CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 luglio 2017, n. 16912
Accertamento – Irpef – Redditometro – Art. 38, d.P.R. 600/1973
Rilevato che
Con sentenza in data 28 maggio 2015 la Commissione tributaria regionale della Campania accoglieva parzialmente l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, ufficio locale, avverso la sentenza n. 6113/201/14 della Commissione tributaria provinciale di Napoli che aveva accolto il ricorso di M.S. contro l’avviso di accertamento IRPEF ed altro 2007. La CTR osservava in particolare che la sentenza appellata aveva erroneamente applicato la disposizione legislativa sull’accertamento “redditometrico” con riguardo ai “beni-indice” considerati nell’atto impositivo impugnato, mentre ne affermava la correttezza con riguardo alla spesa per il mutuo co-intestato alla moglie del contribuente.
Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione il M. deducendo un motivo unico.
Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.
Il ricorrente ha presentato memoria.
Considerato che
Con l’unico articolato motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 38, d.P.R. 600/1973, poiché la CTR ne ha applicato erroneamente il contenuto normativo, per un verso considerando i redditi successivi all’annualità fiscale oggetto dell’avviso di accertamento, per altro verso non considerando invece il necessario presupposto dello scostamento biennale del 25% dei redditi dichiarati dai risultati del “redditometro” e comunque nemmeno valorizzando il dato del reddito complessivo della famiglia del contribuente.
La censura è in parte inammissibile ed in parte infondata.
Anzitutto vi è da rilevare che uno dei profili del mezzo dedotto concerne il presupposto dell’atto impositivo consistente nella “biennalità” dello scostamento del reddito dichiarato da quello accertamento con impiego del redditometro, in base alla disciplina di tale metodologia accertativa applicabile ratione temporis.
Tuttavia dalla sentenza e, soprattutto, dal ricorso non emerge se tale profilo abbia costituito motivo dell’impugnazione dell’avviso di accertamento, giacchè la prima non ne da atto né in parte narrativa né in parte motiva.
Tale circostanza è determinante, poiché la mancata deduzione di tale vizio dell’atto impositivo in sede di ricorso di primo grado ovvero anche la sua mancata riproposizione quale motivo di gravame alla sentenza emessa in quel grado ne precluderebbe evidentemente l’esame in questa sede.
Va dunque affermata l’inammissibilità della censura in parte qua, dovendosi ribadire che «Il ricorso per cassazione – per il principio di autosufficienza – deve contenere in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito, sicché il ricorrente ha l’onere di indicarne specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso è fondato mediante la riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del documento cui corrisponde l’indiretta riproduzione» (Sez. 5, Sentenza n. 14784 del 15/07/2015, Rv. 636120 – 01).
Gli altri profili del motivo di ricorso sono invece infondati.
La CTR infatti, diversamente da quanto afferma il ricorrente, non ha considerato i “beni-indice” (possesso di autovettura; onere finanziario per acquisto immobiliare) utilizzati ai fini dell’accertamento redditometrico in esame quali “incrementi patrimoniali”, bensì sotto il profilo, impiegato nell’accertamento stesso, della “capacità di spesa” ossia valutando l’incongruità delle spese sostenute per detti beni rispetto al reddito dichiarato.
Peraltro, diversamente da quanto afferma il ricorrente, ha tenuto conto del contributo reddituale del coniuge del ricorrente stesso, conseguentemente accogliendone parzialmente il gravame.
Quindi conclusivamente si deve osservare che, salvo il profilo di censura inammissibile per difetto di autosufficienza, il giudice di appello ha correttamente applicato la normativa evocata, anche sotto il profilo della portata presuntiva del redditometro, con una valutazione di merito che non è ulteriormente sindacabile in questa sede.
Il ricorso va dunque rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 2.300 oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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