Corte di Cassazione sentenza n. 3320 del 11 febbraio 2011
IMPOSTE SUI REDDITI – REDDITI D’IMPRESA – DEDUCIBILITA’ – GIRO D’AFFARI – PROVATO DA DOCUMENTI – LETTERE D’INTENTI TRA AZIENDE – LIMITI
massima
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Non sono deducibili i costi aziendali dichiarati in bilancio sulla base di una lettera di intenti fra due imprese se non confermati da altri documenti che provano il reale giro d’affari.
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Svolgimento del processo
La spa F., operante nella distribuzione all’ingrosso di prodotti farmaceutici, propone ricorso per cassazione nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania in epigrafe che, accogliendo l’appello dell’Agenzia delle entrate, ufficio di Napoli 4, ha ritenuto legittimo l’avviso di accertamento, ai fini dell’ILOR e dell’IRPEG per l’anno 1993, di un maggior reddito d’impresa. Erano stati infatti ripresi a tassazione costi, ritenuti non inerenti all’attività d’impresa, in quanto non documentati, in relazione a fatture emesse dalla spa L. per l’attività di esazione di crediti, sulla base di una lettera di intenti della società contribuente, non registrata, a tenore della quale veniva riconosciuto a quella un compenso mensile di L. 12 milioni; le fatture, esibite nel corso dell’ispezione, emesse dalla stessa L. per “consegna merci nostro personale”, e quindi per prestazioni diverse, erano state ricondotte dalla società contribuente ad errore materiale dell’impiegato addetto al computer.
Secondo il giudice d’appello la spa F., sulla quale grava il relativo onere, non aveva provato la deducibilità dei costi, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, non essendo stata prodotta documentazione concernente l’esito dell’attività di riscossione o lettere di messa in mora o solleciti. Riteneva che gli stretti rapporti familiari intercorrenti tra i titolari delle due società e la mancanza di documentazione, anche generica, sull’attività svolta della L. facevano considerare la lettera d’intenti come un espediente teso a far apparire costi in realtà inesistenti e, comunque, all’evasione fiscale.
L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente denuncia la nullità della sentenza per inosservanza dell’obbligo di specificità dei motivi di appello, per avere l’ufficio finanziario riproposto nel gravame considerazioni già proposte nelle controdeduzioni in primo grado, senza contrastare gli argomenti svolti dal giudice.
Il rilievo è infondato, ove si consideri che questa Corte ha più volte affermato che “nel processo tributario, la riproposizione in appello delle stesse argomentazioni poste a sostegno della validità dell’atto impugnato dal contribuente, in quanto considerate dall’amministrazione finanziaria idonee a sostenere la legittimità dell’atto stesso e confutare le diverse conclusioni cui è pervenuto il giudice di primo grado, assolve l’onere d’impugnazione specifica imposto dall’art. 53 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546” (Cass. nn. 18111/2009, 14031/2006).
Con il secondo motivo censura la decisione, sotto il profilo della violazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, per aver ritenuto non inerenti i costi non documentati, escludendone la deducibilità, costi che invece erano stati effettivamente sostenuti, come risultava dalla loro imputazione al conto dei profitti e delle perdite e dalle regolari fatture che li documentavano.
Con il terzo motivo si duole della violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, per avere il giudice d’appello fondato la decisione sulla inesistenza dei costi relativi all’attività di recupero crediti svolta dalla L., laddove con l’atto impositivo era stata contestata “l’inerenza dei costi addebitati dalla L. alla F. e relativi a ritiro note ed esazione crediti”.
Con il quarto motivo, denunciando vizio di motivazione, censura la decisione per il mancato esame del requisito dell’inerenza, sul quale sarebbe stata fondato l’avviso impugnato e la sentenza di primo grado.
Tali motivi, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono del pari infondati.
La censura della società contribuente si risolve a ben vedere nella contestazione dell’uso improprio del termine “inerenza” nell’avviso di accertamento, dal quale, invece, come del resto dal verbale di constatazione, risulta in modo inequivoco la esclusione, da parte dell’ufficio finanziario, della deducibilità di quei costi perchè riferiti ad operazioni inesistenti. Infatti, pur essendo “appostati al conto economico Ritiro note ed esazione crediti del bilancio chiuso al 31.12.1993”, e pur trovando i relativi importi corrispondenza in fatture emesse dalla L. per l’importo determinato nella “lettera d’intenti”, i costi erano “non documentati”.
Nè la prova di quei costi era stata fornita in sede contenziosa dalla contribuente, sulla quale incombeva il relativo onere.
Il giudice d’appello, affermato il principio della deducibilità di spese ed oneri “se e nella misura in cui risultano da elementi certi e precisi”, ha ritenuto “di assoluto rilievo la circostanza che la F.” non avesse esibito, nè nella fase amministrativa che in quella contenziosa, “la documentazione inviatale dalla L. circa l’esito o il risultato di attività di riscossione crediti, ma neppure una qualche lettera, un sollecito, un monito, una messa in mora, un qualche sintomo di attività per l’ampio compito, conferito con la lettera d’intenti del dicembre 1990 per L. 12 milioni mensili, dello incasso dello scaduto e di qualsiasi esigenza commerciale”.
Ha altresì rilevato come nel corso della verifica, che aveva investito più periodi d’imposta, erano state rinvenute fatture emesse dalla L., sempre per l’importo di L. 12 milioni di cui alla lettera d’intenti, ma riferite a prestazioni del tutto diverse (“per consegna nostro personale e vostri mezzi”).
Ed ha infine osservato che “gli stretti rapporti (sono fratelli) tra i titolari della F. e della L., la codetenzione di pacchetti azionari degli stessi delle due società, la circostanza basilare della mancanza di documentazione, anche generica, sulla attività svolta dalla L. fanno apparire la lettera d’intenti come un espediente, fin troppo trasparente, teso a far apparire costi inesistenti e, comunque, all’evasione fiscale”.
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in complessivi Euro 1600, di cui Euro 100 per estorsi.
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