insussistenza di limiti di ammissibilità della prova testimoniale in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.”. Assumono che la prova testimoniale dedotta dal datore di lavoro – ed assunta in primo grado – in ordine allo svolgimento dell’orario di lavoro da parte del D.P. non poteva essere ritenuta inammissibile e quindi irritualmente acquisita.
4. Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano: “Omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.”. Deducono che la Corte aquilana ha fondato il proprio convincimento in ordine alla sussistenza dell’asserito svolgimento, da parte del D.P., di un maggior orario di lavoro, rispetto a quello retribuitogli, ritenendo la prova testimoniale su cui il primo giudice aveva fondato il proprio (diverso) convincimento “incerta perché contrastante con prova testimoniale di contenuto contrario ed opposto” senza tuttavia indicare le fonti di tale valutazione. Assumono, inoltre, che la decisione di secondo grado è carente di giustificazione anche in ordine alla qualifica superiore rivendicata ex adverso.
5. Con il quinto motivo i ricorrenti denunciano: “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., nonché di tutte le altre norme e principi in tema di indicazione delle ragioni della decisione in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ..”. Deducono che la sentenza difetta di un requisito essenziale non contenendo l’esposizione, neppure succinta, delle ragioni per le quali viene privilegiata una fonte di prova rispetto all’altra, peraltro della medesima tipologia.
6. Con il sesto motivo i ricorrenti denunciano: “Contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.. Deducono che la Corte territoriale è incorsa in una insanabile contraddizione laddove ha, da una parte, affermato che il datore di lavoro non ha provato che il lavoratore osservasse un determinato orario e, dall’altra, ritenuto che il lavoratore non ha provato di aver svolto lo straordinario e quindi di aver svolto attività eccedente il predetto orario.
7. Va preliminarmente dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto da G.P..
Con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ. la S.C. di P.G. s.n.c. ha comunicato l’intervenuta cancellazione della società dal Registro delle Imprese in data 20 dicembre 2010 ed anche prodotto la certificazione della CCIAA di Chieti da cui si evince la suddetta cancellazione.
Nella specie, la sentenza della corte territoriale è stata pronunciata nei confronti della s.n.c., in persona del legale rappresentante pro tempore, G.P. e non anche nei confronti di quest’ultimo, in proprio.
Il ricorso per cassazione è stato proposto, oltre che dalla s.n.c., anche da G.P., in proprio, e ciò con ricorso del 3 novembre 2010, anteriore, dunque, alla cancellazione.
Invero, come è stato ritenuto da questa Corte a Sez. Un.- sentenza 22 febbraio 2010 n. 4060 – “In tema di società, una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2495, secondo comma, cod. civ., come modificato dall’art. 4 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, nella parte in cui ricollega alla cancellazione dal registro delle imprese l’estinzione immediata delle società di capitali, impone un ripensamento della disciplina relativa alle società commerciali di persone, in virtù del quale la cancellazione, pur avendo natura dichiarativa, consente di presumere il venir meno della loro capacità e soggettività limitata, negli stessi termini in cui analogo effetto si produce per le società di capitali, rendendo opponibile ai terzi tale evento, contestualmente alla pubblicità nell’ipotesi in cui essa sia stata effettuata successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 6 del 2003, e con decorrenza dal 1° gennaio 2004 nel caso in cui abbia avuto luogo in data anteriore”.
Se, dunque, la cancellazione dal registro delle imprese di una società di persone, analogamente a quanto avviene con riferimento ad una società di capitali, determina l’estinzione del soggetto giuridico e la perdita della sua capacità processuale con la conseguenza che, nei processi in corso, fa legittimazione sostanziale e processuale, attiva e passiva, si trasferisce automaticamente, ex art. 110 cod. proc. civ., ai soci, che, per effetto della vicenda estintiva, divengono partecipi della comunione in ordine ai beni residuati dalla liquidazione o sopravvenuti alla cancellazione, non può non rilevarsi che G.P. ha proposto il ricorso per cassazione in proprio prima dell’intervenuta cancellazione. Lo stesso è, perciò, sprovvisto di legittimazione ad agire.
8. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Va innanzi tutto ricordato che, nel giudizio di legittimità, va tenuta distinta l’ipotesi in cui si lamenti l’omesso esame di una domanda da quella in cui si censuri l’interpretazione che ne ha dato il giudice del merito. Nel primo caso, si verte in tema di violazione dell’articolo 112 cod. proc. civ. e si pone un problema di natura processuale per la soluzione del quale la Corte di Cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti, onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiesta. Nel secondo caso, invece, poiché l’interpretazione della domanda e l’individuazione del suo contenuto integrano un tipico accertamento di fatto riservato, come tale, al giudice del merito, in sede di legittimità va solo effettuato il controllo della correttezza della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata (cfr. ex multis Cass. 24 luglio 2008 n. 20373; id. 21 giugno 2007 n. 14486; 7 luglio 2006 n. 15603).
Orbene, nel caso di specie, non vi è dubbio che la censura attenga alla interpretazione di quanto prospettato dal D.P. in sede di ricorso introduttivo e riproposto in appello. Sotto tale profilo non appare censurabile l’interpretazione del contenuto della domanda – sulla base dei dati di fatto in essa contenuti – come emergente dal riferimento, contenuto nella sentenza qui impugnata, alla dedotta sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con prestazioni asseritamente effettuate anche oltre il limite dell’orario ordinario.
9. Il secondo motivo è infondato.
La Corte territoriale ha ritenuto incontestata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato e fatto riferimento, ai fini della quantificazione delle spettanze del D.P., ai conteggi redatti in applicazione del contratto collettivo.
In un ipotesi di tal genere grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver adempiuto alle proprie obbligazioni oppure che sia intervenuta una causa esonerativa delle stesse totale o parziale (ad esempio, perché la prestazione fornita dal lavoratore era stata inferiore rispetto agli ordinari parametri – per orario o per assenze ovvero perché vi è stata una causa sospensiva della prestazione senza obbligo retributivo corrispettivo -).
Può, infatti, ribadirsi quanto già affermato da questa Corte in plurime decisioni (cfr. Cass. 23 febbraio 2000, n. 2033, id. 13 maggio 2002 n. 6878, 18 marzo 2004 n. 5518) e cioè che il rapporto di lavoro subordinato, in assenza della prova di un rapporto part-time, nascente da atto scritto, si presume a tempo pieno ed è onere del datore di lavoro, che alleghi invece la durata limitata dell’orario di lavoro ordinario, fornire la prova della riduzione della prestazione lavorativa rispetto a quella ordinaria fissata per contratto collettivo (si veda, anche, la recente decisione n. 1430 dell’1/02/2012 che, con riguardo ad una controversia previdenziale, si è così espressa: “Anche a voler prendere in considerazione quella dottrina che suggerisce di limitare la prescrizione della forma scritta, nei contratti solenni, alle sole clausole essenziali e non anche a quelle relative ad elementi accessori (in senso contrario v., però, Cass. 23/5/62 n. 1197; v. altresì, circa l’estensione della forma vincolata anche a patti successivi che modifichino una clausola del contratto solenne, Cass. 24/11/80 n. 6231; Cass. n. 4017/78; Cass. n. 1573/71; Cass. 15/7/63 n. 1913), nondimeno nel caso di specie resterebbe il rilievo ostativo che la distribuzione oraria (in relazione al giorno, alla settimana, al mese o a periodi più lunghi) integra il nucleo stesso del contratto a tempo parziale e la ragion d’essere della particolare garanzia costituita dall’imposizione della forma scritta, per evitare che il datore di lavoro, avvalendosi d’una carente o generica pattuizione scritta sulla distribuzione dell’orario, possa modificarla a proprio piacimento a fini di indebita pressione sul lavoratore”).
Ma il motivo non merita miglior sorte anche a voler ritenere che l’avvenuto riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato non comporti automaticamente l’applicabilità a tale rapporto di una determinata disciplina della contrattazione collettiva e specificamente di quella relativa all’orario di lavoro. È pur vero, infatti, che, come precisato da questa Corte nella sentenza n. 14468 del 7/11/2000: “Nel rapporto di lavoro subordinato, l’onere di provare la durata della prestazione, nonché, al suo interno, la misura dell’effettivo impegno lavorativo in termini di giorni e ore, grava sul lavoratore che agisca per il riconoscimento del diritto al pagamento delle retribuzioni o di differenze di retribuzione, salvo che, in presenza di una misura predeterminata e normale delle prestazioni, sia il datore di lavoro ad eccepire il mancato adempimento dei corrispondenti obblighi. (Nella specie non risultava applicabile al rapporto – avente ad oggetto attività di carico, scarico e vendita di carburanti – un contratto collettivo e di conseguenza la S.C. ha escluso in radice la possibile rilevanza della mancata stipulazione in forma scritta di un contratto a tempo parziale, la cui normativa non può ritenersi applicabile in assenza di un orario “ordinario previsto da contratti collettivi di lavoro”: cfr. art. 5, comma primo, D.L. n. 726 del 1984, convertito con modificazioni della legge n. 863 del 1984”, tuttavia, nel motivo de quo, manca (in violazione del principio di autosufficienza) ogni riferimento fattuale per sussumere la fattispecie oggetto di causa, a fronte della riconosciuta esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e della richiamata contrattazione collettiva, nella previsione astratta della irrilevanza della forma scritta di un contratto a tempo parziale.
10. Il terzo motivo è inammissibile.
Va innanzitutto rilevata l’estrema genericità della denunciata violazione di legge nella parte in cui si assume violata “ogni altra norma e principio in tema di insussistenza di limiti di ammissibilità della prova testimoniale”. In materia di procedimento civile, nel ricorso per Cassazione il vizio della violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360, primo comma n. 3, cod. proc. civ., giusta il disposto di cui all’art. 366, primo comma n. 4, cod. proc. civ., deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla Corte di Cassazione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata. Questa Corte ha più volte ribadito che nel ricorso per Cassazione il requisito della esposizione dei motivi di impugnazione – nella quale la specificazione dei motivi e l’indicazione espressa delle norme di diritto non costituiscono requisiti autonomi, avendo la seconda la funzione di chiarire il contenuto dei motivi – mira ad assicurare che il ricorso consenta, senza il sussidio di altre fonti, l’immediata e pronta individuazione delle questioni da risolvere, cosicché devono ritenersi inammissibili quei motivi che non precisino in alcuna maniera in che cosa consista la violazione di legge che avrebbe portato alla pronuncia di merito che si sostiene errata, o che si limitino ad una affermazione apodittica non seguita da alcuna dimostrazione (cfr. in tali sensi Cass. 14 agosto 1998 n. 8013 ed ancora, sempre per il principio dell’autosufficienza, Cass. 20 agosto 2004 n. 16458; Cass. 1 luglio 2003 n. 10330, che ribadisce l’inammissibilità del ricorso per cassazione che non consenta l’immediata e pronta individuazione delle questioni da risolvere e delle ragioni per cui si chieda la cassazione della sentenza di merito, né permetta la valutazione della fondatezza di tali ragioni “ex actis”, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti estranee al ricorso e, quindi, ad elementi ed atti attinenti al pregresso giudizio di merito; cfr. anche, in termini, Cass. 6 luglio 2007 n. 15263, id. 5 giugno 2007 n. 13066).
Il motivo è inammissibile per la assoluta mancanza di autosufficienza della censura anche sotto altro profilo. Non è stato, infatti, minimamente indicato, in riferimento alla prova testimoniale, ad avviso del ricorrente illegittimamente pretermessa, quando detta prova sia stata richiesta ed ammessa, l’oggetto dei capitoli di prova, il contenuto delle dichiarazioni testimoniali, al fine di consentire a questa Corte, prima ancora della delibazione di legittimità, il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse. Per quanto concerne la denuncia di violazione di norme di diritto, poiché l’interesse ad impugnare con il ricorso per Cassazione discende dalla possibilità di conseguire, attraverso il richiesto annullamento della sentenza impugnata, un risultato pratico favorevole, è necessario, anche in caso di denuncia di un errore di diritto a norma dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., che la parte ottemperi al principio di autosufficienza del ricorso (correlato all’estraneità del giudizio di legittimità all’accertamento del fatto), indicando in maniera adeguata la situazione di fatto della quale chiede una determinata valutazione giuridica, diversa, da quella compiuta dal giudice “a quo”, asseritamente erronea.
11. Il quarto motivo è inammissibile.
Il ricorrente che denunci, sotto il profilo di omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, l’omessa o erronea valutazione delle risultanze istruttorie ha l’onere di indicarne specificamente il contenuto.
Va, sul punto, richiamato l’indirizzo generale consolidato in base al quale la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che dì altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. ex multis Cass. 9 aprile 2001 n. 5231, id. 15 aprile 2004 n. 7201; 7 agosto 2003 n. 11933; 5 ottobre 2006 n. 21412). Del resto, come pure è stato più volte precisatogli controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (si vedano, fra le altre, Cass. 7 giugno 2005 n. 11789, id. 6 marzo 2006 n. 4766).
Orbene nella fattispecie la società ricorrente in sostanza si limita a prospettare la propria lettura delle risultanze istruttorie (asseritamente coincidente con quella del giudice di primo grado) invocando, senza minimamente riportare né il contenuto della sentenza di prime cure né le affermazioni dei testi a sé favorevoli, una inammissibile revisione del “ragionamento decisorio”, non sussumibile nel controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360, n. 5, cod. proc. civ..
Si aggiunga che nessuna attribuzione di mansioni superiori è dato evincere dalla sentenza impugnata, il che rende del tutto inappropriata rispetto al decisum la doglianza relativa ad una carenza di giustificazione in ordine alla qualifica superiore rivendicata ex adverso.
12. Per il quinto motivo valgono le medesime considerazioni svolte con riferimento al terzo motivo sussistendo anche in questo caso tanto la genericità delle censure quanto l’assoluta mancanza di elementi da cui ricavare la possibilità di conseguire, attraverso il richiesto annullamento della sentenza impugnata, un risultato pratico favorevole.
13. Il sesto motivo è infondato non rilevandosi alcuna contraddittorietà nell’aver, da un lato, ritenuto incontroversa l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e, dall’altro, escluso la prova di prestazioni straordinarie.
14. Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato.
15. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, dovendo farsi applicazione del nuovo sistema di liquidazione dei compensi agli avvocati di cui al D.M. 20 luglio 2012, n. 140. Al riguardo va precisato che l’art. 9 del Decreto legge 24 gennaio 2012 n. 1, convertito, con modificazioni, in legge 24 marzo 2012, n. 27, dispone: “1. Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico. 2. Ferma restando l’abrogazione di cui al comma 1, nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante, da adottare nel termine di centoventi giorni successivi alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, (omissis) 3. Le tariffe vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, fino alla data di entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2 e, comunque, non oltre il centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”. Con Decreto 20 luglio 2012, n. 140, è stato, quindi, emanato il Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi del citato articolo 9.11 Regolamento trova applicazione in difetto di accordo tra le parti in ordine al compenso (art. 1 d.m. 140/2012 in riferimento all’art. 9, comma 4, d.l. n. 1/2012, conv. l. 24 marzo 2012 n. 27). L’art. 41 di tale Decreto n. 140/2012, aprendo il Capo VII relativo alla disciplina transitoria, stabilisce che le disposizioni regolamentari introdotte si applicano alle liquidazioni successive all’entrata in vigore del Decreto stesso, avvenuta il 23 agosto 2012.
Il riferimento testuale al momento della liquidazione contenuto nell’art. 41 citato (“le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore”) depone per la soluzione interpretativa che porta a ritenere applicabile la nuova disciplina anche ai casi in cui le attività difensive si siano svolte o siano comunque iniziate nella vigenza dell’abrogato sistema tariffario forense.
Nel nuovo sistema, che non prevede più la distinzione tra diritti e onorari, ma esige che la valutazione dell’opera del professionista avvenga per fasi processuali (artt. 4 e 11) e secondo parametri specifici (art. 11 e tabella A-Avvocati), l’apprezzamento dell’attività difensiva, alla stregua dei criteri di cui al secondo e terzo comma dell’art. 4, non è più correlato al momento in cui l’opera è prestata, ma al momento in cui questa viene valutata dal giudice.
Qualsiasi diversa soluzione interpretativa che consentisse l’applicazione del sistema tariffario alle liquidazioni successive all’entrata in vigore del d.m. in esame contrasterebbe non solo con la disposizione regolamentare di cui all’art. 41 citato, ma anche con il dettato normativo di cui al comma terzo dell’art. 9, d.l. n. 1/2012, conv. l. 24 marzo 2012 n. 27, che ha – con chiarezza – escluso l’ultrattività del sistema tariffario oltre la data di entrata in vigore del decreto ministeriale, avvenuta anteriormente alla scadenza del termine (di centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione) fissato per la transitoria applicazione del sistema tariffario abrogato.
Avuto riguardo allo scaglione di riferimento della causa; considerati i parametri generali indicati nel menzionato art. 4 del D.M. e non ravvisandosi elementi che giustifichino un discostamento dal valore medio di riferimento indicato per ciascuna della tre fasi previste per il giudizio di cassazione (fase di studio, fase introduttiva e fase decisoria) nella allegata Tabella A i compensi sono liquidati nella misura omnicomprensiva di euro 2.500,00, oltre euro 40,00 per esborsi.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto da G.P. e rigetta quello proposto dalla S.C. s.n.c.; condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento, in favore della controparte, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 40,00 per esborsi ed euro 2.500,00 per compensi professionali oltre IVA e CAP, come per legge, da corrispondersi all’avv. F.C., antistatario.
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