CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 novembre 2017, n. 28260
Intermediazione illecita di manodopera – Lavoratore occupato presso ente pubblico non economico – Configurazione del rapporto di lavoro in capo all’ente – Esclusione – Divieto sancito dall’art. 36 del D.lgs. n. 165 del 2001 – Svolgimento di attività in forma imprenditoriale – Irrilevanza – Responsabilità solidale del committente per le obbligazioni scaturenti dal rapporto di lavoro – Sussiste
Rilevato che
1. la Corte di Appello di Catanzaro ha accolto in minima parte l’appello proposto dall’ARSSA – Agenzia Regionale per lo Sviluppo e per i Servizi in Agricoltura, avverso la sentenza del Tribunale di Cosenza che, adito da P. M., aveva ravvisato nell’appalto di servizi intercorso fra l’Agenzia e la C. s.r.l. una intermediazione illecita di manodopera; aveva dichiarato, ex art. 1 comma 4 della legge n. 1369/1960, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra il ricorrente e l’ARSSA; aveva condannato quest’ultima, in via solidale con la società appaltatrice, al pagamento della somma di € 7.000,00, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale cagionato al lavoratore dalla condotta vessatoria tenuta nei suoi confronti dal responsabile del Centro F. di San Giovanni in Fiore, al quale il M. era stato assegnato per svolgere le mansioni di capo barista;
2. la Corte territoriale ha evidenziato che l’Azienda aveva svolto attività di natura imprenditoriale, assimilabile a quella alberghiera, avvalendosi della manodopera fornita dalla s.r.l. C., la quale, con riferimento alla gestione dei rapporti di lavoro, si era limitata a corrispondere le retribuzioni al personale, diretto e controllato dalla committente, che a tal fine si era avvalsa del soggetto preposto di fatto alla gestione del Centro;
3. il giudice di appello ha ritenuto provata anche la denunciata condotta vessatoria, consistita nell’assegnazione di mansioni dequalificanti, nelle continue e ingiustificate modifiche dell’orario di lavoro, nella deliberata emarginazione del M.;
4. l’impugnazione è stata accolta solo limitatamente alla data di instaurazione del rapporto, iniziato il 23 marzo 2000 e non il 6 marzo 2000:
5. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’ARSSA sulla base di tre motivi, ai quali ha opposto difese P. M. con tempestivo controricorso;
6. la C. s.r.l. è rimasta intimata
Considerato che
1. la ricorrente denuncia ex art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ. violazione e falsa applicazione della legge n. 1369 del 1960, della L.R. Calabria n. 15 del 1993, degli artt. 2697 e 2700 cod. civ., degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., dell’art. 36 del d.lgs. n. 29 del 1993, dell’art. 97 Cost. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, perché la Corte territoriale avrebbe errato innanzitutto nel valorizzare, per affermare la natura imprenditoriale dell’attività curata dal Centro F., i principi di efficienza e di economicità sanciti dalla legge regionale, posto che detti principi altro non sono se non specificazione di quello costituzionale del buon andamento della P.A.;
1.1. l’Agenzia aggiunge che doveva essere esclusa la intermediazione illecita di manodopera in quanto il contratto di appalto era stato stipulato con la società C., dotata di una propria organizzazione, e capace di assicurare la qualità del servizio, del quale aveva assunto la piena responsabilità;
1.2. la ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui non ha considerato che tutte le segnalazioni del committente si riferivano a inefficienze del servizio appaltato e, quindi, non valevano ad escludere la genuinità dell’appalto, ben potendo il committente predeterminare le modalità temporali e tecniche di esecuzione dell’opera;
1.3. ad avviso dell’ARSSA non poteva esserle addebitata la presunta condotta mobbizzante, sia perché non si era instaurato il rapporto di lavoro con il M., sia in quanto doveva essere ammessa anche la prova richiesta sulle circostanze dedotte nella memoria difensiva della resistente;
1.4. la Corte territoriale, inoltre, non poteva dichiarare la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato giacché in caso di violazione del divieto di intermediazione da parte di ente pubblico non economico opera comunque il principio secondo cui il rapporto di impiego può costituirsi solo previo espletamento di procedura concorsuale;
1.5. la ricorrente sostiene che la tutela del lavoratore, ove il rapporto sia nullo per contrasto con norma imperativa di legge, è assicurata solo dall’art. 2126 cod. civ. e, quindi, il prestatore ha diritto unicamente al pagamento della retribuzione ed alla regolarizzazione contributiva;
2. il ricorso presenta profili di inammissibilità ed è, comunque, infondato nella parte in cui denuncia la violazione della legge n. 1369 del 1960 perché la sentenza impugnata, quanto alla applicabilità della legge citata anche agli enti pubblici non economici, si è attenuta al principio di diritto, già affermato da questa Corte, secondo cui il comma 3 dell’art. 1 trova applicazione nei confronti della Pubblica Amministrazione allorquando questa svolga attività essenzialmente imprenditoriale (cfr. Cass. 22.5.2014 n. 11383; Cass. 13.3.2013 n. 6531; Cass. 13.8.2004 n. 15783);
2.1. la sentenza impugnata ha evidenziato al riguardo che dalla documentazione prodotta e dalle dichiarazioni rese dai testi emergeva che il Centro F. svolgeva attività assimilabile ad un’ordinaria attività alberghiera, non riconducibile alle finalità di ricerca e di sperimentazione indicate dalla Legge Regionale n. 15 del 1993 fra i compiti istituzionali dell’ente;
2.2. il ricorso non coglie pienamente la ratio della decisione, perché contesta solo il richiamo contenuto nella motivazione della sentenza ai principi di efficienza e di economicità, quando, in realtà, la Corte territoriale ha escluso che la gestione del Centro potesse essere ricondotta alla promozione ed istituzione di “campi sperimentali, aziende dimostrative, campi di orientamento produttivo” menzionati dalla legge istitutiva dell’ente, e a dette conclusioni è pervenuta all’esito della valutazione delle risultanze istruttorie, non censurabile in questa sede trattandosi di accertamento di fatto riservato al giudice di merito;
3. si configura intermediazione illecita “ogni qual volta l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo eventualmente in capo a lui, datore di lavoro, i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo” (Cass. 6 aprile 2011 n. 7898 e negli stessi termini fra le più recenti Cass. 28 marzo 2013 n. 7820).
3.1. questa Corte ha, poi, osservato che, una volta accertata l’estraneità dell’appaltatore alla organizzazione e direzione dei prestatori di lavoro nell’esecuzione dell’appalto, è del tutto ultronea qualsiasi questione inerente il rischio economico e l’autonoma organizzazione del medesimo, né rileva che l’impresa appaltatrice sia effettivamente operante sul mercato, atteso che, se la prestazione risulta diretta ed organizzata dal committente, per ciò solo si deve escludere l’organizzazione del servizio ad opera dell’appaltante (in questi termini Cass. n. 11720/2009; Cass. n. 17444/2009; Cass. n. 9624/2008);
3.2. a detti principi di diritto si è attenuto il giudice di appello che, valutate le deposizioni rese dai testi, ha evidenziato che l’intera gestione del Centro e del personale allo stesso addetto era curata dal committente mentre la C. s.r.l. “si limitava a fornire al proprio personale i detersivi necessari per la pulizia e alla erogazione mensile dello stipendio”;
3.3. il ricorso è infondato nella parte in cui, per escludere la intermediazione illecita di manodopera, fa leva sulle previsioni del contratto di appalto e sull’assunzione del rischio di impresa, ossia su circostanze non idonee a dimostrare la asserita genuinità dell’appalto, ed è inammissibile per il resto, in quanto contrappone una diversa valutazione delle risultanze processuali all’accertamento di merito compiuto dalla Corte territoriale, non sindacabile in questa sede;
3.4. occorre ribadire al riguardo che l’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., nel testo applicabile alla fattispecie ratione temporis, non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, poiché il controllo di logicità del giudizio di fatto “non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità” ( fra le più recenti Cass. 9.1.2014 n. 91 e Cass. 28.11.2014 n. 25332);
4. è inammissibile il motivo con il quale la ricorrente si duole della mancata ammissione della prova testimoniale che, a suo dire, avrebbe riguardato circostanze idonee a dimostrare la insussistenza della condotta vessatoria denunciata dal M. e la non addebitabilità della stessa a personale dell’ARSSA;
4.1. la giurisprudenza di questa Corte, infatti, è consolidata nell’affermare che qualora il ricorrente, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio ha l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che la Corte deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (cfr. Cass. n. 17915/2010; Cass. n. 6440/2007);
4.2. in difetto la censura deve essere dichiarata inammissibile perché formulata senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 cod. proc. civ.;
5. è, invece, fondato ¡I motivo di ricorso formulato per censurare il capo della sentenza impugnata che ha accertato la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato decorrente dal 23 febbraio 2000;
5.1. l’art. 1, comma 4, della legge n. 1369 del 1960, che estende allo Stato ed agli enti pubblici la disciplina introdotta dalla stessa legge, deve essere coordinato con le altre norme che escludono la costituzione di un valido rapporto di impiego con le Pubbliche Amministrazioni al di fuori delle specifiche procedure di reclutamento e sanciscono la nullità delle assunzioni avvenute in violazione del principio costituzionale di cui all’art. 97, secondo il quale agli impieghi pubblici si accede mediante concorsi;
5.2. è stato, pertanto, affermato che ” a seguito dell’entrata in vigore del d.l. n. 9 del 1993, convertito con modificazioni nella legge n. 67 del 1993, le forme di assunzione alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni vengono tipizzate nelle tre forme del concorso pubblico, dell’avviamento dal collocamento e delle assunzioni obbligatorie, con nullità dei rapporti di lavoro diversamente costituiti e mero diritto del lavoratore al risarcimento del danno; ne deriva che non è applicabile alle pubbliche amministrazioni, le quali affidino in appalto l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’imprenditore, il disposto dell’art. 1 della legge n. 1369 del 1960, che prevede, per il caso di violazione del divieto di interposizione di manodopera, la costituzione del rapporto di lavoro con l’interponente.” (Cass. 21.5.2008 n. 12964; negli stessi termini in motivazione Cass. n. 15783 del 2004 e Cass. n. 11383 del 2014 e C.d.S. 26.1.2010 n. 294);
5.3. anche nelle ipotesi in cui la intermediazione illecita si riferisca ad un’attività gestita in forma imprenditoriale dalla P.A. e sia, pertanto, applicabile il comma 4 dell’art. 1 della legge n. 1369 del 1960, non può essere esteso all’ente pubblico non economico il principio fissato dal comma 5 del richiamato art. 1 in forza del quale “i prestatori di lavoro, occupati in violazione dei divieti posti dal presente articolo, sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni”;
5.4. su detta disposizione ( significativamente non richiamata nel comma 4 che estende alle aziende dello Stato ed agli enti pubblici solo i primi tre commi dell’art. 1) prevale il divieto oggi sancito dall’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, e, in precedenza, dall’art. 36 del d.lgs. n. 29 del 1993, come modificato dall’art. 22 del d.lgs. n. 80 del 1998, nella parte in cui prevedono che ” in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione”;
5.5. ciò comporta che, ferma la responsabilità solidale del committente per le obbligazioni scaturenti dal rapporto di lavoro nel periodo in cui l’appalto ha avuto esecuzione, la violazione del divieto di cui all’art. 1, rende nullo il rapporto di lavoro che, quindi, produce nei confronti dell’ente pubblico non economico i limitati effetti previsti dall’art. 2126 cod. civ.;
5.6. a detti principi di diritto non si è attenuta la sentenza impugnata che, pertanto, deve essere cassata in parte qua con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo che procederà ad un nuovo esame, attenendosi a quanto enunciato nei punti che precedono ( da 5 a 5.5), e provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità;
P.Q.M.
Accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Catanzaro in diversa composizione.
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