Corte di Cassazione sentenza n. 7096 del 09 maggio 2012  

LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – ESTINZIONE DEL RAPPORTO – LICENZIAMENTO INDIVIDUALE – PER GIUSTA CAUSA – CONDOTTA DEL LAVORATORE AVENTE RILIEVO DISCIPLINARE – VALUTAZIONE – PROPORZIONALITA’ DELLA SANZIONE – CRITERI DI GIUDIZIO – INDIVIDUAZIONE

massima

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In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza; spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo.

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 27.8.2009, la Corte di Appello di Catanzaro respingeva il gravame proposto da C.L. avverso la sentenza del Tribunale di Cosenza, che aveva dichiarato la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato il 14.11.2001 dalla Banca XXX spa al predetto, per avere richiesto ed in parte ottenuto rimborsi per trasferte non effettuate, in un periodo compreso tra gennaio 2000 e maggio 2001.

Il giudice di primo grado, esclusa la violazione delle garanzie procedurali di cui all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, aveva rilevato che i fatti addebitati erano di rilevante gravità, tenuto conto delle mansioni svolte dal lavoratore, preposto di filiale, di categoria quadro, e che anche il secondo licenziamento del 5.9.2002, disposto a seguito della reintegrazione in sede cautelare, sulla base delle stesse contestazioni del primo, legittimo sul piano sostanziale, era da considerarsi rispettoso delle regole procedurali. Il giudice del gravame riteneva l’infondatezza della censura relativa alla mancanza di tempestività della contestazione, in quanto, se pure tra i fatti addebitati e la lettera del 23.8.2001 era intercorso un certo lasso di tempo, alla formulazione degli addebiti si era pervenuti in esito alla relazione degli ispettori inviati dalla sede centrale della Banca, che avevano dovuto acquisire un rilevante numero di documenti ed estrapolare le liquidazioni corrispondenti alle trasferte realmente effettuate, procedere ad accertamenti sulla presenza del C.L. sia nella sede di Reggio Calabria che presso il notaio incaricato del servizio protesti, indagini trasfuse tutte in rapporto ispettivo trasmesso al Servizio Risorse Umane di Bari, che aveva proceduto all’intimazione del licenziamento disciplinare. Peraltro, a seguito di trasformazioni societarie della datrice di lavoro, per effetto di fusione tra istituti bancari nel corso degli anni immediatamente precedenti, si era verificata una inevitabile scansione temporale tra la liquidazione delle missioni e l’accertamento della effettività delle stesse. Anche la seconda censura relativa alla violazione del diritto di difesa asseritamente precluso al C.L., veniva respinta sulla base del rilievo che, a seguito della lettera di contestazione ricevuta il 5.9.2001, il predetto aveva richiesto di visionare atti e documenti con lettera pervenuta alla Banca il 13.9.2001, dopo otto giorni dal ricevimento della contestazione e, quindi, tardivamente. Si osservava che nella specie il lavoratore non aveva chiesto l’audizione personale a discolpa, ma solo un differimento del termine di cinque giorni previsto per le sue giustificazioni e che, a fronte di tale istanza, la banca non avrebbe potuto sospendere sine die l’esercizio del potere disciplinare.

Pure in presenza di certificazione di stato di malattia del 3.9.2001, non poteva, poi, ritenersi la patologia accertata tale da ostacolare i diritti di difesa, perché, da un lato, la richiesta di differimento era stata effettuata dopo la scadenza del termine per la presentazione delle giustificazioni e di audizione e, dall’altro, la Banca aveva provveduto a successive convocazioni del lavoratore sino al 10 novembre 2001, laddove quest’ultimo non si era mai presentato, non dimostrando di essersi trovato, in conseguenza della malattia, in uno stato di impossibilità allo svolgimento di attività difensive. La censura riferita alla mancanza di specificità degli addebiti veniva respinta alla stregua della analitica indicazione contenuta nella nota di contestazione della banca dei giorni nei quali le missioni non erano state effettuate, diversamente da quanto risultante dalle distinte, e, peraltro, oltre a tale produzione documentale, anche le deposizioni testimoniali avevano confortato la sussistenza dell’addebito. Analoghi riscontri erano stati effettuati in relazione all’attività svolta riguardante i protesti non solo degli effetti ma anche degli assegni, avendo riguardato l’accertamento eseguito il conto insoluti intestato al notaio, comprensivo sia degli effetti che degli assegni. Veniva, poi, sottolineata la mancanza di significatività della prassi relativa alle modalità di autorizzazione delle trasferte, in quanto ciò che aveva costituito oggetto di accertamento era stata la corrispondenza tra la richieste presentate e le trasferte effettivamente effettuate. Anche le trasferte presso il notaio in Sant’Eufemia d’Aspromonte non erano giustificate in relazione alle poche occasioni in cui risultava che il C.L. si fosse ivi recato per la consegna dei titoli insoluti, essendo stato accertato che alla consegna della necessaria documentazione aveva provveduto sempre il cliente e che la stipula dei mutui era avvenuta in rare occasioni presso lo studio del professionista. Infine, veniva rilevata la gravità dei comportamenti contestati, ai fini della proporzionalità della sanzione irrogata. Per la cassazione di tale decisione ricorre il C.L., con otto motivi di impugnazione. Resiste, con controricorso, la Banca XXX s.p.a..

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, il C.L. denunzia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la violazione dell’art. 111 Cost., e dei principi del giusto processo, abuso del diritto e del processo, assumendo che egli aveva impugnato il licenziamento dinanzi al giudice di Palmi e che la Banca aveva rinnovato il procedimento disciplinare e reiterato il licenziamento per la medesima incolpazione, utilizzando, per evitare che il processo rimanesse radicato presso il giudice di Palmi, l’escamotage di proporre essa un ricorso al giudice del lavoro per l’accertamento della legittimità del licenziamento, ricorso ritenuto del tutto inutile.

Con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, lamenta la violazione del principio della tempestività delle contestazioni, la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, nonché la contraddittorietà della motivazione al riguardo, sostenendo che è fatto carico al datore di dimostrare le ragioni impeditive della tempestiva cognizione del fatto addebitato al dipendente, il quale, nel caso specifico, era il solo, in contraddittorio con la banca, a rendere possibile l’approfondimento del fatti, tenuto conto del sistema della periodicità mensile della rilevazione delle trasferte.

Con il terzo motivo, il ricorrente, si duole, invocando l’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, dell’illegittimità dell’impugnato licenziamento, della violazione della L. n. 604 del 1966 e delle norme e dei principi sulla proporzionalità della sanzione, della violazione dello Statuto dei Lavoratori e del c.c.n.l., nonché del difetto di motivazione su punti decisivi, per omesso esame delle valutazioni di merito sempre positive ottenute dal dipendente e per l’omessa considerazione complessiva della vicenda e del disvalore sociale espresso dalla mancanza addebitatagli. In particolare, rileva che la tipizzazione delle mancanze più gravi è contenuta nell’art. 36 del CCNL e che nel caso di specie, con riguardo proprio a tali previsioni, doveva ritenersi leso il principio di gradualità della sanzione, tenuto conto anche della circostanza che per un paio di missioni nessuna richiesta di rimborso era stata avanzata dal dipendente, che era stato giudicato in più occasioni meritevole di incarichi di responsabilità.

Con il quarto motivo, ai sensi dell’art 360 c.p.c., nn. 3 e 5, ascrive alla sentenza la violazione della L. n. 604 del 1966 ed, in particolare, delle norme e dei principi sulla giusta causa e sulla proporzionalità della sanzione, la violazione dello Statuto dei Lavoratori e del CCNL del 11.7.1999, nonché il difetto di motivazione su elementi decisivi, ritenendo che sia mancata ogni valutazione circa la possibilità per il datore di lavoro di applicare sanzione meno grave.

Ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, il C.L. denunzia, poi, con il quinto motivo, l’illegittimità della decisione, sotto il profilo della omessa valutazione di tutte le circostanze del caso e della insussistenza di giusta causa del recesso, la violazione del principio della proporzionalità anche con riferimento all’incidenza dell’elemento psicologico, assumendo che la prova rigorosa della interruzione del rapporto fiduciario non sia stata fornita. Con il sesto motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, deduce l’illegittimità dell’impugnata sentenza, nonché il difetto di motivazione per omesso esame di punti decisivi, sostenendo che sia stata male interpretata la circolare 65/2000 sul trattamento di missione e che non sia stato considerato se il rimborso chilometrico deve calcolarsi tra luogo di residenza e luogo di missione, ovvero tra quest’ultimo e luogo di lavoro. Assume che le richieste di rimborso sono tutte state regolarmente liquidate indipendentemente dalla sussistenza di un’autorizzazione preventiva, e che non vi è modo di riscontrare con assoluta certezza la presenza del C.L. in Area, al di fuori di attività programmate, richiamando all’uopo le deposizioni di testi (Urso Altomare Carmine e lellamo) che avrebbero confermato la corrispondenza delle richieste di rimborsi in relazione a pratiche di protesto di effetti e non anche di assegni. Con il settimo motivo, il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Il erroneità dell’impugnata sentenza in merito alla manifesta contraddittorietà del comportamento della Banca, tradottasi in omessa e/o contraddittoria valutazione di detto comportamento, che aveva risentito di divergenze tra precedente e nuova gestione.

Infine, con l’ottavo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, rileva la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, la violazione del diritto di difesa, osservando che la lettera di contestazione del 23.11.2001 era stata ricevuta in data 5.9.2001 e che in data 8.9.2001 era stato chiesto il differimento dell’audizione per malattia, che, con comunicazione telefonica del 24.9.2001, era stata resa nota la indisponibilità per l’incontro del 24.9.2001, in considerazione della quale era stato disposto un rinvio al 5.10.2001, cui erano seguite ulteriori note di richieste di rinvio per lo stato di malattia. Rileva che il protrarsi dello stato di malattia aveva determinato un stato di incapacità naturale, ostativo alle attività difensive, e che doveva ritenersi irrilevante la circostanza che la lettera di dell’8.9.2001 fosse pervenuta a Cosenza il 13.9.2001, considerato che gli effetti per il mittente si producono alla data di spedizione della raccomandata e non a quella di ricezione della stessa.

Con riguardo al primo motivo di ricorso questa Corte ha già avuto modo di pronunciarsi sulla questione avanzata, affermando che l’interesse ad agire con azione di mero accertamento sussiste ogni qualvolta ricorra una pregiudizievole situazione d’incertezza relativa a diritti o rapporti giuridici, la quale, anche con riguardo ai rapporti di lavoro subordinato, non sia eliminabile senza l’intervento del giudice, sicché è ammissibile la domanda del datore di lavoro diretta all’accertamento della legittimità del licenziamento, ancorché questo risulti essere già stato impugnato dal lavoratore con l’instaurazione di un (precedente) giudizio, salva in ogni caso l’applicabilità della disciplina della continenza delle cause ex art. 39 c.p.c. (cfr. Cass 14.7.1998 n. 6891). Nè la questione potrebbe valutarsi nei termini dell’abuso dell’utilizzo dello strumento processuale, atteso che le fattispecie finora ritenute sintomatiche di un comportamento contrastante con i principi del giusto processo sono state quelle in cui tale utilizzo è avvenuto con modalità tali da arrecare un danno ad altri soggetti, che non sia l’inevitabile conseguenza di un interesse degno di tutela dell’agente, danno che graverebbe sullo Stato debitore, a causa dell’aumento degli oneri processuali, ma contrasta altresì soprattutto con il principio costituzionalizzato del giusto processo, inteso come processo di ragionevole durata (cfr. Cass. s. u. n. 23.726 del 2007, Cass. 5.5.2011 n. 9962, Cass 12.5.2011 n. 10488). Dall’abuso dello strumento processuale – da escludere nella fattispecie all’esame in virtù della sussistenza di un interesse ad agire degno di tutela del datore di lavoro – non potrebbe, tuttavia, neanche conseguire la sanzione dell’inammissibilità dei ricorsi, posto che non è l’accesso in sè allo strumento che è illegittimo, ma le modalità con cui è avvenuto, l’eliminazione degli effetti distorsivi dell’abuso spostandosi sul piano della valutazione dell’onere delle spese (v. Cass. 9962 e 10488/2011 cit.). Quanto al secondo motivo di impugnazione, è principio pacifico, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, quello secondo cui il requisito dell’immediatezza deve essere intesto in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore, ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell’impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo (cfr., tra le tante, Cass. 6.10.2005, n. 19424, Cass. 2.2.2009 n. 2580; Cass. 8.6.2009 n. 13167; Cass. 8.3.2010 n. 5546; Cass 1.7.2010 n. 15649 e, da ultimo, nei termini sopra riportati, Cass. 14.9.2011 n. 18772).

Nella sentenza impugnata il percorso motivazionale a sostegno del decisum relativo alla sussistenza del requisito dell’immediatezza della contestazione degli addebiti del 5 settembre 2001 e del relativo licenziamento disciplinare, intimato il 14 novembre, rispetto a fatti e comportamenti relativi a periodo compreso tra il gennaio 2000 ed il maggio 2001, appare corretta ed in linea con i principi richiamati. Ed invero, il giudicante ha evidenziato come la complessità dell’organizzazione aziendale non avrebbe consentito un accertamento preciso ed analitico al fine di verificare l’effettività o meno delle trasferte dichiarate come effettuate nelle relative istanze di liquidazione, e ciò anche in relazione ai processi di fusione che avevano interessato l’istituto bancario, con incremento dei trattamenti di missione, ed all’inevitabile allungamento di tempi in ragione di sequenza procedimentale caratterizzata dalla trasmissione del rapporto ispettivo al Servizio Risorse Umane presso la sede di Bari.

Il terzo, il quarto ed il quinto motivo, da trattare congiuntamente per l’evidente connessione delle questioni che ne costituiscono l’oggetto, sono infondati.

In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza; spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo (cfr. Cass. 13.2.2012 n. 2013 e, precedentemente, in senso analogo, tra le tante, Cass. 21.6.2011 n. 13574; Cass. 7.4.2011 n. 7948; Cass. 2.3.2011 n. 5095; Cass. 18.2.2011 n. 4060). In particolare, la giusta causa di licenziamento è nozione legale ed il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo onde lo stesso può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore e, per altro verso, può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (cfr. Cass 4060/2011 cit.).

Come questa Corte ha più volte affermato e va qui ribadito, “in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all’illecito commesso – istituzionalmente rimesso al giudice del merito – si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che l’inadempimento, ove provato dal datore di lavoro in assolvimento dell’onere su di lui incombente L. n. 604 del 1966, ex art. 5, deve essere valutato tenendo conto della specificazione in senso accentuativo a tutela del lavoratore rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria – durante il periodo di preavviso – del rapporto” (v. Cass. 14.1.2003 n. 444, Cass. 25.2.2005 n. 3994, Cass. 16.5.2006 n. 11430, Cass. 24.7.2006 n. 16864, Cass. 10.12.2007 n. 25743, Cass. 22.3.2010 n. 6848, Cass. 21.6.2011 n. 13574). Al riguardo, peraltro, l’elencazione dei casi contenuta nel codice disciplinare di cui al c.c.n.l. ha valore soltanto esemplificativo, costituendo le relative indicazioni meri parametri di giudizio (cfr. Cass. 14-2-2005 n. 2906, Cass. 22-12-2006 n. 27464). Nella fattispecie la Corte di merito ha rilevato che “la particolarità dei fatti addebitati, riferibili ad un lungo arco temporale, la natura dell’attività lavorativa, la particolare qualifica rivestita dal C.L., direttore di filiale, preposto al controllo di dipendenti ivi addetti, l’abusiva condotta di trarre vantaggio patrimoniale dalla posizione di vertice nell’ambito della Filiale, si pongono quali elementi incompatibili con la permanenza in servizio del dr. C.L., discendendo dagli stessi la inevitabile e permanente rottura del vincolo fiduciario, che, per il settore bancario, secondo la giurisprudenza assolutamente costante e pacifica, richiede una valutazione più rigorosa rispetto ad altri settori lavorativi”.

Tale motivazione, incentrata su tutti gli elementi oggettivi e soggettivi emersi, risulta conforme ai principi sopra richiamati, nonché congrua e priva di vizi logici e resiste alle censure del ricorrente.

Il rilievo attinente alla impossibilità di applicare una sanzione meno grave in base alle previsioni della c.c.n.l. dell’11.7.1999 sconta il vizio della mancanza di autosufficienza, atteso che non si indicano e riproducono le parti del contratto ritenute rilevanti ai fini voluti e, peraltro, anche ai fini della procedibilità del relativo motivo di impugnazione, non risulta depositato il testo completo del contratto, ne’ risulta soddisfatta, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366, n. 6, c.p.c., degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento dello stesso (cfr. Cass. Ord., sez 6, 15.10.2010 n. 21366 e, da ultimo, Cass, s. u., 3.1.2011 n. 22726). Anche il sesto motivo deve essere disatteso, perché si fonda su doglianza inconferente, posto che la circolare n. 65/2000, della quale si censura la erronea interpretazione – peraltro neanche richiamata negli esatti termini e non depositata – non muta i termini della decisione, e quindi non si pone in termini di decisività rispetto alla soluzione della questione controversa, ove si consideri che l’addebito contestato dalla Banca aveva riguardo alla mancanza di corrispondenza tra missioni effettive e richieste di rimborso avanzate dal dipendente, senza alcun riguardo alla sussistenza o meno di autorizzazione alla trasferta che il C.L. assume verbalmente rilasciata. In ogni caso, le ulteriori censure mirano a sollecitare una rivisitazione del merito, non consentita nella presente sede di legittimità, atteso che il ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi di motivazione della sentenza, impugnata a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, deve contenere – in ossequio al disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 4, che per ogni tipo di motivo pone il requisito della specificità sanzionandone il difetto – la precisa indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione o il capo di essa censurato, ovvero la specificazione d’illogicità, consistenti nell’attribuire agli elementi di giudizio considerati un significato fuori dal senso comune, od ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi. Ond’è che risulta inidoneo allo scopo il far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito all’opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell”‘iter” formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame. Diversamente, si risolverebbe il motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito; cui, per le medesime considerazioni, neppure può imputarsi d’aver omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacché ne’ l’una ne’ l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo (in tali termini, cfr. Cass. 23 maggio 2007 n. 120520). Nella specie non risulta che la doglianza abbia evidenziato i profili di omissione, insufficienza o contradittorietà della motivazione nei termini consentiti in sede di legittimità, indicati dalla pronunzia richiamata. La censura prospettata con il settimo motivo di ricorso, che riguarda una presunta contraddittorietà del comportamento del datore di lavoro che inopinatamente avrebbe conferito rilevanza a comportamenti in precedenza consuetudinariamente tollerati di richieste di rimborsi senza autorizzazione preventiva, oltre a rivelarsi inconferente per quanto già sopra detto con riferimento alla portata dell’addebito – che, prescindendo dalla mancanza di autorizzazione preventiva, si fondava esclusivamente sulla rilevata mancanza di corrispondenza tra missioni effettive e richieste di rimborso avanzate dal dipendente, si rivela, poi, affatto generica ed inidonea come tale a scalfire l’impianto motivazionale della sentenza impugnata. Infine, particolare considerazione merita la questione affrontata nell’ultimo motivo di impugnazione, con il quale si contesta la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, sotto il profilo della violazione del diritto di difesa.

Vale, in primo luogo, osservare al riguardo che, in tema di sanzioni disciplinari, non è necessario che la contestazione dell’addebito contenga un termine al lavoratore per esporre le proprie difese o la fissazione di un’audizione a difesa, in quanto il disposto di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7 comma 2 (secondo il quale il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza averlo sentito a sua difesa) va interpretato nel senso che, solo ove il dipendente lo richieda espressamente, il datore di lavoro è tenuto a sentirlo oralmente, salva in ogni caso la facoltà del lavoratore di inoltrare per iscritto le proprie difese (cfr. Cass. 7.1.1998, n. 67). A tal fine, tuttavia, ove il lavoratore intenda avvalersi di tale facoltà, è stato affermato da questa Corte che la L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 5 (per il quale i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa) individua il termine entro il quale le eventuali controdeduzioni del lavoratore devono pervenire al datore di lavoro, termine che non può ritenersi rispettato quando, pur avendo il lavoratore predisposto le proprie difese prima del suo decorso, la ricezione dell’atto avvenga in data successiva (cfr., in tali termini, Cass. 19.11.1996 n. 10106). È stato in proposito anche evidenziato che, nel corso di procedimento disciplinare L. 20 maggio 1970, n. 300, ex art. 7, la richiesta di essere sentito personalmente avanzata dal lavoratore nell’ambito dell’esercizio del suo diritto di difesa, come atto unilaterale recettizio, è soggetta alla disciplina di cui agli artt. 1334 e 1335 c.c.; può quindi produrre effetto nel momento in cui viene a conoscenza della persona alla quale è destinato, e si reputa conosciuta nel momento in cui giunge all’indirizzo del destinatario (cfr. Cass. 10106/1996). In ogni caso, al di là di tali osservazioni, deve rilevarsi che la ritenuta mancata violazione dei diritti di difesa del lavoratore è stata anche fondata sulla considerazione che in ogni caso il datore di lavoro aveva aderito alle richieste di differimento avanzate dal C.L. e che non poteva sine die essere rinviato l’esercizio del potere disciplinare, a fronte di un dedotto stato di malattia, attestato da certificazione del 3 settembre 2001, non seguita da ulteriori certificazioni e non idoneo a comprovare l’incompatibilità dello stato di salute con l’esercizio delle attività difensive. In relazione a tale ulteriore rilievo la decisione doveva ritenersi sostenuta da una doppia ratio decidendi, rispetto alla quale l’impugnazione è stata avanzata con riguardo soltanto ad una delle argomentazioni svolte. Al riguardo deve, invero, richiamarsi quanto in più pronunzie affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, enunciando il principio secondo il quale, nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza, “in toto” o nel suo singolo capo, per tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano. Ne consegue che è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata impugnata, sia respinta, perché il ricorso o il motivo di impugnazione avverso il singolo capo di essa, debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni poste a base della sentenza o del capo impugnato (cfr., in tal senso, Cass. sez. lav., 18.5.2006 n. 11660; Cass. 8.8.2005 n. 16602; Cass. 8.2.2006 n. 2811; Cass. 22.2.2006 n. 3881; Cass. 20.4.2006 n. 9233; Cass. 8.5.2007 n. 10374; Cass. sez. 1ª, 14.6.2007 n. 13906, conf. a Cass., sez. un. 16602/2005).

Orbene, nel caso esaminato, come sopra osservato, non risulta che il ricorrente abbia proposto specifica impugnazione avverso la statuizione autonoma e distinta, con la quale la Corte territoriale ha ritenuto indimostrato di malattia fosse incompatibile con l’esercizio delle attività difensive del lavoratore. Per tutte le considerazioni svolte, il ricorso deve essere respinto e le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, vanno poste a carico del C.L., nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite dei presente giudizio, liquidate in Euro 50,00 per esborsi, Euro 3000,00 per onorario, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A.