Corte di Cassazione ordinanza n. 18177 depositata il 7 giugno 2022

Plusvalenza derivante dalla vendita di partecipazione sociali

Rilevato che:

L’Agenzia delle entrate, ufficio locale di Latina, notificò a P.R. un avviso di accertamento diretto a recuperare l’imposta sostitutiva per una plusvalenza realizzata sulla cessione della sua quota di partecipazione (50%) nella società T.C. srl, contestandole, sulla base di una valutazione contabile, il differenziale di valore della quota medesima rispetto al prezzo contrattualmente indicato.

La contribuente propose ricorso contro tale atto impositivo che la CTP di Latina accolse.

Avverso tale decisione propose appello l’Agenzia delle entrate, ufficio locale, che venne accolto dalla CTR del Lazio, sezione staccata di Latina.

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso la Polito, affidato ad un motivo unico.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Considerato che:

1. Con l’unico motivo dedotto la ricorrente contribuente denuncia la violazione/falsa applicazione degli artt. 1, 2, I. 27/1991, 9, 82, dPR 917/1986, lamentando che la sentenza impugnata abbia seguito la tesi, giuridicamente erronea, della tassabilità della plusvalenza de qua non in base al criterio indicato dalle citate disposizioni legislative, bensì del valore normale della quota ceduta.

1.1 Il motivo non è fondato. 

1.2 Con l’atto impositivo impugnato l’Ente impositore richiede il pagamento di una maggiore imposta sostitutiva sulle plusvalenze da cessione di quote societarie, istituita dal d.l. 27/1991, il cui art. 2, comma 1, nella parte che qui rileva, quanto alle modalità di applicazione del tributo, prevede che « Agli effetti del presente decreto i redditi di cui all’articolo 81, comma 1, lettere c) e c bis) del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 sono costituiti dalla differenza tra il corrispettivo percepito ed il prezzo pagato all’atto del precedente acquisto .. ».

Orbene, nella sentenza impugnata si è interpretata tale disposizione legislativa nel senso che il corrispettivo dichiarato può essere contestato dall’agenzia fiscale sulla base di presunzioni, che nel caso di specie ha affermato fondate sui valori degli immobili ceduti dalla società partecipata prima del trasferimento generante la plusvalenza oggetto della pretesa fiscale.

In particolare la CTR laziale ha rilevato che «il valore della cessione degli immobili è un dato certo, dichiarato dalla società e non sottoposto a rettifica di registro (imposta di, ndr) in quanto congruo e la valutazione del patrimonio netto della TC srl, determinato a seguito della cessione degli immobili, è dato del pari certo in quanto non contestato dalla Polito, è evidente che gravi su costei l’onere di superare la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato al valore di mercato determinato dall’Ufficio».

1.3 È quindi evidente che il giudice tributario di appello ha accertato in fatto -insindacabilmente- la fondatezza della presunzione allegata dall’Ente impositore, così peraltro non violando né falsamente applicando, come denunciato, la citata disposizione legislativa.

Non può infatti ritenersi che con la propria statuizione la CTR laziale si sia riferita alla previsione dell’art. 9, dPR 917/1986 ossia al “valore normale” delle quote cedute come criterio applicativo alternativo dell’imposta sostitutiva in questione, ma, diversamente, abbia invece affermato la rettificabilità del corrispettivo dichiarato, anche, mediante presunzioni (semplici), che appunto ha poi ritenuto in fatto fondate.

1.4 Tale interpretazione/applicazione dell’art. 2, comma 1, d.l. 27/1991 corrisponde peraltro a quella di questa Corte, secondo il principio di diritto che «[i]n tema di accertamento del corrispettivo ricavato dalla vendita di partecipazioni sociali, ai fini della determinazione della plusvalenza tassabile ex art. 2 del d.l. 28 gennaio 1991, n. 27, convertito in legge 25 marzo 1991, n. 102, non sussiste alcuna presunzione legale di conformità tra il “corrispettivo percepito”, cui fa riferimento il citato art. 2, ed il valore “normale” di mercato previsto dall’art. 9, quarto comma, lett. b), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, poiché quest’ultima disposizione detta il criterio per la determinazione del valore da attribuire alle azioni ed ai titoli in essa indicati, ai fini del loro concorso alla determinazione del reddito complessivo del possessore, mentre l’altra ha inteso sottoporre a tassazione, quale reddito a sé stante, la diversa ricchezza, manifestatasi con il trasferimento della titolarità e del possesso di quelle azioni o titoli; peraltro, non è precluso al giudice di merito, nell’ambito del potere di ricostruzione del fatto a lui rimesso, di valorizzare l’accertamento del valore normale per sorreggere la presunzione semplice che il corrispettivo percepito dalla vendita di una partecipazione societaria sia difforme da quello dichiarato» (Sez. 5, Sentenza 3290 del 02/03/2012, Rv. 622006 – 01 e successive conformi, da ultimo, Sez. 5, n. 16366 del 30 luglio 2020).

In conclusione il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4.100,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.