Corte di Cassazione sentenza n. 5957 del 16 aprile 2012
LAVORO (RAPPORTO DI) – RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO E LAVORO AUTONOMO – ONERE DELLA PROVA
massima
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Il rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno, intercorrente tra le parti, deve ritenersi dimostrato non perché non risulti fornita la prova scritta relativamente alla stipulazione del contratto di lavoro a tempo parziale quanto, piuttosto, perché il contratto di lavoro subordinato si presume a tempo pieno salvo prova contraria.
A norma dell’art. 2697 c.c. in materia di onere della prova, grava sull’attore la prova dei fatti costitutivi della pretesa azionata in giudizio. Ai fini della dimostrazione dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, è onere del lavoratore fornire la prova, ex art. 2697 c.c., della sussistenza di tutti gli elementi necessari e sufficienti a far qualificare il rapporto di lavoro come subordinato (Cass. civ., Sez. lavoro, 02/08/2010, n. 17992). E’, dunque, necessario che il lavoratore provi l’esistenza del vincolo di subordinazione al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, che si estrinseca in ordini specifici, oltre che in un’attività di controllo e vigilanza delle prestazioni lavorative. Anche qualora sussistano altri indici rivelatori della natura subordinata del rapporto, stante la loro sussidiarietà e complementarità e, dunque, la loro natura meramente indiziaria, è fondamentale provare l’unico elemento probante della subordinazione, rappresentato dalla dimostrazione della permanente disponibilità del prestatore nei confronti del datore di lavoro con assoggettamento gerarchico al potere di direzione e controllo di quest’ultimo.
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Svolgimento del processo
R.M.A. conveniva in giudizio avanti il Tribunale del lavoro di Cuneo la M. P. in liquidazione s.r.l. e la F. s.r.l. assumendo di aver lavorato dal 27.10.2004 per la prima società, proseguendo il rapporto successivamente con la seconda società (di cui solo formalmente risultava amministratore unico) a seguito di trasferimento di ramo di azienda sino alla risoluzione verbale del rapporto avutasi l’8.7.2006.
Allegava che le mansioni svolte avevano natura dirigenziale, e chiedeva, accertata l’ingiustificatezza del licenziamento, la condanna (in via solidale delle due società convenute) al pagamento delle dovute differenze retributive, anche per TFR, dell’indennità di mancato preavviso e dell’indennità supplementare nella misura indicata in ricorso.
Si costituivano le due società convenute che deducevano che l’attività era stata di mera consulenza e di procacciamento di affari; il ricorrente disconosceva la sua sottoscrizione di alcuni documenti prodotti.
Il Tribunale, senza ammettere alcuna istruttoria, rilevava che la sottoscrizione del R. sul contratto di collaborazione era frutto di una trasposizione e con sentenza del 28.1.2009 rigettava la domanda escludendo la natura subordinata e dirigenziale dell’attività svolta dal R.
Sull’appello del R. la Corte di appello di Torino con sentenza 29.10.2009 lo rigettava. Osservava che, anche se alcuni capitoli di prova formulati in primo grado erano in realtà ammissibili, erano tuttavia inidonei a dimostrare l’esistenza di un lavoro subordinato di natura dirigenziale posto che non dimostravano una ingerenza dell’amministratore delegato sull’attività svolta dal ricorrente, ma solo stretti contatti tra i due. Il rapporto era stato sempre definito tra le parti come di consulenza ed erano state sottoscritte ripetutamente ricevute per prestazioni professionali.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre il R. con tre motivi, resiste la F. s.r.l. con controricorso, che ha anche proposto ricorso incidentale condizionato.
Motivi della decisione
Con il primo motivo del ricorso principale si allega la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata circa un fatto controverso e decisivo della controversia, nonché la violazione e falsa applicazione di norme di diritto. Era stata dedotta al capo n. 17 dell’articolato di prova una subordinazione gerarchica da parte del R. nei confronti dell’amministratore delegato per un gran numero di affari, mentre si è ritenuto, non ammettendo la chiesta prova, da parte della Corte di appello necessario provare una ingerenza dell’amministrazione. Tuttavia l’ingerenza è altro che un aspetto delle subordinazione gerarchica. Si era violato l’art. 2094 c.c.: la prova avrebbe consentito di dimostrare l’esistenza di uno stato di subordinazione.
Il motivo appare infondato, la Corte territoriale ha analiticamente esaminato tutti i capitoli di prova articolati dal ricorrente, compreso quello di cui si parla nel motivo e cioè il n. 17, ed ha osservato che questo capitolo come altri (pag. 9 della sentenza impugnata) non apparivano inammissibili come ritenuto dal Giudice di primo grado, ma che tuttavia appariva inutile lo svolgimento della prova in quanto, anche se fossero risultate provate tutte le circostanze formulate, le stesse avrebbero potuto dimostrare solo una vicinanza tra il ricorrente ed l’amministratore delegato ed un rapporto stretto tra i due (perfettamente coerente con l’essere il R. collaboratore della società), per alcuni affari gestiti dal R. , ma non che fosse consentito all’amministrazione di ingerirsi direttamente in tali affari, sostituendo l’opera del ricorrente o obbligandolo a certe scelte. È ben vero che all’inizio del capitolo si allega che il ricorrente è stato sottoposto al potere direttivo del datore di lavoro, ma ciò che conta sono le circostanze fattuali sulle quali si è chiesta in concreto la prova e nel motivo non si allegano elementi specifici in base ai quali la prova, se svolta, avrebbe consentito di accertare che, nel condurre tutti gli affari elencati al capitolo n. 17, vi fosse stata un’interferenza del datore di lavoro cioè un controllo di merito dell’operato del R. , l’esistenza di direttive puntuali o altri elementi idonei a dimostrare l’eterodirezione della prestazione svolta (la “subordinazione” in senso tecnico-funzionale, come si allega anche nel motivo), la sottoposizione secondo specifiche modalità del lavoratore al potere gerarchico del datore di lavoro. Emerge effettivamente dalla lettura del lunghissimo capitolo di prova solo l’esistenza di stretti contatti tra il ricorrente con l’amministratore delegato e un’opera di facilitazione da parte del datore di lavoro dell’operato del R. che del resto riceveva un compenso come collaboratore. Non risultano dedotti episodi in cui sia stata in concreto attivato il potere di conformazione e di controllo del datore di lavoro ex art. 2094 c.c..
Pertanto la motivazione appare congrua e logicamente coerente; mentre le censure sono generiche e di merito, avendo il Giudice anche di appello motivato adeguatamente e con puntuali rinvii agli atti processuali il potere discrezionale che la legge gli riconosce in relazione all’ammissione delle prove articolate dalle parti.
Con il secondo motivo si allega l’omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Non era stata ammessa la prova nei due gradi del giudizio e si era decisa la controversia in base si soli documenti di natura fiscale. I capitoli di prova (che vengono ritrascritti), se ammessi, avrebbero consentito di acclarare il vantato rapporto subordinato di natura dirigenziale.
Il motivo appare infondato per quanto già detto supra. La Corte territoriale ha analiticamente esaminato i capitoli dedotti ritenendone alcuni ammissibili in astratto ma superfluo il loro svolgimento in quanto mancava la chiara allegazione di elementi comprovanti il potere di ingerenza del datore di lavoro nell’attività di collaborazione svolta dal ricorrente e cioè quel potere di conformazione e di controllo del lavoratore che costituisce l’elemento distintivo del contratto di lavoro subordinato. Non risponde peraltro al vero che la controversia sia stata decisa sulla base della sola documentazione fiscale avendo la Corte territoriale escluso la rilevanza della prova per quanto prima detto ed osservato che emergeva che le parti avevano definito e regolato il rapporto come di collaborazione, definizione che le prove richieste apparivano inidonee a smentire. La motivazione appare pertanto congrua e logicamente coerente e supportata da precisi riferimenti agli atti di causa ed alle allegazioni delle parti, mentre le censure oltre che generiche appaiono di merito.
Con l’ultimo motivo del ricorso principale si allega l’omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio: non si era motivato circa l’uso dei poteri ufficiosi ex art. 437 c.p..
Anche tale motivo non appare fondato. Si può concordare con l’impostazione del motivo; il Giudice di fronte ad una richiesta di uso dei poteri istruttori ufficiosi ex art. 437 c.p.c. è tenuto a motivare (cfr. Cass. n. 5081/2009, Cass. n. 6023/2009, Cass. n. 14731/2006): tuttavia nel ricorso, contravvenendo al principio di autosufficienza del ricorso in cassazione, non si indica come e quando tale richiesta sia stata formulata e neppure se la richiesta sia stata avanzata al Giudice di primo grado o di appello. Pertanto il ricorso è doppiamente generico perché non specifica quando tale attivazione sia stata richiesta, né su quali circostanze.
Il ricorso principale deve pertanto essere rigettato, mentre va dichiarato assorbito il ricorso incidentale che è stato condizionato all’accoglimento di quello principale. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come al dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte:
riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito quello incidentale condanna il ricorrente principale al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 40,00, per esborsi, nonché in Euro 3.000,00 per onorari di avvocato, oltre IVA, CPA e spese generali.
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