COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per il Friuli Venezia Giulia sezione 4 sentenza n. 102 depositata il 27 aprile 2017
Con processo verbale di contestazione Prot. n. 29604 dd. 10.10.2012 l’Ufficio delle Dogane di Trieste procedeva al controllo a posteriori della bolletta di importazione IM/A n. 61885/D del 25.1.2010 intestata alla ditta xxxxxx SRL emessa dalla xxxxxx di Punto Franco Nuovo e sottoscritta dal sig. xxxxxx, dipendente della xxxxxx srl in rappresentanza indiretta. La merce oggetto di importazione, silicio metallico, era scortata da certificati di origine emessi dalla Camera di Commercio di Taiwan, veniva immessa in libera pratica con il pagamento del solo dazio ed introdotta in deposito IVA.
Nell’ambito di questo controllo i verificatori evidenziavano che tra le risultanze cui erano giunte le indagini dell’Ufficio Europeo Antifrode (OLAF) della Commissione europea volte ad accertare l’esistenza di meccanismi fraudolenti di commercio internazionale di silicio, e la documentazione commerciale allegata alla bolletta di importazione vi era un contrasto circa l’origine taiwanese dei beni importati, da ritenersi, invece, per i verificatori, di origine cinese. L’OLAF ha affermato l’origine cinese della merce in questione sulla base del Rapporto Prot. THOR (2011) 18655 dd. 27.7.2011 (prodotto in primo grado da entrambe le parti), a sua volta basato sulle indagini svolte dall’ente taiwanese per il commercio estero (Taiwanese Bureau of Foreing Trade: BOFT) e dalla Direzione Generale delle Dogane di Taiwan, Settore investigativo (Directorate Generale of Customs, Departement of Investigation: DOI). Il suddetto Rapporto, in particolare, giungeva al risultato per il quale anche il silicio esportato in Europa dalla società taiwanese xxxxxx Co.Ldt. come quello esportato da altre società, non rispettava le regole sull’origine dei beni previste a Taiwan, regole per le quali se la merce proveniente dalla Cina non subisce una lavorazione ulteriore tale da far accrescere il suo valore almeno del 35%, la sua provenienza rimane quella cinese. Nel caso di specie dalla Cina giungevano blocchi di silicio che a Taiwan venivano separati, frantumati, setacciati, selezionati e imballati in grani, ma secondo il rapporto in questione tale lavorazione non faceva aumentare il valore del silicio oltre la percentuale richiesta per acquisire la qualità di silicio taiwanese. Di conseguenza il Rapporto considerava falsi tutti i certificati d’origine emessi per partite di silicio per le quali il valore aggiunto è inferiore al 35%.
Sulla base di questi accertamenti l’OLAF aveva concluso che tutte le partite di silicio esportate dalle ditte esaminate erano originarie della Cina e quindi soggette a dazio antidumping.
Sulla scorta del su menzionato PVC l’Agenzia delle Dogane emetteva l’avviso di accertamento suppletivo e di rettifica Prot. n. 862/RU dd. 10.1.2013, notificato il 17.1.2013, che veniva impugnato dalla xxxxxx srl davanti alla CTP di Trieste, con richiesta di suo annullamento, così come delle sanzioni, e con vittoria di spese. L’avviso veniva impugnato innanzitutto per erroneità della liquidazione dei maggiori diritti dovuti, sia in riferimento al dazio che all’IVA, sostenendosi che la merce era destinata all’introduzione nel deposito IVA ex art. 50 bis del D.L. 331/93 e quindi non doveva essere soggetta ad IVA: tale introduzione è stata effettuata e l’IVA è stata successivamente corrisposta ai momenti dell’uscita dal deposito IVA. In secondo luogo veniva contestata la insufficiente lavorazione subita dalla merce ai fini dell’acquisizione dell’origine di Taiwan, sostenendosi che, anche ammesso che il prodotto fosse di origine cinese, la lavorazione costituita dalla frantumazione dei blocchi, l’utilizzo del relativo macchinario, la messa a punto del materiale per poterlo spedire ed utilizzare, costituiscono una frazione del costo ben superiore a quella della merce grezza, trattandosi di un prodotto nuovo perché a fronte dei blocchi di silicio, il prodotto è dato da grumi, grani, granuli o polvere. Inoltre, per la società ricorrente un calcolo corretto delle percentuali andava fatto sulla base del prezzo di acquisto dalla Cina e non del prezzo di vendita alla UE. In terzo luogo veniva contestata la valenza degli accertamenti dell’OLAF ed infine veniva negata la responsabilità solidale di xxxxxx srl.
L’Agenzia delle Dogane, costituendosi in giudizio, eccepiva l’inammissibilità del ricorso quanto alla richiesta di annullamento delle sanzioni, per difetto di ogni argomentazione sul punto e nel merito contestava il fondamento dei motivi del ricorso, di cui chiedeva la reiezione, con vittoria di spese. Le parti depositavano memorie difensive e la CTP di Trieste, con sentenza n. 395/02/14, pronunziata il 30.9.2014 e depositata il 29.10.2014, respingeva il ricorso condannando la ricorrente alla rifusione delle spese.
I primi giudici iniziavano con l’esame del quarto motivo del ricorso, con il quale la società contestava la responsabilità solidale del CAD operante in rappresentanza indiretta dell’importatore, ritenendolo infondato in quanto il CAD opera solo in rappresentanza indiretta, cioè in nome proprio e per conto dell’importatore, essendo così pienamente responsabile con l’importatore, dato che chi presenta merci in dogana per conto terzi, ma in nome proprio, risponde, ai sensi degli artt. 201 e 202 CDC, in via solidale con il soggetto per conto del quale la merce medesima è stata presentata in dogana, di tutti i dazi, le imposte e gli accessori dovuti a qualsiasi titolo, in relazione all’operazione commerciale. Sul punto sarebbe pacifica la giurisprudenza della Cassazione e della Corte di Giustizia. Veniva poi esaminato il terzo motivo, concernente la valenza degli accertamenti OLAF, che veniva respinto sulla base di varie pronunce della Cassazione che attestano la piena valenza probatoria di tali accertamenti, spettando al contribuente che ne contesti il fondamento l’onere di fornire la prova contraria, onere non assolto dalla contribuente.
Anche gli altri motivi venivano respinti. Con il primo CAD lamentava l’erroneità della liquidazione dei maggiori diritti dovuti, sia in riferimento al dazio che all’IVA. La sentenza di primo grado, in riferimento al dazio, rilevava che, nel caso in esame, il certificato attestante l’origine non preferenziale Taiwan del silicio metallico importato impediva l’applicazione del dazio antidumping al 49% previsto per il medesimo prodotto se originario della Repubblica Popolare Cinese; infondata risultava anche la pretesa del riconoscimento dell’introduzione nel deposito IVA ex art. 50 bis del D.L. 331/1993, dato che tale norma presuppone la regolarità dell’immissione in libera pratica della merce non comunitaria e la conseguente regolarità dell’introduzione in deposito IVA. In proposito i primi giudici ricordavano che ai sensi dell’art. 79 CDC “l’immissione in libera pratica è una procedura con la quale si attribuisce la posizione doganale di merce comunitaria ad una merce non comunitaria. Essa implica l’applicazione delle misure di politica commerciale, l’espletamento delle altre formalità previste per l’importazione di una merce, nonché l’applicazione dei dazi legalmente dovuti”. Nel caso in esame, l’origine (non preferenziale) Taiwan indebitamente attribuita alla merce consentiva all’importatore di evitare l’applicazione del dazio antidumping previsto invece per il silicio di origine cinese.
L’immissione in libera pratica era perciò irregolare in quanto scontata da titolo di origine non corrispondente alla realtà: risultavano pertanto non corrette sia le formalità previste per l’importazione, sia il pagamento dei relativi diritti doganali. L’introduzione della merce nel deposito IVA, successivamente effettuata, era, quindi, del tutto irregolare, stante la fraudolenta sottrazione della merce ai diritti doganali.
In riferimento all’IVA la sentenza di primo grado riteneva che l’emissione dell’autofattura non comprovasse il pagamento dell’IVA stessa, dato che l’IVA all’importazione, che deve essere versata all’atto dell’accettazione della dichiarazione doganale, identificato quale momento in cui l’obbligazione doganale sorge, appartiene al genere dei diritti doganali ed è assolutamente diversa dall’IVA al consumo, che viene assolta mediante l’auto fatturazione all’atto dell’estrazione della merce dal deposito IVA. Veniva considerata infondata anche la censura di erronea liquidazione di maggiori diritti dovuti perché l’irregolare introduzione del silicio nel deposito IVA non può comportare la duplicazione dell’IVA pagata in ogni caso alla asportazione della merce da detti depositi. Al riguardo la CTP rilevava che in materia di recupero dell’IVA all’importazione, assimilata ai diritti di confine, il procedimento non può che seguire la disciplina del codice doganale, restando affidato alla competente Agenzia delle Dogane, come sancito dalla Cassazione nella sentenza. n. 12581 del 2010, ove si afferma che “non è in realtà configurabile la dedotta duplicazione di imposta, non potendo l’avvenuto assolvimento, mediante auto fatturazione, dell’IVA interna, compensare il mancato pagamento dell’IVA all’importazione. Basti considerare la diversità del sistema di accertamento dei due tributi, poiché l’IVA all’importazione è diritto di confine che viene accertato e riscosso nel momento in cui si verifica il presupposto impositivo (importazione), con riversamento di una quota parte alla Comunità Europea, mentre l’IVA nazionale viene auto liquidata e versata in relazione alla massa di operazioni attive e passive poste in essere dal contribuente ed inserite nella dichiarazione periodica. Quanto all’auto fatturazione delle merci in uscita da un deposito IVA, trattasi di operazione “neutra” di compensazione dell’IVA nazionale a debito con quella a credito”. Al riguardo i primi giudici ricordavano anche la più recente sentenza della Cassazione del 3.2.2014, n. 2254.
Veniva respinto anche il secondo motivo di ricorso, relativo alla contestazione della insufficiente lavorazione subita dalla merce ai fini dell’acquisizione dell’origine Taiwan, ritenendo i primi giudici, da un lato, che le risultanze dell’indagine OLAF costituissero elementi di prova in procedimenti amministrativi e giudiziali, e dall’altro che i conteggi formulati da xxxxxx non avessero alcuna attinenza con l’eventuale prova di superamento della percentuale di lavorazione utile (35 %) per l’acquisizione dell’origine Taiwan.
Questa sentenza è stata impugnata da xxxxxx con ricorso in appello depositato il 7.5.2015, con il quale si chiede la sua totale riforma con vittoria di spese. Con il primo motivo viene censurata l’insufficienza delle indagini effettuate dall’OLAF per sostenere che le merci esportate provenivano dalla Cina per il fatto che le lavorazioni che avevano subito a Taiwan erano di poca consistenza. Con il secondo motivo viene contestata la responsabilità solidale di xxxxxx, in quanto lo spedizioniere doganale non può avere una responsabilità oggettiva per dichiarazioni non corrette di altri soggetti che lo stesso non può controllare. Con il terzo motivo l’appellante contesta di dover corrispondere l’IVA relativamente all’introduzione della merce nel deposito IVA ex art. 50 bis del d.l. 331/93 per il solo fatto che la merce, a posteriori, sarebbe risultata d’importazione irregolare.
L’Agenzia delle dogane si è costituita nel giudizio d’appello con memoria depositata il 22.6.2015, in cui si chiede, in via pregiudiziale la dichiarazione di inammissibilità dell’appello per l’assenza di specifici motivi d’impugnazione, e nel merito la conferma della decisione impugnata con vittoria di spese. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
La domanda pregiudiziale dell’Ufficio va respinta perché è indubbio che l’appellante abbia indicato le plurime ragioni per le quali contesta la fondatezza della sentenza di primo grado. Nel merito, l’appello di xxxxxx è infondato e va respinto.
Infondato, innanzitutto, è il primo motivo, con il quale l’appellante lamenta l’insufficienza delle indagini effettuate dall’OLAF per sostenere che le merci esportate provenivano dalla Cina, dato che le lavorazioni che avevano subito a Taiwan non facevano acquisire al silicio ridotto a grani un valore superiore del 35% rispetto al valore del silicio grezzo proveniente dalla Cina. Su questo punto entrambe le parti muovono dall’esame della giurisprudenza della Cassazione per la quale gli accertamenti compiuti a posteriori dagli organi esecutivi della Commissione europea per la lotta anti frode (OLAF) hanno piena valenza probatoria nei giudizi amministrativi e giudiziari, potendo di conseguenza essere posti a fondamento della pretesa degli Stati di recuperare i dazi sui quali erano state in precedenza riconosciute delle esenzioni; la pretesa azionata dagli avvisi di accertamento che si basino sulle “risultanze” degli atti ispettivi degli organismi anti frode va ritenuta, quindi, congruamente e sufficientemente dimostrata, salvo, però, che il contribuente fornisca la prova della sussistenza delle condizioni di applicabilità del regime agevolato. Nel caso di specie veniva importata una partita di silicio scortata da certificati d’origine emessi dalla Camera di Commercio di Taiwan. Poiché la merce proveniva da Taiwan, era stata immessa in libera pratica ed introdotta in deposito IVA. Questi vantaggi non sarebbero spettati, invece, se la merce fosse venuta dalla Cina, dato che per il silicio proveniente dalla Cina vigeva un dazio antidumping. Senonché, una indagine effettuata dall’OLAF volta a combattere pratiche fraudolente nel commercio internazionale del silicio in collaborazione con le istituzioni BOFT e DOI di Taiwan, era giunta alla conclusione che dal 2008 in avanti tutte le partite di silicio provenienti da Taiwan dopo la lavorazione in Taiwan di blocchi di materiale grezzo di silicio provenienti dalla Cina dovevano considerarsi di provenienza cinese e non di Taiwan, dato che la lavorazione non aveva fatto incrementare il valore del silicio almeno del 35%.
L’appellante ritiene che alle risultanze cui è pervenuta l’OLAF non possa riconoscersi alcun valore quale fondamento della pretesa del fisco italiano: l’OLAF, infatti, si sarebbe riferita solo alle indagini effettuate da altri organismi (Boft e Doi), modificandole a suo piacere; non avrebbe tenuto conto delle cospicue lavorazioni cui sarebbe stato sottoposto a Taiwan il silicio proveniente dalla Cina; i giudizi e le valutazioni di OLAF sarebbero contestabili ed i documenti in questione non sarebbero falsi, come sostenuto dalla stessa; Boft e Doi avrebbero condotto indagini lacunose. Questa Commissione ritiene che, in base alla giurisprudenza della Cassazione citata da entrambe le parti, le risultanze cui è pervenuto l’organismo di controllo europeo possono legittimare pretese fiscali degli Stati membri salvo che il contribuente dimostri l’esistenza dei requisiti che avrebbero legittimato trattamenti fiscali di favore. Nel caso di specie l’appellante avrebbe dovuto provare le circostanze di fatto dalle quali sarebbe potuto essere tratta la convinzione che il silicio proveniente dalla Cina e giunto a Taiwan subisse lavorazioni che ne elevassero il valore per più del 35%. E’ inutile discutere su come calcolare il superamento di questa percentuale, perché l’appellante, pur evidenziando carenze nelle indagini, non ha fornito alcuna prova di ciò che avveniva del silicio a Taiwan. xxxxxx si affida a ragionamenti e supposizioni, ma non ha fornito prove su questo fatto specifico, che è quello decisivo per godere o meno del trattamento fiscale di favore.
Infondato è pure il secondo motivo d’appello, che contesta la responsabilità solidale di xxxxxx, in quanto lo spedizioniere doganale non può avere una responsabilità oggettiva per dichiarazioni non corrette di altri soggetti che lo stesso non può controllare. Al riguardo l’appellante osserva che al CAD non può essere accollata una responsabilità oggettiva ed automatica solo per il fatto di aver presentato in dogana una dichiarazione a nome proprio, ma per conto altrui, qualora le irregolarità riscontrate non siano riconducibili a scarsa diligenza del Centro di assistenza doganale. Nel caso di specie l’appellante fa valere il fatto che non disponeva di strumenti utili per controllare l’esatta provenienza della merce importata, verificabile solo da parte di appositi organismi internazionali dotati di amplissimi poteri di indagine e riscontro; poiché il xxxxxx non era a conoscenza dell’irregolarità in questione ed aveva usato la normale diligenza, in applicazione di una copiosa giurisprudenza della Corte di Giustizia, della Corte di Cassazione e di varie Commissioni tributarie, si doveva escludere ogni suo dolo o colpa, e quindi ogni sua responsabilità. L’appellata controbatte su questo punto adducendo a sostegno della responsabilità varie norme e sentenze. La Commissione ritiene che, anche a voler dar credito alle sentenze che richiedono, per l’affermazione di una responsabilità solidale, una negligenza dell’operatore doganale nel vagliare il contenuto dei documenti che gli provengono da terzi e che egli stesso inserisce nella dichiarazione doganale, nel caso di specie sia rilevante il fatto che xxxxxx poteva conoscere, usando la normale diligenza, le informazioni che sul silicio dava il Consiglio Nazionale degli spedizionieri. CAD poteva conoscere, inoltre, la sentenza della Corte di Giustizia del 20.2.2010 intervenuta proprio sulla lavorazione dei blocchi di silicio, così come le sentenze delle commissioni tributarie triestine; nei suoi atti difensivi, infine, l’appellante sottolinea come il modus operandi dei paesi dell’estremo oriente siano diversi da quelli seguiti in Europa, dovendo tale consapevolezza indurla a maggior cautela. La responsabilità solidale di xxxxxx si fonda, quindi, su una sua colpa.
Infondato, infine, è pure il quarto motivo, concernente l’obbligo di versare l’IVA in conseguenza dell’accertamento dell’irregolarità dell’importazione. Nella fattispecie, il materiale di silicio e stato introdotto nel deposito IVA ex art. 50 bis d.l 331/93 e pertanto per esso l’IVA non doveva essere versata all’atto dell’introduzione, ma solo al momento dell’uscita dal deposito IVA. Cosi è pacificamente avvenuto, ma dopo l’indagine a posteriori compiuta dall’OLAF, l’Agenzia delle Dogane ha considerato l’importazione in questione come irregolare e quindi ha preteso il pagamento dell’IVA anche all’atto dell’introduzione della merce nel deposito, fermo restando il pagamento, avvenuto, all’atto dell’uscita.
La sentenza impugnata ha respinto il rilievo della contribuente basandosi sul disposto di cui all’art. 79 del Codice doganale, per il quale l’immissione in libera pratica attribuisce la posizione doganale di merce comunitaria ad una merce non comunitaria, con conseguente applicazione delle regole e procedure previste per la merce comunitaria; poiché nel caso di specie l’immissione in libera pratica era stata irregolare, in quanto scortata da titolo di origine non corrispondente alla realtà, le formalità per l’importazione risultavano non corrette e non corretto il pagamento dei diritti doganali, con obbligo del pagamento dell’IVA.
L’appellante ritiene che ogni problema al riguardo sia stato risolto dalla sentenza della Corte di Giustizia 17 luglio 2014, C-272/13, la quale avrebbe l’effetto di superare le pronunce della Cassazione del 2010 favorevoli all’Amministrazione.
La Commissione osserva che la sentenza della Corte di Giustizia sopra indicata concerne una situazione nella quale l’Amministrazione finanziaria aveva ritenuto che non fossero stati rispettati i presupposti per la posticipazione del versamento dell’IVA all’importazione “in quanto le merci non erano state fisicamente introdotte nel deposito fiscale” (n.12), mentre nella presente causa non si fa questione di inserimento reale o virtuale nel deposito, ma di un inserimento reale effettuato sulla scorta di certificati d’origine riconosciuti non veritieri da un organismo della Commissione europea. Per questa Commissione tale fondamentale difetto del certificato impedisce la produzione dei normali effetti legati ad una importazione di merce non europea debitamente certificata. Sarebbe troppo facile immettere la merce importata in libera pratica, con tutte le conseguenze, a prescindere dalla correttezza dei certificati di provenienza. E non per nulla l’appellata, nella memoria depositata il 10.6.2015, ricorda la Circolare 12/E/15 dell’Agenzia delle Entrate, che ha rimarcato la differenza tra le violazioni di carattere formale e le frodi, tali essendo le pratiche volte ad ottenere vantaggi fiscali non dovuti.
In conclusione, l’appello va respinto e la sentenza impugnata va confermata. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
PQM
la Commissione Tributaria Regionale di Trieste respinge l’appello di xxxxxx srl e conferma la sentenza impugnata. Condanna l’appellante a rifondere all’appellata le spese del secondo grado di giudizio, che liquida in euro 8.500,00.
Trieste, 9.11.2016
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