Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 32100 depositata il 25 luglio 2023

fatture per operazioni inesistenti – prescrizione 

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa in data 7 luglio 2022, la Corte d’appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale di Padova, per quanto di interesse in questa sede, ha confermato la dichiarazione di penale responsabilità di T.M. e T.P., il primo per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, il secondo per i reati di emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti e di omessa dichiarazione, ha escluso l’ipotesi di fatture oggettivamente inesistenti, ha confermato la pena di due anni di reclusione per il primo e ha ridotto la pena per il secondo a due anni e tre mesi di reclusione.

Secondo quanto ricostruito dalla Corte d’appello, T.M., in data 28 settembre 2013, nella qualità di amministratore unico della società “R.I.I. s.r.l.”, al fine di evadere le imposte, avrebbe indicato elementi passivi fittizi nella dichiarazione relativa all’anno d’imposta 2012, utilizzando tre fatture di importo complessivamente pari a 328.200,40 euro, soggettivamente inesistenti perché apparentemente emesse dalla società “P.S.O. s.r.l.”, ma in realtà riferite all’attività professionale di T.P. (capo a). Sempre secondo quanto ricostruito dalla Corte d’appello, T.P.: 1) tra il 31 ottobre ed il 31 dicembre 2022, avrebbe emesso le tre fatture per operazioni soggettivamente inesistenti di cui al capo a (capo b); 2) fino al 30 dicembre 2013, emettendo le tre fatture per operazioni soggettivamente inesistenti di cui al capo b ad insaputa del legale rappresentante della società “P.S.O. s.r.l.”, avrebbe indotto per errore il medesimo a non presentare la dichiarazione relativa all’IVA per l’anno d’imposta 2012, con evasione di tale imposta pari a 56.690,40 euro (capo 3).

2. Hanno presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe T.P. e T.M., con un unico atto a firma dell’avvocato C.F., articolato in tre motivi. 

2.1 Con il primo motivo, si denuncia vizio di motivazione, anche per travisamento della prova, a norma dell’art. 606, comma 1, e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta inesistenza soggettiva delle fatture in contestazione.

Si deduce che la conclusione della sentenza impugnata in ordine alla natura soggettivamente fittizia delle fatture in contestazione è viziata innanzitutto perché si fonda sulla premessa della inoperatività della società “P.S.O. s.r.l.” nell’anno 2012. Si osserva che la stessa sentenza impugnata ha ammesso: a) la possibile operatività della società “P.S.O. s.r.l.” nel 2012, seppure «assai limitata»; b) l’esistenza di operazioni passive di detta società per l’anno 2012, risultanti dal c.d. “spesometro”; c) l’emissione di una fattura da parte della “P.S.O. s.r.l.” sul finire del 2011, in relazione ad attività compiute nell’ultima parte del 2011. Si rileva, poi, che gli elementi addotti a fondamento della conclusione della non operatività della società “P.S.O. s.r.l.” nell’anno 2012 sono dati di «valenza assolutamente neutrale». In particolare, si segnala che, come riconosce anche la Corte d’appello, T.P., negli anni in cui la “P.S.O. s.r.l.” era stata certamente operativa, era socio lavoratore di essa, ed aveva eseguito personalmente lavori di assistenza. Si osserva, poi, che: a) l’omesso versamento di imposte da parte della “P.S.O. s.r.l.” è stato un dato costante per tutta l’attività della stessa, non circoscritto al solo anno 2012; b) l’assenza di dipendenti in capo alla “P.S.O. s.r.l.” si spiega perché l’attività aziendale si incentrava quasi esclusivamente sull’attività dei singoli soci; c) l’esistenza di bonifici effettuati da T.M. a T.P. è stata comunque ritenuta inidonea dalla Corte d’appello a provare l’ipotesi della sovrafatturazione delle prestazioni; d) l’assenza di utenze telefoniche nella disponibilità di “P.S.O. s.r.l.” è in realtà circostanza affermata sulla base di un mancato accertamento.

2.2 Con il secondo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta consapevolezza in capo all’imputato T.M. dell’inesistenza soggettiva delle fatture in contestazione.

Si deduce che anche la conclusione della sentenza impugnata in ordine alla consapevolezza di T.M. della natura soggettivamente fittizia delle fatture in contestazione è viziata.

Si premette che la sentenza di primo grado era fondata sull’argomento del «non poteva non sapere», e non aveva risposto alle obiezioni difensive, secondo le quali che T.M. poteva ritenere le fatture anche soggettivamente veritiere perché: a) la “P.S.O. s.r.l.” era una realtà societaria operativa e tangibile; b) le prestazioni descritte in fattura erano compatibili con l’oggetto sociale della “P.S.O. s.r.l.”; c) T.P. era titolare del 49 % delle quote della “P.S.O. s.r.l.” come socio lavoratore; d) le fatture recavano dati e timbro della “P.S.O. s.r.l.”.

Si osserva, poi, che gli elementi valorizzati dalla sentenza di secondo grado in ordine alla consapevolezza di T.M. della natura soggettivamente fittizia delle fatture in contestazione costituiscono mere congetture. Si segnala che: a) l’esistenza di un rapporto parentale tra T.M. e T.P. non implica di per sé una piena condivisione della gestione degli affari, leciti o illeciti, a maggior ragione se questi sono posti in essere dal padre; b) Matteo  Tedeschi  ha  sempre  affermato  di  aver  intrattenuto,  quale legale Rappresentante della “R.I.I.  s.r.l.”, rapporti economici con la “P.S.O. s.r.l.” e non con il padre; e) i pagamenti effettuati da “R.I.I. s.r.l.” a T.P. sono elementi scarsamente significativi, in quanto ritenuti inidonei dalla Corte d’appello a provare l’ipotesi della sovrafatturazione delle prestazioni, tanto più a fronte dell’allegazione di prestiti precedentemente concessi dal padre al figlio; d) l’assenza di rapporti diretti tra T.M. ed il legale della “P.S.O. s.r.l.” sono meramente asseriti; e) sono scarsamente significativi i dati costituiti dall’assenza di pagamenti in favore della “P.S.O. s.r.l.”, e dall’assenza di documentazione dell’esistenza di rapporti tra questa e la “R.I.I. s.r.l.”, in quanto spiegabili con la posizione di T.P. come socio da lunghissimo tempo della “P.S.O. s.r.l.”.

2.3 Con il terzo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 597 cod. proc. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla conferma del trattamento sanzionatorio, nonostante l’esclusione dell’ipotesi di una parziale sovrafatturazione delle prestazioni.

Si deduce che illegittimamente la sentenza impugnata ha mantenuto immutata la pena, nonostante abbia escluso, con riferimento ad entrambi gli imputati, l’accusa di parziale sovrafatturazione delle prestazioni, ritenuta invece accertata in primo grado. Si rappresenta che le pene principali ed accessorie, in primo grado, erano state quantificate in misura superiore al minimo edittale «in ragione dell’entità del danno all’Erario e dei correlati indebiti benefici fiscali», e che l’esclusione della parziale sovrafatturazione delle prestazioni ha ridotto l’ammontare delle imposte asseritamente evase da 99.656,40 euro, determinato dalla somma di IVA ed IRES, a 56.690,40 euro, corrispondente alla sola IVA. Si precisa che la riduzione della pena in appello nei confronti di T.P. è stata determinata dall’esclusione della continuazione ritenuta in primo grado in relazione alla emissione delle tre fatture ritenute mendaci. Si osserva che l’esclusione della punibilità in relazione ad un apprezzabile segmento della condotta impone una motivata rideterminazione della pena (si citano in proposito: Sez. 2, n. 6739 del 30/01/2020; Sez. 2, n. 51183 del 05/11/2019; Sez. 6, n. 26083 del 14/05/2010; Sez. 3, n. 13716 del 07/03/2006). Si aggiunge che la sentenza impugnata non ha fornito alcuna motivazione per mantenere immutata l’entità della sanzione. 

3. Nell’interesse dei ricorrenti, l’avvocato C.F. ha presentato memoria di replica alle conclusioni del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, il quale ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.

Nella memoria, si contestano le argomentazioni del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, ribadendo che: a) la sentenza impugnata non ha escluso una «assai limitata» operatività della “P.S.O. s.r.l.”, incorrendo così in una motivazione perplessa; b) i trasferimenti di denaro da T.M. a T.P. sono stati ritenuti dalla Corte d’appello elementi non idonei per dimostrare l’ipotesi di parziale sovrafatturazione delle prestazioni, e comunque sono stati documentalmente giustificati quale restituzione di un prestito; c) l’esclusione della punibilità in relazione ad un apprezzabile segmento della condotta in appello, in difformità a quanto ritenuto in primo grado, impone comunque una rideterminazione della pena in ragione della diversa offensività del fatto.

CONSIDERATO IN DIRITTO 

1. Entrambi i ricorsi sono fondati limitatamente alle censure concernenti la determinazione del trattamento sanzionatorio, mentre sono inammissibili nel resto, per le ragioni di seguito precisate.

2. Diverse da quelle consentite in sede di legittimità, e comunque manifestamente infondate, sono le censure esposte nel primo motivo, le quali contestano la ritenuta inesistenza soggettiva delle tre fatture formalmente emesse nel 2012 da “P.S.O. s.r.l.” verso “R.I.I. s.r.l.”, deducendo che sono contraddittorie e comunque manifestamente illogiche le conclusioni della sentenza impugnata in ordina alla inoperatività di “P.S.O.” nel 2012, in quanto fondate su dati inesatti o comunque privi di gravità e precisione.

2.1 La Corte d’appello ritiene che le tre fatture emesse da “P.S.O. s.r.l.” (di seguito indicata come “P.S.O. s.r.l.”) verso “R.I.I. s.r.l.” (di seguito indicata come “R.I.I. s.r.l.”) il 31 ottobre 2012, il 30 novembre 2012 ed il 31 dicembre 2012, per un importo complessivamente pari a 328.200,40 euro, di cui 271.240,00 euro a titolo di imponibile e 56.960,00 a titolo di IVA, debbano ritenersi relative ad operazioni soggettivamente inesistenti, perché in realtà riferibili a T.P., soggetto ben distinto da “P.S.O. s.r.l.”, e del tutto sprovvisto di poteri gestori e rappresentativi per conto di tale società.

Numerosi sono gli elementi che la Corte d’appello pone a fondamento di questa conclusione.

La sentenza impugnata, innanzitutto, rileva che le tre fatture, relative ad attività di consulenza, sono state contabilizzate nel registro acquisiti di “R.I.I. s.r.l.”, ossia la società ricevente, mentre delle stesse non vi è traccia nella contabilità di “P.S.O. s.r.l.”, ossia la società formalmente emittente.

Segnala, poi, che “P.S.O. s.r.l.”: a) non ha stipulato alcun contratto scritto con “R.I.I. s.r.l.”, nemmeno con riferimento alle prestazioni formalmente fatturate; b) non ha ricevuto alcun pagamento da “R.I.I. s.r.l.”; c) non ha esperito alcuna azione legale per il recupero delle somme indicate in fattura, né ha conservato documenti nei quali fossero indicate le ragioni dei mancati pagamenti; d) nel 2012 ha emesso unicamente le tre fatture in contestazione, la prima il 31 ottobre, la seconda il 30 novembre e la terza il 31 dicembre; e) nel 2011 ha emesso unicamente una fattura a saldo, e per modestissimo importo, con riguardo a lavori affidati nel 2007 ed eseguiti quasi completamente nel 2008; f) non ha presentato alcuna dichiarazione fiscale dal 2012; g) negli anni 2010 e 2011 ha presentato il modello unico privo di dati contabili e senza quadri IVA; h) ha presentato l’ultima dichiarazione IVA nel 2008; i) non ha mai effettuato versamenti di imposta a titolo di IRES, IVA o IRAP; I) secondo quanto risulta dagli elenchi del c.d. “spesometro”, ha effettuato nel 2012 modestissime operazioni passive, mentre non ha effettuato nessuna operazione negli anni 2010, 2011, 2013 e 2014; m) non ha utenze intestate per forniture di energia o altri servizi dal 2008; n) non ha dipendenti; o) ha ingenti ruoli a carico.

Rappresenta, quindi, che le somme pagate dai clienti di “R.I.I. s.r.l.” per le prestazioni da questa ricevute, ed aventi ad oggetto le attività cui si riferiscono le fatture ritenute mendaci, sono in pochi giorni affluite dai conti di questa società al conto personale di T.M., con la causale “Prelevamenti soci”, e, subito dopo, quest’ultimo ha effettuato più bonifici, senza alcun titolo giustificativo, in favore del padre e della madre o in pagamento di spese nell’interesse dei genitori, per un importo complessivo pari a 56.760,49 euro, sostanzialmente corrispondente all’IVA per le tre fatture, pari a 56.690,40 euro. Aggiunge, in proposito, che inattendibile è la spiegazione dei versamenti come restituzione di prestiti pregressi, sia perché prospettata solo a dibattimento, sia perché non indicata nei bonifici e comunque priva di qualunque riscontro documentale.

Rileva, ancora, che: a) i clienti di “R.I.I. s.r.l.” per le prestazioni da questa ricevute, ed aventi ad oggetto le attività cui si riferiscono le consulenze formalmente fatturate da “P.S.O. s.r.l.”, si sono relazionati unicamente con la persona  di Pierpaolo  Tedeschi  e mai con  la società “P.S.O.  s.r.l.”,  il cui amministratore unico e legale rappresentante era Maurizio Meneghetti, secondo quanto dichiarato non solo da quest’ultimo, ma anche dai testi a difesa; b) le fatture formalmente emesse da “R.I.I. s.r.l.” sono state formate personalmente da T.P., come ammesso dal medesimo anche nel corso dell’esame; c) T.P. non aveva poteri gestori e di rappresentanza con riguardo a “P.S.O. s.r.l.”, come emerge sia dalla visura storica dello statuto di tale società, sia dalla mancata produzione di una qualunque procura scritta; d) “P.S.O. s.r.l.” è rimasta del tutto estranea alle prestazioni di consulenza oggetto delle fatture formalmente emesse in suo nome a favore di “R.I.I. s.r.l.”

2.2 Le conclusioni della Corte d’appello sulla inesistenza delle operazioni indicate dalle fatture sotto il profilo soggettivo, perché formalmente emesse da “P.S.O. s.r.l.”, ma non riferibili a tale società, sono immuni da vizi.

La sentenza impugnata, infatti, ha posto a base del suo assunto elementi precisi e congrui, pienamente resistenti alle obiezioni formulate nel ricorso. Ed infatti, in particolare, la Corte d’appello di Venezia ha indicato, sulla base di una vastissima gamma di elementi gravi, precisi e concordanti, quali quelli riassunti in precedenza al § 2.2, sia perché la società “P.S.O. s.r.l.” sia da ritenersi sostanzialmente inattiva nel 2012, sia, comunque e specificamente, perché le fatture; pur formalmente emesse da questa società, sono riferibili non ad essa, ma a T.P., soggetto ben distinto da tale ente, e privo di poteri gestori e rappresentativi per conto dello stesso.

Le censure esposte nel ricorso, per quanto estremamente articolate, non evidenziano vizi logici o giuridici in proposito, ma, di fatto, propongono una diversa lettura delle risultanze istruttorie.

3. Diverse da quelle consentite in sede di legittimità, e comunque manifestamente infondate, sono anche le censure formulate nel secondo motivo, le quali contestano la ritenuta consapevolezza di T.M. della fittizietà soggettiva delle operazioni indicate nelle fatture in contestazione, deducendo che gli elementi valorizzati in proposito dalla sentenza di appello sono tali da fondare mere congetture.

3.1 La Corte d’appello ritiene che T.M. fosse consapevole dell’inesistenza, sotto il profilo soggettivo, delle operazioni indicate nelle tre fatture emesse da “P.S.O. s.r.l.” verso “R.I.I. s.r.l.” nel 2012, perché in realtà riferibili a T.P., sulla base di una pluralità di elementi.

La sentenza impugnata premette che vi era un interesse di “R.I.I. s.r.l.”, il cui legale rappresentante e socio per l’80 % del capitale sociale era T.M., alle operazioni illecite, perché poteva in particolare detrarre l’IVA indicata nelle fatture per operazioni soggettivamente inesistenti.

Rappresenta, poi, che elementi indicativi della consapevolezza di T.M. del mendacio documentale sotto il profilo soggettivo, in particolare, sono: a) il rapporto di parentela, e precisamente di filiazione, con T.P., autore delle false fatture e reale esecutore delle prestazioni in queste indicate; b) il mancato pagamento delle somme indicate nelle fatture da “R.I.I. s.r.l.” a “P.S.O. s.r.l.”, nonostante l’entità delle somme dovute, pari, nel complesso, a 328.200,40 euro; c) l’effettuazione dei bonifici al padre ed alla madre per un importo complessivo pari a 56.760,49 euro, sostanzialmente corrispondente all’IVA per le tre fatture, pari a 56.690,40 euro, subito dopo aver incassato le somme dai terzi per le prestazioni effettuate avvalendosi delle attività di consulenza indicate nelle tre fatture; d) l’ammissione del medesimo di non essere in grado di rendere le prestazioni ai terzi, e di doversi appoggiare al padre; f) l’inesistenza di rapporti diretti con l’amministratore unico di “P.S.O. s.r.l.”, società formalmente emittente le fatture; g) l’inesistenza di qualunque documentazione a riscontro dell’esistenza di rapporti contrattuali sulla cui base erano state emesse le tre fatture tra “R.I.I. s.r.l.”, da lui amministrata, e “P.S.O. s.r.l.”; h) le complessive anomalie dell’operazione.

3.2 Le conclusioni della Corte d’appello sulla consapevolezza di T.M. dell’inesistenza delle operazioni indicate dalle fatture sotto il profilo soggettivo, perché formalmente emesse da “P.S.O. s.r.l.”, ma in realtà riferibili ad altro soggetto, e precisamente al padre Pierpaolo, sono immuni da vizi.

La sentenza impugnata, infatti, anche a base di questo risultato probatorio, ha indicato una pluralità di elementi precisi e congrui. Anche con riguardo a tale profilo, inoltre, le censure proposte con il ricorso non evidenziano vizi logici o giuridici, ma, di fatto, propongono una diversa lettura delle risultanze istruttorie.

4. Fondate, invece, sono le censure enunciate nel terzo motivo, nella parte in cui contestano la determinazione del trattamento sanzionatorio nei confronti di entrambi gli attuali ricorrenti sotto il profilo del difetto di motivazione.

4.1 La sentenza impugnata ha irrogato: a) nei confronti di T.P. la pena di due anni e tre mesi di reclusione, fissando la pena base per il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti in due anni di reclusione e l’aumento per il reato di omessa dichiarazione in tre mesi di reclusione; b) nei confronti di T.M. la pena di due anni di reclusione per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni

In particolare, la sentenza impugnata ha confermato la misura della pena determinata in primo grado per il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti nei confronti di T.P. e per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti nei confronti di T.M..

L’integrale conferma di queste pene, poi, è avvenuta sebbene in primo grado le fatture fossero state ritenute inesistenti non solo sotto il profilo soggettivo, ma anche, in parte, sotto il profilo oggettivo. La motivazione in proposito non si è confrontata specificamente con la “riduzione” dell’addebito.

4.2 Ciò posto, deve rilevarsi innanzitutto che la conferma della misura della pena non può ritenersi impedita dal divieto di reformatio in peius di cui all’art. 597, comma 3, cod. proc. pen., o, meglio, dall’obbligo di “riforma in meglio” di cui all’art. 597, comma 4, cod. proc. pen.

Invero, sia il delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti, sia il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti sono e restano un unico reato, anche se le fatture in origine reputate per operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti, sono poi ritenute solo soggettivamente inesistenti. Non solo, infatti, tanto l’art. 2, quanto l’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000 fanno riferimento a «fatture o altri documenti per operazioni inesistenti», senza specificare il termine di riferimento, oggettivo o soggettivo, del mendacio. Più in generale, l’art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 74 del 2000, nell’ambito delle «definizioni», accomuna in un’unica categoria le fatture per operazioni inesistenti, sia quelle tali per ragioni oggettive, sia quelle tali per ragioni soggettive, precisando: «per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi».

Di conseguenza, l’esclusione della fittizietà sotto il profilo oggettivo delle fatture, ferma restando la fittizietà sotto il profilo soggettivo, non equivale all’esclusione di un reato (o di una circostanza), come invece richiede l’art. 597, comma 4, cod. proc. pen. perché «la pena complessiva irrogata [sia] corrispondentemente diminuita».

4.3. L’inapplicabilità, nella specie, delle disposizioni di cui all’art. 597, commi 3 e 4, cod. proc. pen. non implica, però, l’assenza di uno specifico obbligo di motivazione ai fini della determinazione della pena, che tenga conto della diversa ricostruzione del fatto.

Invero, la pena irrogata dal Tribunale per i reati di cui all’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000 nei confronti di T.P. e di cui all’art. 2 medesimo d.lgs. nei confronti di T.M., in entrambi i casi in misura superiore al minimo edittale applicabile, era stata determinata con riguardo a fatti che, almeno prima facie, si presentavano di maggiore gravità, sotto il profilo oggettivo, rispetto a quelli ritenuti in appello, per la probabile maggiore entità dell’imposta evasa.

Di conseguenza, la Corte d’appello avrebbe dovuto motivare specificamente al fine di indicare perché la gravità dei fatti per i quali è stata confermata la condanna rimane immutata, o, comunque, perché la pena irrogata per quei reati deve restare identica nonostante la minore gravità oggettiva degli stessi.

5. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio limitatamente alla determinazione del trattamento sanzionatorio.

Va infatti precisato che le statuizioni in ordine alla responsabilità degli imputati diventano irrevocabili, a norma dell’art. 624 cod. proc. pen., anche perché non è decorso il termine necessario a prescrivere i reati. A questo proposito, va precisato che: a) il reato di dichiarazione fraudolenta, ascritto a T.M., è stato commesso il 28 settembre 2013; b) il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, ascritto a T.P., è stato consumato il 31 dicembre 2012, data di emissione dell’ultima fattura mendace; c) il reato di omessa dichiarazione, ascritto a T.P., è stato commesso il 30 dicembre 2013. Va inoltre rilevato che il tempo necessario a prescrivere questi reati è pari a dieci anni, anche in considerazione di quanto previsto dall’art. 17, comma 1-bis, d.lgs. n. 74 del 2000 e che deve inoltre tenersi conto della sospensione della prescrizione dal 28 gennaio 2021 al 25 marzo 2021 determinato da rinvio del processo per legittimo impedimento dell’imputato T.P. e dal 9 marzo all’11 maggio 2020, determinato da rinvio del processo per la pandemia da COVID-19.

Il Giudice del rinvio si rideterminerà in ordine alla misura delle pene da irrogare ai due attuali ricorrenti, evitando di incorrere nei vizi motivazionali rilevati ed indicati in precedenza al § 4.3.

P.Q.M. 

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio con riferimento ad entrambi i ricorrenti con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte d’appello di Venezia. Dichiara inammissibili nel resto i ricorsi.