CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 ottobre 2013, n. 44248
Reati societari – Bancarotta – Bancarotta semplice – Ristoratore – Autoconsumo – Spese personali – Pasti – Rata del mutuo – Non sussiste
Fatto e diritto
Propongono ricorso per cassazione M.F. e M.S. avverso la sentenza della Corte d’appello di Trieste in data 19 aprile 2012 con la quale è stata confermata quella di primo grado (emessa nel 2009 all’esito di giudizio abbreviato), di condanna in ordine al reato di bancarotta semplice ex articolo 217 primo comma n. 1 legge fallimentare.
Tali ricorrenti, nelle qualità, rispettivamente, di amministratore di fatto e di socio accomandatario della società in accomandita semplice S. di M.S. & c., dichiarata fallita il 23 novembre 2007, sono stati ritenuti responsabili, in concorso fra loro ai sensi della norma dell’art. 217 sopra citata e quindi quali imprenditori individuali personalmente falliti, di avere effettuato spese personali o per la famiglia eccessive rispetto alle loro condizioni economiche, così nuovamente qualificata l’originaria imputazione di bancarotta fraudolenta per distrazione, contestata con riferimento a prelievi ingiustificati effettuati dal 2001 al 2004.
Il giudice dell’appello ha ritenuto che, in relazione al periodo quadriennale preso in considerazione, i prelievi ingiustificati si riducessero alla somma complessiva di € 59.000, inferiore rispetto a quella (€ 135.000) indicata nel capo d’imputazione e che comunque si trattasse di un importo dato da prelievi che non potevano trovare giustificazione legale poiché non potevano dirsi spesi per soddisfare bisogni essenziali per il sostentamento degli imprenditori e della loro famiglia.
Ed infatti l’importo in questione era costituito da mancati pagamenti per somministrazione di alimenti e bevande forniti dalla società in favore dei ricorrenti; da prelievi in parte del tutto ingiustificati e, infine, da un importo che sarebbe servito per consentire a M.S. di pagare una rata di mutuo.
Era rimasta invece destituita di prova l’affermazione che parte delle somme sarebbero state prelevate a titolo di compenso degli amministratori.
Deducono
1) il vizio della motivazione.
La Corte territoriale aveva riconosciuto, in accoglimento di uno specifico motivo d’appello, che l’ammanco di cui al capo A) doveva ridursi di due terzi e cioè sino a € 59.000, ma poi aveva finito per confermare la sentenza di primo grado che aveva accertato una distrazione di € 135.000, fatto risultato non vero.
Lo stesso vizio di motivazione riguarda l’affermazione del giudice dell’appello secondo cui costituirebbero spese non giustificate anche quelle rappresentate dal mancato pagamento di prestazioni alimentari ricevute dalla società, la quale operava nel campo della ristorazione.
Il giudice non aveva valutato adeguatamente la tesi del “autoconsumo” sostenuta dalla difesa la quale aveva anche osservato che tali prestazioni (pasti) erano soggetti soltanto alla-avvenuta- contabilizzazione per finalità puramente fiscali dovendo risultare come spese sostenute dalla società.
In altri termini sarebbe abnorme pretendere che l’amministratore pagasse a se stesso un servizio erogato ma anche usufruito dello stesso soggetto.
In ordine alla somma utilizzata per pagare una rata del mutuo da parte di M.S., la difesa insiste sulla tesi dell’essere, un simile pagamento, espressione di un bisogno primario in quanto riferito all’abitazione dove si vive e comunque destinato ad incrementare il patrimonio personale dell’imprenditore il quale, così facendo, dovendo rispondere di debiti della società di persone anche con i beni personali, non aveva determinato un depauperamento delle garanzie dei creditori.
Alla luce delle argomentazioni sopra esposte dovrebbe essere considerata apodittica e manifestamente illogica anche l’affermazione del giudice dell’appello secondo cui le somme spese per pasti e bevande e per il mutuo della casa di abitazione, pari rispettivamente a € 33.000 per il quadriennio e € 13.450, non erano destinate a soddisfare bisogni primari.
Il ricorso è fondato.
Occorre prendere le mosse dal rilievo che il reato di bancarotta semplice ai sensi dell’articolo 217 comma 1 n.1 legge fallimentare appare ritenuto a carico degli odierni imputati ricorrenti nelle qualità di imprenditori dichiarati personalmente falliti.
Tanto si desume, da un lato, dal primario rilievo che la peculiare fattispecie applicata già dal primo giudice, disciplinando e punendo le spese personali eccessive dell’imprenditore dichiarato fallito, è tipicamente riferibile all’imprenditore individuale e non al l’amministrato re di società il quale non può essere ritenuto legittimato a spese personali neppure se non eccessive, mentre può essere chiamato a rispondere di operazioni manifestamente imprudenti o delle altre fattispecie previste dei numeri 4 e 5 dell’articolo 217, norma che, in tali limiti, deve ritenersi richiamata dall’articolo 224 con riferimento, appunto, all’amministratore di società dichiarata fallita.
Il secondo argomento è costituito dal rilievo che, in base all’art. 222 I. fall., l’art. 217 si applica al socio illimitatamente responsabile della s.a.s. dichiarata fallita, salva la operatività delle norme sul concorso personale riguardo a condotte di terzi compartecipi.
Il terzo argomento è dato dall’articolo 147 legge fallimentare il quale prevede, tra l’altro, che la sentenza dichiarativa di fallimento della società in accomandita semplice produce anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, tale dovendosi ritenere, ai sensi dell’articolo 2313 c.c., il socio accomandatario.
Il quarto argomento si ricava dalla stessa sentenza impugnata nella quale, a pagina cinque, è accreditata la tesi che l’articolo 217 comma uno legge fallimentare, riguardante l’imprenditore individuale, è stato applicato nella specie “alla società di persone a base familiare”.
Tale impostazione giuridica non risulta avere formato oggetto di contestazioni da parte della difesa e se ne debbono ritenere integrati, pertanto, tutti presupposti.
Ciò posto, è pure da osservare che il giudice dell’appello sembra avere valutato la sussistenza della fattispecie astratta menzionata, con riferimento all’ammanco di € 59.000, tale essendo quello riferibile al periodo di tempo esattamente indicato nel capo d’imputazione.
Tale conclusione, in primo luogo, radica il vizio della motivazione della sentenza la quale, ciò nonostante, non ha dato atto nel dispositivo dell’assai minore entità della distrazione ritenuta penalmente accertata, rispetto a quella, pari quasi al triplo, enunciata nel imputazione.
Ma, quel che più conta ai fini dell’integrazione del vizio denunciato, è la totale mancanza di valutazione in ordine alla eventualità che l’importo parziale del menzionato ammontare complessivo, rappresentato dai circa € 33.000 accertati quale mancato corrispettivo per la fruizione di pasti da parte degli imputati con corrispondente depauperamento delle garanzie dei creditori della società, potesse, in sé, costituire o meno una spesa eccessiva degli imprenditori illimitatamente responsabili.
Partendo cioè dal preliminare rilievo che sono “spese eccessive” le spese personali o per la famiglia che, pur essendo razionali e più o meno connesse alla vita dell’azienda risultano sproporzionate alla capacità economica dell’imprenditore (Rv. 119090), il giudice dell’appello avrebbe dovuto soffermarsi ad esaminare non tanto la loro natura ed origine- dipendente direttamente dalia fattispecie normativa applicata- bensì se, per entità, quelle dovessero essere considerate sproporzionate, tenuto conto del periodo di tempo al quale dovevano essere fatte risalire e al numero dei soggetti beneficiari.
Per colmare tale lacuna s’impone l’annullamento con rinvio dovendosi considerare che delimitazione dell’importo della spesa eccessiva, di cui all’articolo 217 legge fallimentare comporta la necessità della rivalutazione dell’elemento psicologico e comunque dell’intera vicenda quantomeno ai fini della ridefinizione del trattamento sanzionatorio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Trieste per nuovo esame.
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