COMMISSIONE TRIBUTARIA Regionale di Campobasso – Sentenza n. 272 del 25 settembre 2015
TRIBUTI – IRAP – CONSORZIO AGRARIO – PLUSVALENZE DA CESSIONI DI IMMOBILI DURANTE LA PROCEDURA CONCORSUALE – IMPONIBILITA’
Fatto
In data 20 maggio 2009 l’Ufficio Controllo della Direzione regionale del Molise dell’Agenzia delle Entrate effettuava una verifica presso il Consorzio Agrario Interprovinciale di Campobasso e Isernia, relativa all’IRAP e IVA per l’anno 2006 e poi successivamente estesa anche agli anni 2004, 2005 e 2007. Redatto il verbale di constatazione in data 7 ottobre 2009, l’Ufficio emetteva i seguenti avvisi di accertamento:
– l’avviso di accertamento per l’anno 2004 porta il recupero a fini IRAP: a) dell’importo di € 43.022,64 per indeducibilità – ex art.5 D.L.vo n. 446 del 1997 – di quote di ammortamento di fabbricati strumentali; b) dell’importo di € 606.959,0 per plusvalenze non dichiarate, derivanti dalla cessione di due immobili strumentali; il tutto per complessivi € 649.981,64 da cui una maggiore IRAP di € 27.624,00 più sanzione di pari importo, per un totale di € 55.248,00;
– l’avviso di accertamento per l’anno 2005 recupera a tassazione l’importo di € 43.022,64 (indeducibilità di quote di ammortamento e plusvalenze, da cessione di due fabbricati strumentali) da cui maggiore IRAP, interessi e sanzione, per un totale di € 3.656,00;
– l’avviso di accertamento per l’anno 2006 recupera a tassazione l’importo di € 37.628,16 (idem), da cui maggiore IRAP, interessi e sanzione, per un totale di €228.214,00;
– l’avviso di accertamento per l’anno 2007 recupera a tassazione l’importo di € 34.366,50 (idem), da cui maggiore IRAP, interessi e sanzione per un totale di € 50.858,00.
Tutte le riprese contenute nei su citati avvisi di accertamento erano quindi scaturite, a parere dell’Ufficio, dal mancato assoggettamento, ai fini Irap, delle quote di ammortamento dei fabbricati strumentali asseritamente ritenute indeducibili e delle plusvalenze asseritamente realizzate in seguito alla cessione di due immobili strumentali.
Il Consorzio, presentata il 2 febbraio 2006 istanza di accertamento per adesione non accolta, si opponeva e quindi impugnava, con atto depositato il 4 giugno 2010, l’accertamento per l’anno 2004, chiedendone l’annullamento in quanto illegittimo per violazione dell’art. 12, comma 5, della Legge 27 luglio 2000 n.212 nonché perché ritenuta non corretta la ripresa a tassazione sia di quote di ammortamento di beni strumentali, regolarmente rivalutati ed iscritti al libro dei cespiti, sia della plusvalenza ricavata dall’alienazione di due fabbricati strumentali, destinata al soddisfacimento dei creditori nell’ambito della procedura concorsuale in cui il Consorzio versava.
Con altri distinti ricorsi, differenti solo perché diversi i rispettivi importi, venivano impugnati gli avvisi di accertamento per gli anni 2005, 2006 e 2007 e veniva chiesto l’annullamento degli stessi per illegittimità con vittoria di spese, diritti ed onorari.
Si domandava conseguentemente l’annullamento anche della cartella di pagamento n.02720100005927914 contenente il ruolo straordinario n. 2010/000254, reso esecutivo in data 26 luglio 2010 (con la quale E.P. SpA, in qualità di Agente della Riscossione della Provincia di Campobasso, chiedeva alla CAI la complessiva somma di € 369.509,58 a titolo di riscossione in pendenza dei menzionati giudizi presentati dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Campobasso). In tutti i distinti ricorsi inoltre si richiedeva la sospensione cautelare degli atti impugnati.
In ciascuno dei distinti procedimenti, rispettivamente n. 668, n. 669, n. 670 e 788 del RGR 2010, si costituiva l’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate rilevando l’infondatezza dei ricorsi e chiedendone quindi il rigetto con condanna del ricorrente alle spese. Disposta la riunione di tali procedimenti sotto l’unico numero 668/2010, con ordinanza del 19 luglio 2010 veniva dichiarata inammissibile la richiesta di sospensione degli avvisi di accertamento mentre, con ordinanza del 6 dicembre 2010, era invece accolta altra analoga istanza, proposta a seguito dell’iscrizione di unico ruolo provvisorio e della notifica della citata cartella di pagamento n°0272010000059227914.
Con sentenza n. 50/1/11, depositata il 24/02/2011, la Commissione Tributaria Provinciale di Campobasso, sezione I, disattesa ogni diversa istanza, accoglieva i ricorsi riuniti, annullava quindi gli avvisi di accertamento impugnati e, per l’effetto, annullava anche la relativa iscrizione di ruolo provvisorio e la conseguente cartella di pagamento. Condannava inoltre l’Agenzia delle Entrate alla rifusione delle spese processuali, liquidate in complessivi € 7.293,00 – di cui € 4.500,00 per onorari ed € 2.793,0 per diritti -, oltre a spese generali, IVA e CPA come per legge.
Proponeva appello avverso la citata sentenza l’Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di Campobasso, chiedendo l’accoglimento dello stesso e, per l’effetto, la riforma dell’impugnata sentenza con conferma degli avvisi di accertamento, la condanna dell’appellato al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio nonché la discussione della causa in pubblica udienza, ai sensi dell’art. 33 del D.Lgs. n.546/1992.
In data 7/12/2011 il Consorzio Agrario depositava controdeduzioni all’appello ai sensi dell’art. 54 del D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, chiedendo la conferma della sentenza emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale n. 50/1/11.
Si costituiva in giudizio il Consorzio in data 16 settembre 2014 riportandosi integralmente alle conclusioni formulate in atti, nonché a quanto dedotto, prodotto, richiesto ed eccepito, chiedendone l’integrale accoglimento e riservandosi di produrre nei termini di legge ulteriori documenti e memorie illustrative (depositati rispettivamente in data 22 ottobre 2014 e 29 ottobre 2014).
Diritto
L’appello è fondato e, pertanto, va accolto.
L’art. 12 comma 5 della Legge n. 212/2000, Statuto dei diritti del contribuente, espressamente prevede che “La permanenza degli operatori civili o militari dell’amministrazione finanziaria, dovuta a verifiche presso la sede del contribuente, non può superare i trenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell’indagine individuati e motivati dal dirigente dell’ufficio. Gli operatori possono ritornare nella sede del contribuente, decorso tale periodo, per esaminare le osservazioni e le richieste eventualmente presentate dal contribuente dopo la conclusione delle operazioni di verifica ovvero, previo assenso motivato del dirigente dell’ufficio, per specifiche ragioni”. Tale norma è considerata fortemente innovativa in quanto per la prima volta ha fissato nell’ordinamento tributario un limite alla permanenza dei verificatori presso la sede in cui viene svolta l’attività oggetto dei controlli.
L’imprecisa formulazione della disposizione ha comportato però diversi problemi di interpretazione ed in particolare sul significato da attribuire al concetto di “permanenza dei verificatori”. Sono emerse a tal proposito due posizioni antitetiche, la prima, interpretando restrittivamente la disposizione, sostiene che il limite temporale sia applicabile alle sole giornate effettive ovvero a quelle in cui si sia realizzata la presenza fisica dei verificatori presso la sede del soggetto controllato; la seconda, di portata più estensiva, interpreta la norma nel senso che si riferirebbe invece alla durata dell’attività di verifica.
L’amministrazione finanziaria, avallata anche dalla dottrina, con circolare n. 250400/2000 del Comando Generale della Guardia di Finanza, si è espressa in favore del primo orientamento. Si precisa infatti nella stessa circolare che “nel computo dei giorni di permanenza si dovranno considerare soltanto le giornate lavorative effettivamente trascorse presso il contribuente e non i singoli contatti (ad esempio per notificare atti, prelevare o riconsegnare documenti, ecc), a titolo puramente esemplificativo, sarà opportuno prevedere: (1) opportune sospensioni dell’attività svolta presso la sede del soggetto ispezionato per procedere ad eventuali controlli di coerenza esterna….”. In tal modo rimangono escluse dal computo dei trenta giorni non solo le giornate festive, ma anche quelle di sospensione nonché quelle dedicate alle operazioni di riscontro documentale svolte presso gli uffici dei verificatori.
In senso conforme l’Agenzia delle Entrate ha evidenziato, con circolare 27 giugno 2002, che “ai fini del computo dei giorni di permanenza di cui al comma 5 del citato art. 12, vanno considerati i giorni di effettiva presenza presso il contribuente a decorrere dalla data di accesso”. Dalla ratio della disposizione in oggetto si desume infatti che l’intento del legislatore è quello di evitare una situazione di stanzialità e quindi che un’eccessiva permanenza degli organi verificatori comporti poi di fatto un eccessivo disagio per il contribuente. Una diversa interpretazione della disposizione in oggetto avrebbe invece richiesto l’utilizzo da parte del legislatore della locuzione “durata della verifica” piuttosto che della locuzione “permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente”.
Ciò trova peraltro un’importante conferma normativa nel D.L. n. 70/2011 ed, in particolare, nell’art. 7 comma 2 lett. c), che ha aggiunto il seguente periodo all’art. 12 comma 5 dello Statuto “… ai fini del computo dei giorni lavorativi devono essere considerati i giorni di effettiva permanenza degli operatori civili o militari dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente “
In sostanza l’art. 12 comma 5 non va interpretata nel senso che i termini, ivi posti all’attività accertati va dell’amministrazione finanziaria, si riferiscano ad un tempo calcolato senza alcuna soluzione di continuità dal giorno di inizio della verifica, in quanto ciò a cui si deve dare rilievo sono solo ed esclusivamente i giorni di effettiva presenza fisica dei verificatori presso i locali del contribuente. Il termine non presuppone cioè che i giorni debbano essere considerati consecutivi né che debbano essere computati nel termine i singoli contatti tra gli organi verificatori ed il contribuente, prevedendo la legge, tra le modalità operative, anche delle sospensioni. Opinando diversamente si obbligherebbero i verificatori ad effettuare le operazioni di controllo senza interruzione o sospensione alcuna, così introducendo non solo una rigidità nell’organizzazione dei servizi di verifica, ma comportando l’impossibilità di procedere a controlli incrociati quando questi siano indispensabili per la prosecuzione delle stesse operazioni di verifica.
In conclusione può dunque affermarsi che, in base alla corretta interpretazione della disposizione che deve essere intesa, si ribadisce, nel senso che i termini in essa indicati concernono i giorni lavorativi non consecutivi di effettiva permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente, non c’è stata alcuna violazione dell’art. 12 comma 5 della legge citata in quanto l’attività di verifica dell’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate si è svolta nel pieno rispetto della legge. Tale circostanza è chiaramente desumibile dalla documentazione prodotta dall’Agenzia delle Entrate che ha depositato il PVC redatto dai propri funzionari unitamente a tutti gli allegati ed ai verbali giornalieri, ivi compreso quello del 4/09/2009. La documentazione in oggetto consente di ricostruire con precisione la scansione temporale dell’attività di controllo che risulta eseguita nel pieno rispetto dei termini previsti dalla legge.
Non è oltremodo vero inoltre che la violazione dell’art. 12 comma 5 avrebbe comportato l’illegittimità della verifica nella sua interezza, travolgendo quindi il conclusivo processo verbale, i conseguenti avvisi di accertamento e la derivata cartella di pagamento. Nessuna sanzione di nullità è prevista in caso di violazione della citata disposizione né, conseguentemente, sussiste alcuna inutilizzabilità degli elementi acquisiti in sede di accertamento fiscale, in mancanza di una specifica norma che preveda tale sanzione, non esistendo peraltro nell’ordinamento tributario un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite. Ciò è stato più volte ribadito dalla Suprema Corte con riferimento alle più svariate ipotesi di irrituale acquisizione documentale da parte dell’amministrazione finanziaria (Cass. n. 22135/2010; n. 13486/2009; n. 7144/2007). Anche la dottrina, allineandosi a tale orientamento, evidenzia che la violazione del comma 5 dell’art. 12 legge n. 212/2000 non determina l’inutilizzo del materiale di indagine acquisito in quanto i termini previsti sono ordinatori e non perentori.
Nel merito deve essere sottolineato quanto segue.
Con gli avvisi di accertamento notificati in relazione agli anni 2004, 2005, 2006 e 2007 l’Ufficio ha correttamente ripreso a tassazione, ai fini IRAP, le somme dedotte a titolo di quote di ammortamento del valore dei fabbricati strumentali di proprietà del Consorzio. In particolare i verificatori hanno contestato, con riferimento ai citati fabbricati, la non corrispondenza tra i costi documentati e i valori iscritti nel libro dei cespiti. Il Consorzio sul punto ha giustificato tale scostamento evidenziando di aver effettuato la rivalutazione dei valori dei fabbricati strumentali applicando la Legge del 2 dicembre 1975 n. 576, la Legge del 19 settembre 1983 n. 72 e la Legge del 30 dicembre 1991 n. 413.
L’Agenzia delle Entrate ha però correttamente evidenziato che i maggiori valori derivanti dalle rivalutazioni effettuate in virtù delle disposizioni normative sopra citate non sono rilevanti ai fini IRAP in quanto realizzate in base a leggi emanate prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n.446/1997 ovvero prima del decreto istitutivo nell’ordinamento tributario dell’IRAP.
Nel caso in oggetto peraltro non è applicabile il cd. principio di correlazione in quanto la rilevanza fiscale dei maggiori valori degli immobili, ai fini della determinazione del valore della produzione da assoggettare ad Irap, può derivare solo ed esclusivamente dal pagamento di un’imposta sostitutiva dell’Irap che però nel caso di specie è da escludersi trattandosi di rivalutazioni effettuate in periodi in cui l’Irap ancora non era stata istituita. Vige infatti nel nostro sistema tributario un principio di ordine generale in base al quale la deducibilità di componenti negativi è ammessa a fronte della tassabilità delle componenti positive correlate. Violando tale principio il Consorzio ha invece dedotto ai fini Irap quote di ammortamento derivanti non da costi realmente sostenuti, ma da semplici iscrizioni in bilancio di maggiori valori, a seguito delle rivalutazioni effettuate, per i quali non è stata versata però alcuna imposta sostitutiva dell’Irap.
Con gli avvisi di accertamento notificati al Consorzio l’Agenzia delle Entrate inoltre ha correttamente ripreso a tassazione, sempre ai fini Irap, le somme relative alla plusvalenza dai medesimi calcolata al netto delle rivalutazioni sopra menzionate e derivanti dalla cessione di due immobili strumentali.
Sul punto deve essere precisato che il Consorzio si trova in liquidazione coatta amministrativa con esercizio provvisorio ai sensi dell’art. 206 del R.D. n.267/1942 e che, pertanto, ha conservato tutte le sue attività, le strutture logistiche, economiche, di ritiro e di stoccaggio dei prodotti agricoli.
L’Agenzia delle Entrate ha accertato che nel corso della procedura concorsuale il Consorzio ha alienato alcuni immobili strumentali realizzando delle plusvalenze non incluse però nella base imponibile IRAP come calcolata dal Consorzio stesso.
Va precisato che un principio applicabile al fallimento ma valido anche per le altre procedure concorsuali è quello in base al quale se nel corso di queste si procede soltanto ad un’attività liquidatoria, essa non è soggetta ad Irap; qualora invece l’attività produttiva continui o riprenda, ovvero in caso di esercizio provvisorio, ad essa è applicabile l’Irap.
Sottolineato ciò deve essere inoltre evidenziato che un aspetto particolare e complesso, concernente l’Irap dovuta sui redditi derivanti da liquidazione di imprese, riguarda proprio le plusvalenze e le minusvalenze conseguite nella fase di liquidazione.
Per quanto concerne l’Irap applicabile agli immobili i componenti positivi e negativi di natura immobiliare influiscono in maniera diversa a seconda della categoria di appartenenza dell’immobile che li ha generati e, di conseguenza, della loro classificazione in bilancio.
Gli immobili di proprietà dei soggetti esercenti attività commerciale possono essere classificati nelle seguenti categorie:
1) immobili merce: immobili alla cui produzione o scambio è diretta l’attività d’impresa e iscritti tra le rimanenze nello stato patrimoniale;
2) immobili strumentali: immobili iscritti tra le immobilizzazioni nello stato patrimoniale ed oggetto di ammortamento;
3) immobili patrimonio: si tratta di una categoria residuale che comprende tutti gli immobili relativi all’impresa non appartenenti alle altre due categorie.
In particolare ai fini Irap sono strumentali i beni in relazione ai quali sono stanziate quote di ammortamento deducibili anche agli effetti della stessa imposta regionale. Nella categoria vanno ricompresi gli immobili strumentali: per destinazione ovvero gli immobili asserviti al processo produttivo, per natura: gli immobili che, per le loro caratteristiche, non sono suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali trasformazioni, ancorché non utilizzati o dati in locazione o comodato.
Tali immobili generano componenti positivi rilevanti ai fini Irap e, segnatamente:
plusvalenze, in caso di alienazione;
affitti attivi, in caso di locazione degli immobili.
Le plusvalenze concorrono alla formazione della base imponibile Irap a condizione che non derivino da operazioni di trasferimento d’azienda (o di singoli rami o complessi aziendali), com’è nel caso di specie.
Ed invero, così si legge nell’art. 11 comma 3 del D.Lgs. n. 446/1997 (prima delle modifiche apportate dalla legge finanziaria per il 2008 n. 244/2007, in vigore dal periodo di imposta in corso alla data dell’01/01/2008): “concorrono alla determinazione della base imponibile Irap in ogni caso le plusvalenze e le minusvalenze relative a beni strumentali non derivanti da operazioni di trasferimento di azienda.
A sua volta il Ministero delle Finanze, con circolare del n. 141/E del 4/06/98, recante istruzioni per le prime applicazioni dell’Irap, chiarisce che “Le plusvalenze e le minusvalenze relative a beni strumentali ai fini delle imposte sui redditi, anche se contabilizzate nelle voci relative ai componenti straordinari secondo i principi contabili sopra evidenziati, ad eccezione di quelle derivanti da trasferimento di aziende, concorrono in ogni caso alla determinazione della base imponibile lrap (art. 11, comma 1, lett.a)”. Stessa cosa si legge nella Circolare n. 263/E del 12/11/98 emanata in sede di istituzione dell’Irap, dove al punto 2.5 si chiarisce che “L art. 11, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 446 del 1997, così come risultante dopo la modifica apportata dal decreto legislativo n. 137 del 1998, stabilisce che concorrono in ogni caso alla formazione della base imponibile le plusvalenze e le minusvalenze relative a beni strumentali non derivanti da operazioni di trasferimento di azienda. Come già chiarito nella circolare n. 141/E, tale disposizione deve intendersi applicabile ai beni strumentali ai fini fiscali in relazione ai quali, cioè, sono stanziate quote di ammortamento deducibili anche agli effetti dell’IRAP .
Sulla base di tale principio che non ammette deroghe e che, come detto, è stato ribadito anche dalla prassi amministrativa, si deve ritenere tassabile ai fini Irap la plusvalenza in esame. Il Consorzio infatti è stato autorizzato all’esercizio provvisorio dell’impresa e, pertanto, risulta integrato il presupposto dell’imposta in questione ovvero l’esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi.
L’esclusione dall’Irap delle plusvalenze realizzate implicherebbe invece per il Consorzio un duplice beneficio che consiste, da un lato, nella deduzione ai fini Irap dei costi di acquisto riferibili ai beni di cui trattasi e, dall’altro, nel non assoggettamento a tassazione delle plusvalenze realizzate a seguito della cessione dei beni. Pertanto, poiché i beni ceduti hanno generato ammortamenti che il Consorzio ha dedotto ai fini Irap negli esercizi precedenti, i proventi correlati non possono che essere tassati.
Nel caso de quo ed alla luce di quanto sopra evidenziato deve quindi ritenersi assolutamente corretto e conforme a legge l’operato dell’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate.
P.Q.M.
Accoglie l’appello. Compensa le spese del doppio grado di giudizio.
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