CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 19785 depositata il 17 luglio 2023

Tributi – Rimborso ritenuta fiscale IRPEF – Indennità di esproprio di un terreno – Occupazione illegittima – Silenzio rifiuto – Plusvalenza – Momento di entrata in vigore della Legge n. 413/1991 – Percezione della plusvalenza – Termine di conclusione del procedimento – Principi CEDU – Interpretazione conforme – Principi costituzionali – Rigetto

Fatti di causa

1. S.G. domandava il 18.5.2015 il rimborso della ritenuta fiscale Irpef del 20%, applicata dal Comune sulla indennità corrispostagli nell’anno 2014 quale ristoro per l’espropriazione di un terreno di sua proprietà sito alla località (…), in (…), oggetto di occupazione illegittima sin dal 1977. L’Agenzia delle Entrate non assicurava riscontro alla richiesta del contribuente.

2. Formatosi il silenzio rifiuto dell’Amministrazione finanziaria, S.G. lo impugnava innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di (…). La CTP riteneva ricorrere l’inescusabile ritardo dell’Amministrazione finanziaria nella corresponsione dell’indennità di esproprio. In conseguenza stimava fondata la pretesa del contribuente ed annullava il diniego, affermando che il rimborso doveva essere corrisposto al contribuente.

3. L’Amministrazione finanziaria spiegava appello avverso la decisione sfavorevole conseguita dai giudici di primo grado, innanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Campania, sezione staccata di (…), sostenendo che le somme erano state correttamente trattenute, nell’assenza di ogni colpevolezza dell’Amministrazione finanziaria nell’aver effettuato la liquidazione dell’indennità decenni dopo la richiesta. La CTR riteneva infondate le critiche proposte dall’Agenzia delle Entrate e rigettava il ricorso, confermando la decisione della CTP.

4. Ha proposto ricorso per cassazione, avverso la decisione del giudice dell’appello, l’Amministrazione finanziaria, affidandosi ad un motivo di impugnazione. Resiste mediante controricorso il contribuente, che ha pure depositato memoria.

Ragioni della decisione

1. Con il suo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’Agenzia delle Entrate contesta la violazione dell’art. 11, comma 5 della l. n. 413 del 1991, in cui è incorsa la CTR, insistendo nel sostenere che il pur notevole ritardo con cui è stata pagata l’indennità di espropriazione è dipeso dal “lungo protrarsi del contenzioso giudiziario”, non potendo individuarsi alcuna “colpevole responsabilità della P.A.” (ric., p. 15) con la conseguenza che il rimborso richiesto non risulta dovuto.

2. Il giudice dell’appello ha motivato la sua decisione, con la quale ha ritenuto sussistere il colpevole ritardo dell’Amministrazione pubblica, osservando che: “Oggetto della controversia è l’assoggettabilità a tassazione delle somme giudizialmente riconosciute come dovute al proprietario del fondo, a titolo di indennità per occupazione illegittima. Ed in particolare la configurabilità di un inescusabile ritardo nella (esatta) corresponsione di tale indennità da parte dell’Amministrazione… In concreto è incontestato che: la condotta acquisitiva risale al 1977; le prime richieste (inevase) risalgono al 1982; il giudizio è stato introdotto nel 1991 e si è definito all’esito della decisione in appello intervenuta nel 2010; l’effettivo ristoro è intervenuto nel 2014… a fronte di tali dati fattuali, pur volendo epurare i 37 anni complessivi dai tempi processuali (non imputabili alle parti), elementi di responsabilità emergono dal lungo tempo trascorso tra le prime richieste del 1982, rimaste inevase… e la successiva azione giudiziaria e da quelli trascorsi tra la decisione giudiziale (2010) e l’effettivo ristoro (2014). Ben tredici anni nei quali gli interessi del creditore sono stati lesi da una condotta omissiva assunta in violazione quanto meno del dovere di necessaria cooperazione imposto a carico di ciascuna delle parti di un rapporto obbligatorio dal principio generale di correttezza e buona fede. Tutto ciò conduce a ritenere corretta la decisione di primo grado” (sent. CTR, p. II ss., evidenza aggiunta).

3. Invero la decisione assunta dal giudice dell’appello appare conforme all’orientamento ripetutamente espresso da questa Corte regolatrice.

Si è infatti avuto modo di chiarire che “in tema d’imposte dirette sui redditi, la somma erogata a titolo di risarcimento per occupazione usurpativa di un bene immobile è assoggettata a tassazione ai sensi dell’art. 11 della l. n. 413 del 1991 se la sua percezione, che costituisce una plusvalenza, è successiva all’entrata in vigore della legge e, cioè, all’1 gennaio 1989, non assumendo rilievo, invece, il momento in cui è avvenuto il trasferimento del bene, salvo che il ritardo nel pagamento sia imputabile alla P.A.”, Cass., sez. VI-V, 9/02/2017, n. 3502; e non si è nemmeno mancato di specificare che “in tema di imposte sui redditi, ai fini del prelievo fiscale di cui all’art. 11, comma 5, della l. n. 413 del 1991, è sufficiente che la percezione della somma, che realizzi una plusvalenza in dipendenza di procedimenti espropriativi, sia avvenuta dopo l’entrata in vigore della legge anzidetta, a nulla rilevando che il trasferimento del bene sia avvenuto prima ed, in particolare, anteriormente all’1 gennaio 1989, salvo che la corresponsione della somma oltre tale data sia dovuta all’Amministrazione che resistendo, anche in giudizio, abbia determinato un considerevole ritardo nel pagamento“, Cass., sez. VI-V, 12/01/2016, n. 265 (evidenza aggiunta).

3.1. Il fondamento costituzionale e convenzionale dell’orientamento assunto da questa Corte di legittimità era stato anche spiegato, condivisibilmente e con chiarezza, da altra precedente pronuncia, che pare opportuno riprodurre per quanto d’interesse. Si è infatti illustrato che “questa Corte non intende rimettere in discussione il principio generale di cassa”, con riferimento all’imposizione di cui all’ art. 11, comma 5, della l. n. 413 del 1991, in quanto, in relazione al profilo impositivo, “momento rilevante è quello della percezione della plusvalenza ed il diverso trattamento costituisce un effetto tipico della disciplina della successione delle leggi nel tempo.

Trattasi, invece, di verificare se tale principio generale, di natura giurisprudenziale, possa soffrire eccezioni, con riferimento a peculiari situazioni in cui, a seguito di un ingiustificato ritardo da parte della Pubblica Amministrazione nel corrispondere l’indennità di esproprio o il corrispettivo pattuito, il soggetto possa avere subito un danno a seguito della modifica normativa nel frattempo intervenuta e che non avrebbe subito ove il pagamento fosse avvenuto nel termine “ragionevole” di definizione dei procedimenti amministrativi.

La l. n. 241 del 1990, art. 2bis introdotto dalla l. n. 69 del 2009, ha disciplinato le conseguenze per il ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento, stabilendo che le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’art. 1, comma 1- ter, sono tenute al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.

Nel caso di specie evidentemente tale termine risulta abbondantemente superato (oltre 15 anni).

Ne’ rileva, ai fini della responsabilità dello Stato, che il danno per il contribuente tragga origine dal ritardo del Comune nel pagamento della indennità (o del prezzo) e l’azione risarcitoria, in forza della convenzione, è dal danneggiato esercitabile contro lo Stato in quanto parte contraente, in quanto ai fini della CEDU lo Stato va considerato quale apparato unitario che dal punto di vista internazionale ha “un solo volto” (raggruppando l’insieme di autorità cui l’ordinamento attribuisce il potere di emanare e di applicare le norme e i comandi con i quali lo stato fa valere la sua supremazia) e che, dunque, ha il dovere di non vulnerare il diritto di proprietà e quello alla giustizia del processo per come tutelati dall’art. 6 CEDU e art. 1 Prot. n. 1 annesso alla CEDU – dir. proprietà.

Occorre, ai fini della decisione del presente giudizio, anche esaminare la decisione CEDU 16.3.2010 (Caso Di Belmonte c. Italia) che si riferisce ad una fattispecie analoga a quella in esame. Nel caso sottoposto all’attenzione della CEDU trattavasi del ritardato pagamento di una indennità di espropriazione anteriore all’entrata in vigore della l. n. 413 del 1991. La Corte di cassazione, nella fattispecie esaminata dalla CEDU, aveva accolto il ricorso dell’Amministrazione ritenendo applicabile il principio di cassa con riferimento al versamento dell’indennità di espropriazione.

La Corte Europea ha rilevato che anche se una eventuale applicazione retroattiva della l. n. 413 del 1991 al caso del ricorrente non avrebbe costituito di per sé una violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1, poiché questa disposizione non vieta, come tale, l’applicazione retroattiva di una legge fiscale (M.A. e altri c. Finlandia (dec), no. 27793/95, 10 Giugno 2003, e Di Belmonte (no. 2), decisione precitata), tuttavia assume rilevanza il ritardo da parte della Pubblica Amministrazione nel dare esecuzione al rimborso, con un’influenza determinante sull’applicazione del nuovo regime fiscale.

La Corte di Giustizia ha ritenuto la responsabilità dello Stato italiano per non aver dato esecuzione ad una sentenza della Corte di appello di Catania (definitiva in data 8 maggio 1991) nel termine di sette mesi dall’entrata in vigore della l. n. 413 del 1991 che introduceva la tassabilità dell’indennità di espropriazione. Rilevava, al riguardo, la CEDU che il ritardo da parte della Pubblica Amministrazione nel dare esecuzione alla sentenza aveva avuto un’influenza determinante sull’applicazione del nuovo regime fiscale in quanto l’indennità concessa al ricorrente non sarebbe stata assoggettata all’imposta prevista dalla nuova legislazione fiscale se l’esecuzione della sentenza fosse stata regolare e tempestiva. La Corte Europea ha quindi ritenuto che l’applicazione della l. n. 413 del 1991 ha infranto il “giusto equilibrio” che deve sussistere tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo, ritenendo sussistere la violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1.

Lo Stato italiano veniva, quindi, condannato alla restituzione della somma “prelevata” a titolo d’imposta oltre al risarcimento del danno morale per la sensazione di impotenza e di frustrazione di fronte al ritardo nel versamento dell’indennità di espropriazione, “raddoppiata” dall’entrata in vigore ed all’applicazione a suo danno della l. n. 413 del 1991. La fattispecie in esame presenta analogie con il caso deciso dalla CEDU, (nel caso in esame, come già rilevato, la cessione volontaria degli appezzamenti di terreno era avvenuta in data 15 ottobre 1981 e 3 ottobre 1982 e il pagamento è avvenuto a distanza di oltre 15 anni). Il contrasto tra la norma interna e i principi affermati dalla CEDU può dar luogo a una questione di legittimità costituzionale, ove non sia possibile una interpretazione della normativa nazionale in modo convenzionalmente orientato, in quanto la compatibilità tra la Costituzione e i principi Cedu è devoluta alla Corte Costituzionale (Corte Cost. nn. 348 e 349 del 2007). Una tale soluzione alternativa è possibile solo se la norma non è rigida, cioè se è possibile da parte del giudice nazionale una interpretazione conforme ai principi comunitari, dovendosi applicare, altrimenti, il brocardo “in claris non fit interpretatio”, rimettendo alla Corte Costituzionale la questione della legittimità della normativa nazionale confliggente con i principi della CEDU, La Corte di Cassazione, così come le Commissioni tributarie, prima di sollevare questione di costituzionalità devono verificare se sia possibile una interpretazione dei principi CEDU in modo costituzionalmente orientato, cioè conforme alla Costituzione.

La CEDU è una delle principali fonti di diritto internazionale di fonte pattizia e, in caso di contrasto non sanabile da una interpretazione conforme delle norme nazionali, costituisce parametro interposto di legittimità costituzionale delle leggi, da sottoporre al previo riscontro di conformità con la Costituzione.

La c.d. ” Interpretazione conforme”, sarà tuttavia possibile solo ove la norma, come già evidenziato, non sia “rigida”, e si presti a una differente opzione interpretativa, stante il suo significato suscettibile di diversa valutazione. Tale interpretazione va sempre tentata dal giudice nazionale pur considerando le difficoltà del “judicial transplant” derivanti dalla diversità degli strumenti dell’argomentazione giuridica, del metodo e degli effetti delle pronunce.

La decisione della CEDU si riferisce ad (una) fattispecie concreta, e non aspira a definire massima di giudizio e non è universalizzabile perché frutto di “sincretismo pragmatico”, così come evidenziato dalla dottrina, mentre la fattispecie da cui sorge l’incidente di costituzionalità viene universalizzata in una massima della Consulta che trova applicazione generalizzata. La Corte di Strasburgo, le cui regole si applicano in 47 nazioni, ha un approccio sostanzialista, mentre i giudici nazionali, tra cui anche la Corte costituzionale e la Corte di Cassazione adottano un indirizzo formalista. Nel caso di specie, tenendo conto di tali principi, come già evidenziato e come risulta evidente dal diverso significato già attribuito alla normativa in esame da una parte della giurisprudenza della Corte di cassazione, appare possibile una interpretazione della legislazione nazionale conforme ai principi comunitari.

Va, quindi affermato il seguente principio di diritto: ai fini del prelievo fiscale di cui alla l. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 11 comma 5, è sufficiente che la percezione della somma, che realizzi una plusvalenza in dipendenza di procedimenti espropriativi, sia avvenuta dopo l’entrata in vigore della legge anzidetta, a nulla rilevando che il trasferimento del bene sia intervenuto prima del 1 gennaio 1989. Tuttavia qualora gli atti integranti il trasferimento cui consegue la plusvalenza, cioè, rispettivamente, il decreto di esproprio, la cessione volontaria o l’occupazione acquisitiva, siano intervenuti prima del 31 dicembre 1988, ma il pagamento sia intervenuto dopo l’entrata in vigore della l. n. 413 del 1991, la plusvalenza non è imponibile nel caso di ingiustificato ritardo della P.A. nel pagamento della plusvalenza.

La diversa interpretazione, sia pure prospettata dalla giurisprudenza di legittimità, sarebbe anche in contrasto con i principi costituzionali: a) di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione (art. 97 Cost.) non potendosi consentire che lo Stato, sempre inteso quale Stato “apparato”, nella sua veste di debitore, possa trarre vantaggio dal proprio inadempimento costituito dall’aver tardato ingiustificatamente (nella fattispecie per ben tra lustri) di corrispondere il conguaglio a seguito di cessione bonaria di beni nell’ambito di una procedura espropriativa; b) degli obblighi internazionali come limite generale di validità della legislazione statale e regionale (art. 117 Cost.); c) del giusto processo e della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) dovendosi evitare che il contribuente, già danneggiato dal comportamento dilatorio della P.A., sia costretto a un ulteriore iter giudiziario davanti agli organi sovranazionali la fine di ottenere il risarcimento del danno, quando il medesimo risultato perseguito dall’interessato (c.d. “bene della vita”) può essergli riconosciuto in forza di una interpretazione convenzionalmente orientata della normativa nazionale, evitando, tra l’altro, l’eventuale apertura di procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano e ulteriori e aggravi costituiti dalle spese per la difesa in giudizio davanti agli organi sovranazionali e nazionali”, Cass. sez. V, 22/01/2013, n. 1429.

4. Il ricorso introdotto dall’Agenzia delle Entrate risulta quindi infondato e deve essere respinto.

5. Le spese di lite seguono l’ordinario criterio della soccombenza, e sono liquidate in dispositivo, in considerazione della natura delle questioni affrontate e del valore della causa.

5.1. Rilevato che risulta soccombente parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13, comma 1quater, del d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, che condanna al pagamento delle spese di lite in favore del costituito controricorrente, e le liquida in complessivi Euro 7.300,00 per compensi, oltre 15% per spese generali, Euro 200,00 per esborsi, ed accessori come per legge.