COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per la Calabria sentenza n. 699 sez. 1 depositata il 24 marzo 2017
Massima
In ipotesi di contestazione di operazioni soggettivamente inesistenti, l’amministrazione finanziaria deve fornire la prova, anche presuntiva, che l’operazione fatturata non sia intercorsa tra i soggetti indicati in fattura, nonché indicare gli elementi indiziari su cui si fonda la supposta conoscenza o conoscibilità del cessionario o committente sulla fittizietà delle operazioni. La CTR di Catanzaro, facendo proprio tale orientamento della Suprema Corte (ord. n. 19148/2016) – che attribuisce, tra l’altro, al contribuente l’onere di dimostrare la fonte legittima della detrazione e la sua mancanza di consapevolezza di partecipare ad un’operazione fraudolenta – respinge l’appello della contribuente che aveva utilizzato quale costo deducibile una fattura ritenuta, invece, dall’Amministrazione finanziaria relativa ad operazioni inesistenti. Nel caso di specie la fattura contestata sarebbe, infatti, stata pagata interamente in contanti e nessun elemento documentale a supporto della propria posizione era stato fornito dalla contribuente.
l. Con ricorso in appello depositato il 1/2/2016, la sig.ra M.E., rappresentata e difesa dall’avv. G.B., ha proposto appello avverso la sentenza n. 1863/01/15 del 9/6/2015, resa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Catanzaro, la quale ha rigettato il ricorso dalla medesima proposto avverso l’avviso di accertamento n. –/2014 relativa ad Irpef e diversi per i1 2008.
Deduce l’appellante la erronea motivazione della sentenza di primo grado in ordine alle condizioni del raddoppio dei termini di accertamento di cui all’art.43 del D.P.R. n.600/1973 in relazione all’art.2 del D.Lgs. n.74/2000; la assenza di prova del coinvolgimento della contribuente in un disegno fraudolento dell’impresa che avrebbe emesso le false fatture. Chiede quindi la riforma della sentenza di primo grado con dichiarazione di illegittimità o nullità dell’atto impositivo impugnati ed, in alternativa, che la C.T.R. dichiari non manifestamente infondata l’eccezione di incostituzionalità dell’art.2, comma 3 del D.Lgs. n. 128/2015 e dell’art. 11, comma 8 della Legge n. 23/2014.
Si è costituita in giudizio, depositando controdeduzioni l’11/2/2016, l’Agenzia delle entrate, confermando la ritualità dell’accertamento in quanto sussisterebbero elementi univoci e concordanti in ordine alla inesistenza delle operazioni per le quali la sig.ra M. avrebbe usufruito di indette detrazioni di imposta.
All’udienza del 15/3/2017 la causa è stata decisa.
2. Con il primo motivo di appello viene dedotto l’errar in iudicando della C.T.P. che avrebbe ritenuto operante il raddoppio del termine di accertamento in violazione della legislazione vigente. Il motivo è infondato.
La S.C. (Cass. civ., Sez V, 16 dicembre 2016, n.26037) ha ripercorso i criteri di operatività dell’istituto del “raddoppio” dei termini per come segue:
Gli artt. 43, terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57, terzo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972 (commi inseriti, rispettivamente, dal comma 24, per le imposte sui redditi, e 25, per l’IVA, dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, in vigore dal 4 luglio 2006), stabilivano che, «In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 del codice di procedura penaleper uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti [cioè, nel testo applicabile ratione temporis alperiodo d’imposta 2003: in caso di presentazione della dichiarazione, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione delladichiarazione, aumentato – nel caso di richiesta di rimborso dell’eccedenza d’imposta detraibile risultante dalla dichiarazione – di un periodo di tempopari a quello compreso tra il sedicesimo giorno successivo a quello di notificazione della richiesta di documenti da parte dell’ufficio e la data di consegnadi tali documenti; nonché, in caso di omessa presentazione della dichiarazione, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui ladichiarazione avrebbe dovuto essere presentata] sono raddoppiati relativamente al periodo d’imposta in cui è stata commessa la violazione». Il comma 26 del suddetto art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006, quale convertito dalla legge, prevede che «Le disposizioni di cui ai commi 24 [relativo alleimposte sui redditi] e 25 [relativo all’IVA] si applicano a decorrere dal periodo d’imposta per il quale alla data di entrata in vigore del presente decretosono ancora pendenti i termini di cui al primo e secondo comma dell’art. 43 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 [relativo alle imposte sui redditi] edell’art. 57 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 [relativo, come visto, all’IVA]».
Secondo la lettura di tali disposizioni data dalla sentenza della Corte costituzionale n. 247 del 2011 e dalla giurisprudenza della Cassazione (tra cui, in particolare, dalle pronunce n. 20043 e n. 9974 del 2015):
a) il raddoppio dei termini per l’accertamento si applica anche alle annualità d’imposta anteriori a quella pendente al momento dell’entrata in vigore delle disposizioni indicate (4 luglio 2006), perché queste, stabilendo il prolungamento dei termini non ancora scaduti alla data dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 223 del 2006, incidono necessariamente (protraendoli) sui termini di accertamento delle violazioni che si assumono commesse prima di tale data;
b) questo effetto deriva non dalla natura retroattiva delle norme, ma dall’applicabilità ex nunc della protrazione dei termini in corso, nel rispetto del principio secondo cui, di regola, «la legge non dispone che per l’avvenire» (art. 11, prima parte del primo comma, delle disposizioni preliminari al codice civile; analogamente, l’art. 3, comma l, della legge n. 212 del 2000, stabilisce che «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo»);
c) il “raddoppio” deriva dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen., indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia (in specie, Cass. n. 1171 del 2016), dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento penale del reato, restando irrilevante, in particolare, che l’azione penale non sia proseguita o sia intervenuta una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna (dato anche il regime del cosiddetto “doppio binario” tra giudizio penale e procedimento e processo tributario, evidenziato dall’art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000);
d) detto obbligo di denuncia sorge quando il pubblico ufficiale sia in grado di individuare con sicurezza gli elementi di un reato previsto dal d. lgs. n. 74 del 2000 (anche se sussistano cause di non punibilità impeditive della prosecuzione delle indagini penali ed il cui accertamento, al pari dell’antigiuridicità e del dolo, resta riservato all’autorità giudiziaria), non essendo sufficiente il generico sospetto di una eventuale attività illecita;
e) il medesimo obbligo opera in base a condizioni obiettivamente rilevabili, considerato che anche il pubblico ufficiale non potrebbe liberamente valutare se e quando presentare la denuncia, dovendola presentare prontamente, pena la commissione del reato di cui all’art. 361 cod. pen. per il caso di ritardo od omissione nella denuncia;
f) il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione dell’atto impositivo o di contestazione delle sanzioni, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo al riguardo una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza (cioè circa la sussistenza di una notitia criminis dotata di fumus) ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia fatto un uso pretestuoso e strumentale delle menzionate disposizioni al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento.
2.2. Inammissibile e, comunque, manifestamente irrilevante, si rivela poi la questione di legittimità costituzionale dell’art.2, comma 3 del D. Lgs. n. 128/2015 e dell’art.11, comma 8 della Legge n.23/2014 per carenza di interesse del ricorrente. Le disposizioni infatti riguardano gli accertamenti successivi alla entrata in vigore della norma, in ossequio al principio generale (e non contestato dall’appellante) della irretroattività della norma tributaria, stabilito dall’art. 3 della Legge n.212/2000 (c.d. Statuto dei contribuenti), il quale dispone che escluse le ipotesi di norme interpretative autentiche – le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo.
3. Con il secondo motivo di appello la contribuente rappresenta la sua totale estraneità ad un eventuale disegno criminoso dell’impresa “N.C. di C.A.“, la quale aveva emesso le fatture ritenute relative ad operazioni inesistenti da parte dell’Amministrazione tributaria e, quindi, non utilizzabili quali costi deducibili da parte della contribuente, con conseguente recupero di base imponibile.
4. Le spese e competenze di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate al valore medio tabellare, come in dispositivo, in favore dell’appellato, sulla base del valore dichiarato e giusta i parametri di cui al D.M. 55/2014, nonché secondo quanto previsto per i compensi in favoredell’Amministrazione finanziaria dall’art.15, comma 2-sexies del D. Lgs. n. 546/1992.
Trattandosi di appello notificato dopo il 30 gennaio 2013, segue l’accertamento dell’obbligo del soccombente di versare, a titolo di contributo unificato, un ulteriore importo pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115/2002 (cfr. Cass. Civ., SS.UU., 18 febbraio 2014 n. 3774).
La Commissione Tributaria Regionale per la Calabria, Sezione Prima, definitivamente pronunciando, disattesa ogni contraria istanza, richiesta, eccezione e deduzione,
l) dichiara inammissibile e, comunque, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.2, comma 3 del D. Lgs. n. 128/2015 e dell’art. 11, comma 8 della Legge n. 23/2014;
2) nel merito rigetta l’appello e conferma la sentenza di primo grado. Condanna l’appellante, alle spese e competenze di giudizio, liquidate m favore dell’Agenzia delle entrate, in euro 3.020,00, oltre IVA e CAP, oltre spese generali (15% sul compenso totale) per euro 453,00.
Ai sensi dell’art. 13, comma l quater, del D.P.R. n. 115/2002, accerta a carico dell’appellante l’obbligo di versare, a titolo di contributo unificato, un ulteriore importo pari a quello dovuto per l’impugnazione.
Così deciso in Catanzaro nella camera di consiglio del 15 marzo 2017.
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