Corte di Cassazione, ordinanza n. 32450 depositata il 22 novembre 2023
appalti “endoaziendali” – illecita intermediazione di manodopera
Rilevato che
1. la Corte di appello di Napoli ha confermato la sentenza di primo grado, di rigetto della domanda con la quale C.C., formalmente dipendente dalla società S., addetto alla pulizia delle stazioni e degli scali ferroviari nell’ambito di appalto conferito da T. s.p.a. , premesso di avere svolto prevalentemente attività di revisione e manutenzione dei carri sotto le direttive e con le attrezzature della convenuta T. s.p.a., dedotta la esistenza di un’illecita interposizione di manodopera in violazione dell’art. 1 l. n. 1369/1960, aveva chiesto accertarsi la esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con quest’ultima società con condanna della stessa alla ricostruzione della posizione lavorativa ed al pagamento delle differenze retributive da quantificarsi in separato giudizio;
2. la statuizione di conferma è stata fondata sulle emergenze in atti dalle quali, secondo la Corte distrettuale, non era dato evincere una diretta gestione del rapporto di lavoro in oggetto da parte della committente T. s.p.a.;
3. per la cassazione della decisione hanno proposto ricorso sulla base di un unico e articolato motivo A.C., D.C. e L.C. quali eredi dell’originario ricorrente; T. s.p.a. ha resistito con tempestivo controricorso;
Rilevato che
1. con unico motivo di ricorso parte ricorrente deduce ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 cod. proc. civ., violazione degli artt. 112, 115 e 116, cod. proc. civ. e degli artt. 2697 e 2729 cod. civ., censurando la sentenza impugnata per essersi discostata dai principi della Suprema Corte in tema di accertamento del fenomeno interpositorio nonché in tema di non contestazione; in relazione a tale ultimo aspetto sostiene, in particolare, che la convenuta T. s.p.a., nel costituirsi in primo grado, aveva ammesso rispetto al rapporto in controversia “uno sdoppiamento” di funzione per cui la S., formale datrice di lavoro, provvedeva alla gestione amministrativa del rapporto di lavoro mentre il controllo tecnico restava riservato alla committente T. s.p.a. la quale aveva giustificato tale “sdoppiamento” con il fatto che ragioni di sicurezza e la stessa natura pubblica del trasporto non consentivano che soggetti diversi da T. potessero impartire direttive tecniche e controllare l’esatta esecuzione del servizio; in questa prospettiva censura la valutazione di attendibilità dei testi di T. s.p.a. resa dai giudici di secondo grado e deduce assoluta carenza di motivazione sul punto;
2. il motivo è infondato;
2.1. in relazione al primo profilo di censura, si premette che la Corte distrettuale ha affermato che occorre distinguere l’ipotesi in cui i rapporti di lavoro dei dipendenti dell’appaltatore sono gestiti direttamente dal committente dall’ipotesi in cui il committente esercita solo i poteri di controllo sull’esecuzione del servizio appaltato espressamente distinto e che non può ritenersi preclusa al committente una verifica, secondo modalità predeterminate, dell’esecuzione del servizio; ha quindi ritenuto di ricondurre a tale ultimo ambito i poteri esercitati da T. e ciò sulla base di un accertamento di fatto insuscettibile di essere in questa sede rivisitato stante la preclusione scaturente dalla esistenza cd. di doppia conforme ai sensi dell’art. 348 ter, ultimo comma, cod. proc. civ.; parte ricorrente non ha, infatti, come suo onere, onde evitare l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 20994/2019, Cass. n. 26774/2016, Cass. n. 19001/2016, Cass. n. 5528/2014);
2.2. ferma quindi la intangibilità dell’accertamento fattuale, esclusa la denunziata ma non argomentata apparenza di motivazione, per essere le ragioni alla base del decisum chiaramente evincibili nei relativi presupposti, fattuali e giuridici, il parametro al quale il giudice di merito ha mostrato di ancorare l’esclusione della illecita intermediazione di manodopera si sottrae alle censure articolate risultando del tutto coerente con la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro in riferimento agli appalti “endoaziendali”, caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore- datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo, né una assunzione di rischio economico con effettivo assoggettamento dei propri dipendenti al potere direttivo e di controllo (Cass. 15557/2019, Cass. n. 27213/2018, Cass. n. 7820/2013, Cass. n. 5648 /2009, Cass. n. 18281/2007, Cass. n. 14302/2002);
2.3. in relazione al secondo profilo di censura, concernente la pretesa ammissione da parte di T. s.p.a. dell’avvenuto diretto esercizio di concreta gestione del rapporto di lavoro del C., si rileva, in primo luogo, che parte ricorrente, in violazione dell’art. 366, comma 1 n. 6 cod. proc. civ., omette la integrale trascrizione delle difese di T. s.p.a., come indispensabile al fine di cogliere il complessivo significato del brano della memoria di primo grado estrapolato e trascritto in ricorso, destinato a dimostrare, in tesi, il riconoscimento da parte della società T. di avere esercitato i tipici poteri datoriali nei confronti del C.; in secondo luogo, la censura muove dalla inesatta configurazione dell’ambito applicativo del principio di non contestazione che per essere utilmente invocato deve riferirsi a precise circostanze fattuale e non, come viceversa avvenuto nel caso di specie, secondo quanto evincibile dal ricorso per cassazione, ad espressioni meramente qualificatorie, inidonee a sostituire la necessità di procedere al concreto accertamento fattuale della situazione dedotta Corte (Cass. n. 20221/2016, Cass. n. 10111/2006);
3. in base alle considerazioni che precedono il ricorso deve essere quindi respinto e le spese regolate secondo soccombenza;
4. sussistono i presupposti processuali per la condanna del ricorrente al raddoppio del contributo unificato pari a quello previsto, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dell’ art.13 d. P.R. n. 115/2002;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
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