CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 06 settembre 2017, n. 20859
Imposte dirette – IRPEF – Accertamento – Vendita immobile – Plusvalenza – Contenzioso tributario
Rilevato che
1. in fattispecie relativa ad avviso di accertamento per Irpef da plusvalenza nella vendita di immobile nell’anno d’imposta 2007, per mancato riconoscimento di spese incrementative portate da due fatture emesse nei confronti della società S. s.a.s., il contribuente S. G. censura la sentenza impugnata — di conferma della decisione di prime cure — per “omesso esame circa fatti decisivi per il giudico che sono stati oggetto di discussione tra le parti (art. 360, n. 5, c.p.c.) “, con riguardo alle pattuizioni con la predetta società di cui alla scrittura privata del 14.03.2003 ed alla inesistenza, “agli indirizzi … erroneamente indicati dall’emittente le fatture .. di alcun immobile di proprietà della medesima società, che le aveva effettivamente pagate in quanto “parte del completando edificio di proprietà del S. G. sarebbe stata destinata alla locazione in favore della società S. sas”;
2. all’esito della camera di consiglio, il Collegio ha disposto la motivazione in forma semplificata.
Considerato che
3. il ricorso presenta plurimi profili di inammissibilità;
4. in primo luogo, trattandosi di giudizio il cui ricorso in appello è stato depositato successivamente all’11 settembre 2012, sussiste la preclusione di cui all’art. 348-ter, ultimo comma, c.p.c, avendo questa Corte chiarito che “le disposizioni sul ricorso per cassazione, di cui all’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, circa il vizio denunciabile ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. ed i limiti d’impugnazione della “doppia conforme” ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 348- ter cod. proc. civ., si applicano anche al ricorso avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale, atteso che il giudizio di legittimità in materia tributaria, alla luce dell’art. 62 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, non ha connotazioni di specialità. Ne consegue che l’art. 54, comma 3-bis, del d.l. n. 83 del 2012, quando stabilisce che “le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano al processo tributario di cui al d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546″, si riferisce esclusivamente alle disposizioni sull’appello, limitandosi a preservare la specialità del giudizio tributario di merito” (Cass. S.U., 8053/14 e 8054/14);
5. in ogni caso, i fatti allegati non paiono decisivi, poiché il giudice a quo, dopo aver esaminato il materiale probatorio acquisito agli atti — ed in particolare due fatture emesse dalla impresa edile “S. Domenico” per lavori eseguiti a favore della S. s.a.s., ed una terza per lavori eseguiti sul ‘ fabbricato di Viale Europa” del S. G. — ha ritenuto che “il presunto errore di intestazione non è in alcun modo provato, né è provato concretamente che i lavori ivi contabilizzati siano stati effettivamente eseguiti in viale Europa e non nei due diversi siti indicati nelle fatture stesse”, in tal senso deponendo “anche la diversa aliquota IVA (20 e 4 %) applicati”;
6. a ben vedere, dunque, le contestazioni mosse dal ricorrente attengono alla valutazione dei fatti e del materiale probatorio da parte dei giudici di secondo grado — peraltro in modo conforme ai giudici di prime cure — in palese contrasto con il granitico orientamento di questa Corte per cui il controllo motivazionale non può integrare una revisione del ragionamento decisorio, altrimenti risolvendosi in una riformulazione del giudizio di fatto, incompatibile con il giudizio di legittimità, poiché il ricorso per cassazione rappresenta un rimedio impugnatorio a critica vincolata e cognizione determinata dall’ambito dei vizi dedotti, e non uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio di merito nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito la selezione degli elementi del suo convincimento (cfr., explimmis, Cass. S.U. n. 7931/13; Cass. nn. 14233/15, 959/15, 26860/14, 12264/14);
7. alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in favore dell’Agenzia delle entrate in Euro 5.6000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13.
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