COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE BOLOGNA – Ordinanza 13 novembre 2019
Imposte e tasse – Imposta di registro – Applicazione dell’imposta – Interpretazione degli atti – Applicazione dell’imposta secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione – Art. 20, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131
Svolgimento del processo
La società P.I.S.r.l., la I. S.p.a., la I.T. S.p.a., la I.M.S.p.a. propongono autonomi ricorsi avverso distinti «Avvisi di liquidazione dell’imposta» notificati dall’Agenzia delle entrate, Direzione provinciale di Bologna 2.
Tali ricorsi hanno tutti il medesimo oggetto; ovvero l’impugnazione dell’atto con cui l’ufficio erariale riqualifica ai sensi dell’art. 20 del decreto del Presidente della Repubblica n. 131/198, testo unico imposta di registro (Tur), l’operazione di conferimento di ramo di azienda con successiva cessione di partecipazioni totalitarie alla stregua di una cessione aziendale; operazione unitaria assoggettata all’imposta proporzionale di registro in luogo di quella in misura fissa invece applicata in sede di operazione negoziale.
Per esigenze di concisione di questa ordinanza, le società, nel seguito, anche senza tipo sociale: dunque V.P., in luogo di V.P. S.r.l.
In particolare l’operazione si articola in una serie di atti rogitati in un breve lasso di tempo:
12 luglio 2016 la Società A.S.L. S.p.a. (poi I. S.p.a., con mero cambiamento di nome) costituisce la newco V.P. S.r.l. di cui è unico socio. Nella stessa data la Società A.B. S.p.a. (poi I.T. S.p.a., con mero cambiamento di nome) costituisce la newco V.Q. S.r.l. di cui è unico socio. Nella stessa data la Società S. S.p.a. (poi I.M. S.p.a., con mero cambiamento di nome) costituisce la newco V.S. S.r.l. di cui è unico socio;
28 settembre 2016 A.S.L. S.p.a. (poi I.) conferisce nella newco V.P. S.r.l. un ramo di azienda. Altrettanto fanno A. Bologna S.p.a. (poi I.T.) rispetto alla newco V.Q. S.r.l., e S. S.p.a. (poi I.M.) rispetto alla newco V.S. S.r.l.;
3 ottobre 2016 la I.S.p.a. (già A.S.L. S.p.a.) cede a P.I.S.r.l. la sua partecipazione totalitaria in B.P. S.r.l. Altrettanto fanno I.T. (già A.B, S.p.a.) con riferimento alla partecipazione in V.Q. S.r.l. e I.M. (già S. S.p.a) rispetto alla partecipazione in V.S.. S.r.l.
Tutti gli atti, apparentemente, vengono autoliquidati con applicazione dell’imposta di registro in misura fissa; anziché proporzionale, così conseguendo un notevole risparmio di imposta.
Con distinti avvisi di liquidazione dell’imposta, notificati alle ricorrenti il 28 febbraio 2017 e 2 marzo 2017, la Agenzia delle entrate, Direzione provinciale di Bologna 2, ha ravvisato nelle descritte operazioni gli effetti giuridici propri di una cessione di azienda ed ha quindi proceduto alla riqualificazione ai sensi dell’art. 20-tur con conseguente applicazione dell’imposta di registro in misura proporzionale con aliquota del tre per cento (3%), sul valore del ramo.
La società P.I.S.r.l. nonché I.T., I., I.M. – in quanto responsabili in solido con Pag del pagamento dell’imposta di registro e relativi interessi – impugnano gli avvisi di liquidazione dell’imposta notificati alle ricorrenti nelle date 28 febbraio 2017 e 2 marzo 2017, tutte proponendo i medesimi motivi.
Trattandosi di operazione unitaria, coinvolgente questioni di fatto e di diritto comuni, le cause vengono riunite ai sensi dell’art 29, decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546.
Le cause riunite sono le seguenti:
R.G.R. numero 344 del 2017 (ricorrente Pag Italy);
R.G.R. numero 345 del 2017 (ricorrente Pag Italy);
R.G.R. numero 346 del 2017 (ricorrente Pag Italy);
R.G.R. numero 372 del 2017 (ricorrente I.T.);
R.G.R. numero 374 del 2017 (ricorrente I.M.);
R.G.R. numero 376 del 2017 (ricorrente I.).
In particolare, le società lamentano:
con il primo motivo il difetto di motivazione dell’avviso impugnato, che sarebbe pertanto affetto da nullità. In particolare le contribuenti contestano la mancata indicazione della natura dell’imposta richiesta, del tasso di interesse applicato, del termine entro cui pagare, nonché la mancata allegazione degli atti richiamati;
con il secondo motivo la violazione della direttiva comunitaria n. 7/2008 da parte dell’ente impositore, con conseguente nullità dell’avviso di liquidazione. In particolare le contribuenti, prescindendo dalla riqualificazione dell’operazione effettuata dall’ufficio nei termini di cessione di azienda ai sensi dell’art. 20-tur, ritengono detta operazione non unitaria ma, considerando autonomamente gli atti della concatenazione negoziale, li annoverano tra quelli esclusi, ai sensi dell’art. 5 della direttiva, dall’imposizione indiretta in capo alle società di capitali;
con il terzo motivo di ricorso l’inesistenza del presupposto impositivo dell’avviso di liquidazione con conseguente nullità dello stesso. Sostengono le ricorrenti che l’operazione deve essere considerata atomisticamente, e dunque solo con riferimento all’atto di cessione di quote sociali, che come tale costituisce il presupposto di applicazione dell’Imposta sul valore aggiunto e non dell’Imposta proporzionale di registro;
col quarto motivo la violazione, da parte dell’ufficio, del diritto del contribuente a partecipare ad un contraddittorio preventivo; infine, col quinto motivo la violazione, ovvero falsa applicazione degli artt. 20 e 21-tur in quanto l’ufficio avrebbe impropriamente riqualificato come fattispecie unitaria (cessione di azienda) fattispecie distinte e autonome di cessione di partecipazioni, non collegabili con il precedente conferimento di azienda e comunque negozi realmente voluti come tali dalle parti. Secondo l’art. 20-tur, solo gli effetti giuridici di un atto possono avere rilievo per l’applicazione dell’Imposta di registro e dunque ogni singolo atto deve essere valutato autonomamente per i propri effetti giuridici in relazione allo schema giuridico che esso è idoneo a realizzare. Inoltre, sostengono le ricorrenti che l’indagine sugli effetti giuridici dell’atto deve essere compiuta unicamente sulla base degli elementi che emergono dai singoli documenti presentati al momento della registrazione e non anche da elementi extra-testuali né, tanto meno, da vicende antecedenti o successive alla registrazione dell’atto.
In tutti i giudizi, si è costituita ritualmente la Agenzia delle entrate che ha chiesto il rigetto del ricorso confutandone i motivi e ribadendo gli argomenti esposti nell’atto impugnato. In particolare essa oppone le seguenti controdeduzioni:
con riferimento al primo motivo l’Agenzia ritiene che l’avviso contenga tutte le indicazioni utili al contribuente per l’adempimento spontaneo, che lo informi delle conseguenze del mancato versamento, presentando una motivazione completa, che lo metta nella condizione di difendersi compiutamente;
con riferimento al secondo motivo se la riqualificazione in cessione di azienda è corretta, la direttiva 2008/7/CE non è applicabile, perché la fattispecie non rientra nel suo campo per espressa previsione del combinato disposto degli articoli 4 e 5. Se invece si nega la possibilità di riqualificazione ex art. 20-tur, diventa allora inutile invocare tale direttiva, poiché l’avviso ricadrà nei suoi presupposti da un punto di vista sostanziale;
con riferimento al terzo motivo l’Agenzia non prende posizione in quanto, essendo relativo all’insussistenza del presupposto impositivo, esso deve essere esaminato congiuntamente al quinto relativo alla riqualificazione ai sensi dell’art. 20-tur dell’operazione;
con riferimento al quarto motivo osserva l’Agenzia che in primo luogo non sussiste, nell’ordinamento nazionale (a differenza di quello dell’Unione europea) alcun obbligo generalizzato per l’Amministrazione finanziaria di instaurare un contraddittorio ogni qualvolta la stessa adotti un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente. Inoltre che, nel caso di tributi «non armonizzati», l’instaurazione del contraddittorio costituisce un obbligo solo nel caso in cui sia espressamente previsto dalla legge.
Diversamente, in tema di tributi «armonizzati», osserva sempre l’Agenzia, l’obbligo di contraddittorio endoprocedimentale è sì generalizzato e la sua omissione determina l’invalidità dell’atto impositivo, ma ciò a condizione che il contribuente dimostri, in sede giudiziale, che, in mancanza di tale violazione, il procedimento avrebbe comportato un risultato diverso. Pertanto, non essendo l’Imposta di registro un tributo armonizzato, e non essendoci alcuna previsione normativa in tale senso, non vi è per l’Amministrazione alcun obbligo di invitare le contribuenti al contraddittorio. In ogni caso, anche laddove si dovesse ritenere obbligatoria l’instaurazione dello stesso, spetterebbe al contribuente la dimostrazione che il procedimento avrebbe comportato un risultato diverso;
con riferimento al quinto motivo, infine, sostiene l’Agenzia che una corretta interpretazione dell’art. 20-tur ai fini dell’applicazione dell’Imposta proporzionale di registro imponga la riqualificazione dell’operazione, frazionata in una pluralità di atti, alla luce dell’unitario effetto negoziale perseguito. Per comprendere quale sia il presupposto impositivo cui applicare il tributo in oggetto, occorre prescindere dalla forma e dal titolo dell’atto registrato, dovendo piuttosto analizzare gli effetti giuridici che con esso le parti intendono produrre.
Motivi della decisione
In generale
Ritiene il collegio che il presente processo veda una (duplice) questione di costituzionalità; essendo rilevanti e non manifestamente infondate questioni di costituzionalità relative a:
A. L’art. 20 del tur, quale risultante dall’intervento apportato dall’art. 1, comma 87 (lettera a, numeri 1 e 2), legge n. 205 del 27 dicembre 2017 (legge di bilancio 2018), nella parte in cui dispone che, nell’applicare l’Imposta di registro secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, (…) si debbano tenere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso, «prescindendo da quelli extratestuali dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi»;
B. L’art. 1, comma 1084 della legge n. 145 del 30 dicembre 2018 (legge di bilancio per il 2019).
La vicenda dell’art. 20-tur
Risulta dunque evidente che la pretesa impositiva della Amministrazione finanziaria nel caso di specie si fonda sull’applicazione dell’art. 20-tur. Tale norma è stata per lungo tempo oggetto di dibattito in ordine alla sua reale natura ed alla possibilità – sulla quale la giurisprudenza di legittimità, nell’ultimo decennio, si è consolidata in senso affermativo – di utilizzo della stessa per riqualificare più atti tra loro collegati al fine di individuare il dato giuridico reale conseguente alla natura intrinseca degli atti e ai loro effetti giuridici. La causa unitaria così individuata ha permesso di sottoporre al regime di tassazione più oneroso, ovvero quello proporzionale, le operazioni realizzate mediante più atti che, isolatamente considerati, vengono tassati con imposta fissa: in particolare, si tratta delle cessioni di partecipazioni (di controllo, o a maggior ragione totalitarie) precedute dal conferimento di aziende e/o di beni, sovente riqualificate come cessioni (dirette) di aziende e/o beni. Con il comma 87 dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Legge di stabilità 2018), il legislatore ha rivisitato la disposizione di cui all’art. 20-tur, stabilendo che «l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extra-testuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi».
Rispetto alla previgente formulazione («l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente») l’area di operatività dell’art. 20-tur risulta ristretta, attraverso tre modifiche: a) l’utilizzo della forma singolare, con il riferimento al singolo «atto»; b) il divieto di valorizzare elementi extra-testuali ed il contenuto di eventuali atti collegati a quello portato alla registrazione; c) l’aver fatto comunque salva, attraverso il riferimento agli «articoli successivi», la possibilità di contestare l’abuso del diritto. Sul tema della decorrenza temporale della novella è intervenuto il legislatore con la legge di bilancio previsionale per l’anno 2019, stabilendo (art 1, comma 1084, legge n. 145/2018) che: «L’art. 1, comma 87, lettera a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205, costituisce interpretazione autentica dell’art. 20, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131».
Attraverso quest’ultima disposizione, la natura della novella del 2017 viene ad essere delineata quale dichiarativa di una norma già presente nell’art. 20-tur, che deve perciò essere interpretato alla luce di come è stato modificato nel 2017 sin dalla sua originaria formulazione, in via retroattiva.
A seguito di questi ultimi interventi normativi, le società integrano pertanto i ricorsi con memorie illustrative volte ad evidenziare ulteriormente l’illegittimità della riqualificazione operata dall’ufficio nell’avviso di liquidazione.
Si ritiene che il testo della norma, come risultante dalla modificazione in senso restrittivo operata nel 2017, ponga una rilevante e non manifestamente infondata questione di legittimità costituzionale.
Della rilevanza
La questione è rilevante.
Ritiene infatti il collegio come sia decisivo, per la controversia, l’esame del terzo e del quinto motivo dei riuniti ricorsi, motivi che invocano espressamente la nuova formulazione normativa dell’art. 20-tur.
Tali motivi, alla luce delle novelle di cui si sospetta la legittimità, sono determinanti ai fini della pronuncia sul merito della causa; comporterebbero l’accoglimento del ricorso. La controversia, infatti, non può essere decisa senza fare applicazione (retroattiva, in base all’art. 1, comma 1084, legge n. 145/2018) della norma così come modificata nel 2017.
Non sembra invece che il ricorso possa essere risolto sulla base delle altre ragioni poste a fondamento dell’impugnazione dell’atto impositivo. Conseguentemente, è rilevante e, anzi decisiva, la definizione del perimetro della portata dell’art. 20-tur.
Ed infatti le ricorrenti, al di là della corretta interpretazione della fattispecie di cui all’art. 20-tur (terzo e quinto motivo dei riuniti ricorsi), hanno sì proposto altri motivi; tuttavia, il collegio ritiene che essi non siano in grado di condurre a decisione; non paiono prima facie fondati, salva ogni migliore valutazione in sentenza:
con riferimento al primo, relativo al difetto di motivazione, si tratta di motivo che non convince, posto che l’avviso impugnato contiene tutte le indicazioni utili al contribuente cui è rivolto per l’adempimento spontaneo, e rappresenta compiutamente le ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento della pretesa impositiva. In altri termini, non pare che vi sia un difetto di motivazione, tale condurre all’accoglimento dei riuniti ricorsi, sulla base di questo motivo;
con riferimento al secondo, relativo alla violazione della direttiva comunitaria 2008/7/CE, se la riqualificazione in cessione di azienda è corretta, la direttiva non sembra applicabile;
con riferimento al quarto, relativo alla mancanza del contraddittorio endoprocedimentale, il motivo non è in linea con il principio, ripetutamente ribadito, che solo ai tributi comunitari si applica il contraddittorio endoprocedimentale. Dunque, anche tale motivo non sarebbe in grado di condurre a decisione, in via autonoma; è dunque con riferimento al quinto motivo (e, conseguentemente, al terzo), relativo alla violazione ovvero alla falsa applicazione dell’art. 20-tur, che occorre sottoporre questione di legittimità costituzionale alla Corte; poiché la decisione di questa causa, con raccoglimento di tali motivi, dipende dalla applicabilità dell’art. 20-tur, e dunque dalla sopravvivenza di questa disposizione, nell’attuale testo, all’interno dell’ordinamento giuridico.
Alla corta: i motivi di ricorso, diversi dal terzo e dal quinto, non hanno solidità tale da portare ad accoglimento dei riuniti ricorsi. Il terzo ed il quinto motivo sono, invece, basati proprio sulla norma dell’art. 20-tur, nella sua attuale formulazione; parendo anzi fondati proprio nella ultima versione di tale norma.
Della non manifesta infondatezza
A. L’art. 20-tur, così come modificato nel 2017, contrasta con gli artt. 3 e 53 della Costituzione.
La questione di legittimità costituzionale in relazione a tali parametri è già stata sollevata dalla Corte di cassazione con ordinanza n. 23549 del 23 settembre 2019 con cui la Sezione tributaria ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in relazione appunto agli artt. 53 e 3 della Costituzione, dell’art. 20 del decreto del Presidente della Repubblica n. 131 del 1986 (in seguito, ancora tur), nella formulazione risultante a seguito degli interventi operati dall’art. 1, comma 87, della legge n. 205 del 2017 e dall’art. 1, comma 1084 della legge n. 145 del 2018, nella parte in cui dispone che, nell’applicare l’Imposta di registro secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati.
Sul punto pertanto, esigenze di concisione di questa ordinanza impongono un richiamo alla ordinanza della Corte suprema di cassazione.
In sintesi: l’art. 20-tur, nel testo originario, consentiva una interpretazione, del tutto conforme ai parametri che, si può dire da molti secoli, regolano le regole sulla interpretazione dei negozi giuridici. In altri termini, l’art. 20 cit. consentiva di apprezzare l’atto-negozio e non solo l’atto-documento. Applicando regole che sono quelle vigenti, per la interpretazione dei negozi giuridici, in tutto lo spazio ordinamentale.
La riforma del 2017 ha invece limitato la possibilità di interpretare il negozio giuridico da tassare entro limiti asfittici.
Tale rigido incapsulamento delle modalità di interpretazione dell’atto sembra censurabile sul piano del buon uso della discrezionalità amministrativa. Non ha significative funzioni garantistiche (poiché comunque anche la interpretazione secondo le regole del diritto comune ha, evidentemente, limiti); nel contempo, tale asfittico incapsulamento della interpretazione ammissibile impedisce di tenere conto di capacità contributiva; capacità contributiva che invece emerge dalla semplice applicazione delle regole interpretative civilistiche.
Può aggiungersi questo, per evidenziare la non manifesta infondatezza della questione.
Poiché possa dirsi integrato il requisito della capacità contributiva, presupposto dell’imposizione fiscale, è necessario, ma al contempo sufficiente, che vi sia un collegamento tra la prestazione imposta ed i presupposti economici presi in considerazione, in termini di forza e consistenza economica dei contribuenti. Il legislatore tributario pertanto, pur nella sua discrezionalità, deve realizzare una giustizia fiscale, individuando, ed eventualmente disciplinando in maniera diversa, situazioni differenti. Il principio dell’uguaglianza impone insomma una coerenza interna alla legge tributaria; nonché una coerenza di questa con il sistema giuridico nel suo complesso.
Dall’applicazione di queste norme della carta discende l’ormai consolidato principio della «indisponibilità della qualificazione contrattuale ai fini fiscali»: le questioni relative all’interpretazione dei contratti e all’autonomia negoziale delle parti sono prive di rilevo rispetto alla pretesa impositiva statuale, poiché quest’ultima è costituzionalmente vincolata al rispetto del principio della capacità contributiva, la cui attuazione non può che prescindere da qualsivoglia dichiarazione negoziale, richiedendo esclusivamente la misurazione del reale movimento di ricchezza. Ferma restando la libertà contrattuale dei privati (art. 1322 del codice civile), l’Amministrazione finanziaria dovrebbe applicare l’Imposta di registro in base all’effetto pratico (ovvero al contenuto sostanziale ed economico) che l’operazione oggetto di imposizione tributaria consegue.
Né è ragionevole che la capacità contributiva, che emerge dal negozio giuridico o dai negozi collegati sia disassata, rispetto a quanto l’erario può fare, applicando la Imposta di registro.
Vi è dunque una questione non manifestamente infondata di costituzionalità della stessa novellazione dell’art. 20-tur, quale effettuata nel 2017.
B. L’art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 30 dicembre 2018 (legge di bilancio per il 2019) laddove dispone che l’art. 1, comma 87, lettera a) della legge 27 dicembre 2017, n. 205, costituisce interpretazione autentica dell’art. 20, comma 1-tur contrasta con gli artt. 3, 81 (e 97), 101 (nonché 102 e 108), 24 della Costituzione
In base alle considerazioni che precedono – coincidenti con Cass. 23549 del 2019 – è dunque sospetta di incostituzionalità la attuale formulazione dell’art. 20-tur, nella formulazione post-2017. La declaratoria di invalidità che si auspica al precedente punto A ripristinerebbe un ragionevole testo dell’art. 20-tur.
Va tuttavia ipotizzato che l’attuale articolo venga ritenuto conforme ai parametri costituzionali, nel testo attualmente vigente, a seguito della riforma del 2017. Che, dunque, a regime, possa mantenersi l’attuale limite interpretativo. In tale caso, tuttavia, deve ritenersi non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma che precede. E valga il vero. Com’è noto, la giurisprudenza di legittimità formatasi successivamente alla novella del 2017 ne aveva riconosciuto, pressochè unanimemente, la natura innovativa e non interpretativa. Tale il diritto vivente, senza dubbio alcuno: fra le altre, Cassazione 2007 del 2018; 4407 del 2018; 4589 del 2018; 4590 del 2018;7637 del 2018; 57489 del 2018; 14999 del 2018; 362 del 2019.
Il fenomeno di creazione di norme effettivamente innovative mascherate da norme interpretative con efficacia retroattiva non è questione decisiva ai fini della incostititzionalità delle stesse.
Com’è noto, il divieto di retroattività della legge – pur costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica e principio generale dell’ordinamento (l’art. 11 «Preleggi», sull’efficacia della legge nel tempo, dispone che la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo), cui il legislatore deve in linea di principio attenersi – non è stato tuttavia elevato a dignità costituzionale, se si eccettua la previsione dell’art. 25 della Costituzione, limitatamente alla legge penale. Il legislatore ordinario, pertanto, nel rispetto del suddetto limite penalistico, può emanare norme con efficacia retroattiva, interpretative o innovative che siano, a condizione però che la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si ponga in contrasto con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti.
Un primo profilo di ragionevolezza alla luce del quale vagliare l’intervento legislativo avente natura retroattiva attiene all’esistenza di un persistente contrasto interpretativo, che dunque necessita di un intervento chiarificatore da parte del legislatore in grado di risolvere lo stato di obiettivo dubbio ermeneutico in nome del supremo principio, nazionale e sovranazionale, di certezza del diritto (o dell’affidamento). Lo scrutinio della norma denunciata deve prendere le mosse dalla constatazione dell’esistenza di una significativa divergenza di opinioni. Tale non era la situazione in cui è intervenuto il legislatore nel 2018: la giurisprudenza di legittimità infatti era unanimemente consolidata come diritto vivente.
Pertanto non può, sotto questo profilo, risconoscersi alla novella del 2018 l’attributo di ragionevolezza che l’intervento retroattivo deve necessariamente possedere per non violare il principio logico giuridico della naturale proiezione della norma di legge verso il futuro e non verso il passato. Anziché tutelare la certezza del diritto, che poteva dirsi raggiunta alla luce della uniforme applicazione dell’art. 20-tur (vecchio testo) da parte della giurisprudenza di legittimità; il legislatore ha forzato l’applicazione a fattispecie poste in essere nella vigenza dell’art. 20-tur prima della riformulazione, dell’art. 20 nella sua nuova e più ridotta portata.
Un secondo profilo di ragionevolezza cui può corrispondere alla norma retroattiva, strettamente collegato al precedente, attiene alla prevedibilità del significato precisato. La riduzione dell’ambito operativo dell’art. 20-tur (attraverso le tre modifiche: l’utilizzo della forma singolare, con il riferimento al singolo «atto»; il divieto di valorizzare elementi extra-testuali ed il contenuto di eventuali atti collegati a quello portato alla registrazione; l’aver fatto comunque salva, attraverso il riferimento agli «articoli successivi», la possibilità di contestare l’abuso del diritto) ha il carattere della novità, e come tale la norma non può che applicarsi a fattispecie successive alla sua entrata in vigore.
Un terzo profilo di ragionevolezza che deve sussistere affinché l’efficacia retroattiva della norma possa essere giustificata pertiene all’interesse generale. Si tratta di un principio desumibile dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e cioè «motivi imperativi di interesse generale» che la giurisprudenza costituzionale traduce nell’ordinamento italiano come «tutela di principi, diritti e beni di rilievo costituzionale»: è necessario cioè che caso per caso si dimostri che la specifica legge retroattiva è giustificata perché in tal modo viene tutelato un principio, un diritto o un bene di rilievo costituzionale. Nel caso della novella del 2017 che riformula l’art. 20-tur non è dato ravvisare quali sarebbero i motivi imperativi d’interesse generale, idonei a giustificarne l’effetto retroattivo. Al contrario, come precedentemente illustrato, essa lede il principio di parità di trattamento (uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 della Costituzione) e di capacità contributiva (art. 53 della Costituzione), parametri costituzionali che rappresentano l’essenza del sistema impositivo ordinamentale.
Vi è dunque una non manifesta incostituzionalità, per irragionevolezza di questa singolare norma interpretativa; con parametro dunque l’art. 3 della Costituzione
La previsione del 2018 qui censurata, nell’imporre la retroattività dell’art 20-tur nella sua nuova ridotta portata, contrasta con gli artt. 81 e 97 della Costituzione, che prevedono il fondamentale principio dell’equilibrio di bilancio. Proprio perché la riforma del 2017 non era interpretativa ma innovativa, le fattispecie realizzatesi fino a tale data erano sottoposte al più favorevole (per l’erario) regime previgente. Conseguentemente, la imposizione della retroattività priva l’erario stesso di diritti che sono già acquisiti all’erario stesso, sia pure in nuce.
La privazione dell’Amministrazione finanziaria, ora per allora, di un importante strumento di prelievo fiscale, quale la riqualificazione in termini sostanziali di operazioni economiche complesse, comporta uno squilibrio di bilancio, non prevedibile; con la perdita, da parte dello Stato delle risorse economiche necessarie ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’Unione europea.
Terzo gruppo di norme parametro violate è quello degli articoli 101, 102 e 108 della Costituzione. Pur se la questione della sussistenza di una riserva di giurisdizione è tema controvertibile (e denso di implicazioni dogmatiche e politiche), non vi è dubbio che, nel caso di specie, il legislatore intervenga «a piè pari», per interpretare una norma, in senso radicalmente difforme, rispetto alla interpretazione unanime della giurisprudenza.
Infine, quarta norma parametro va individuata nell’art. 24 della Costituzione. Anche la Agenzia, infatti, è parte di questo processo. Con una norma di tal fatta, viene menomato il suo diritto a difendersi, secondo la legislazione su cui aveva impostato la propria costituzione con le controdeduzioni.
In definitiva si ravvisano tutti i presupposti per demandare al giudice delle leggi il vaglio di legittimità:
A. in rapporto agli articoli 3 e 53 della Costituzione, dell’art. 20-tur nei termini di cui in dispositivo, nonché
B. dell’art. 1, comma 1084 della legge 145 del 2018, per i quattro gruppi di norme-parametro sopra individuati
P.Q.M.
Visti gli articoli 134 Cost. e 23 legge n. 87/53:
Sospeso il giudizio;
A. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in rapporto agli articoli 53 e 3 Cost., dell’art. 20 del decreto del Presidente della Repubblica n. 131/86, come risultante dall’intervento apportato dall’art. 1, comma 87, legge n. 205/17 (legge di bilancio 2018), nella parte in cui dispone che, nell’applicare l’imposta di registro secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso, «prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi».
B. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in rapporto agli articoli: 3, 81 (e 97), 101 (nonché 102 e 108), 24 Cost.
Ordinanza correttiva del 31 dicembre 2019.
Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti del del giudizio;
Ordina, altresì, che l’ordinanza venga comunicata dal cancelliere ai Presidenti delle due Camere del Parlamento;
Dispone l’immediata trasmissione degli atti, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte notificazioni e comunicazioni, alla Corte costituzionale.
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Commissione tributaria provinciale Bologna
Il collegio della quarta sezione
nella causa n. 344 del 2017 R.G.R. + altri riuniti;
ilevato che è stata messa ordinanza 858/04 del 2019, del giorno 16 ottobre – 13 novembre 2019;
Rilevato che tale ordinanza contiene un errore materiale, sia pure per omissione; che, infatti, la seconda norma di cui si dubita della costituzionalità è l’art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 30 dicembre 2018, come da pagina 7, 13-16, in particolare pagina 17 nell’ultima riga di motivazione;
Rilevato che per omissione del dispositivo, al punto B dello stesso dispositivo si legge che è rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, senza indicazione della norma, da riferire alla norma evidentemente alla norma che precede; trattasi di omissione innocua, probabilmente nemmeno da correggere (il dispositivo va infatti letto insieme alla motivazione);
Rilevato che questo collegio ritiene comunque di correggere il dispositivo, se non altro per ragioni di chiarezza espositiva della ordinanza;
Dispone:
Che al punto B del dispositivo, dove è scritto:
B. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in rapporto agli articoli: 3, 81 (e 97), 101 (nonché 102 e 108), 24 Cost.;
debba invece leggersi:
B. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1084, della legge 145 del 2018, in rapporto agli articoli: 3, 81 (e 97), 101 (nonché 102 e 108), 24 Cost.
Dispone:
Che la segreteria comunichi questa ordinanza correttiva alle parti; che annoti sull’originale questa correzione; che invii alla Corte sia la ordinanza annotata sia questo provvedimento.
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