CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 05 settembre 2019, n. 22286
Lavoro – Sussistenza di un rapporto subordinato a tempo indeterminato – Interposizione fittizia – Accertamento
Rilevato che
1. La Corte di appello di Roma, in accoglimento del ricorso proposto da S. – (…) s.p.a., ha rigettato la domanda proposta da M.L.A. volta al riconoscimento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a far data dal 10.10.2000.
2. Il giudice di appello ha ritenuto insussistenti i presupposti di fatto per riconoscere l’esistenza di una interposizione fittizia. Ha infatti accertato che non vi era commistione con i dipendenti S. che operavano in locali differenti ed ha escluso che vi fosse una interferenza nell’attività prestata dalla A. da parte della S. s.p.a. Ha poi accertato che l’organizzazione del servizio era a carico di C. – (…) s.r.l. quanto a numero di lavoratori necessari, alla definizione dei turni, degli orari e dei controlli. Inoltre ha accertato che Cos s.r.l. aveva assunto su di sé il rischio di impresa.
3. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la A. affidato a due motivi, cui ha resistito la S. s.p.a. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 380 bis 1 cod. proc. civ.
Considerato che
4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 1369 del 1960 e dell’art. 116 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ.
4.1. Sostiene la ricorrente che la Corte di merito avrebbe erroneamente valorizzato la circostanza che era una dipendente dell’appaltatrice ad individuare gli operatori di primo livello da inserire nel cali center o al help desk ed ha ritenuto lecito l’appalto trascurando, però, di considerare che dalla documentazione versata in atti, era emersa una diretta gestione del personale da parte della S. s.p.a. con specifico riguardo alle attività di formazione. Inoltre, con un cattivo governo delle emergenze istruttorie, il giudice di secondo grado avrebbe trascurato di considerare che era emersa una diretta ingerenza in varie circostanze da parte della società nella predisposizione dei turni lavorativi, espressione del potere direttivo datoriale.
5. Con il secondo motivo la ricorrente ha censurato la sentenza d’appello, ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c., per avere in violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 3 della legge n. 1369 del 1960, con erronea e carente motivazione, ritenuto inapplicabile la presunzione di cui all’art. 1, comma 3 della legge n. 1369 del 1960, in esito ad una erronea e immotivata ricostruzione del fatto. Osserva la ricorrente che la Corte di merito avrebbe disatteso l’orientamento di legittimità circa la operatività della presunzione di cui al citato art. 1, comma 3, ed aveva escluso l’interposizione fittizia In base ad una ricostruzione dei fatti apodittica e contraddittoria e senza indicare le fonti di prova. Non spiega la Corte di appello perché l’attività sarebbe elementare ed esecutiva e non chiarisce da quali fatti emersi In giudizio avrebbe tratto tale convincimento. Neppure chiarisce perché la circostanza che gli strumenti di lavoro appartenessero alla committente sarebbe irrilevante ai fini della qualificazione del rapporto ed all’operatività della presunzione legale di subordinazione nel caso di mera gestione amministrativa del rapporto di lavoro e di fornitura di un contingente umano. Contraddittoriamente il giudice di appello pur avendo accertato che i materiali ed il software da utilizzare appartenevano alla committente ha poi ritenuto irrilevante tale circostanza invece decisiva in senso contrario. Erroneamente, poi, il giudice di appello, ha trascurato di considerare il contenuto dei contratti intercorsi nel lungo arco temporale tra le parti dai quali emergeva, al contrario, che l’appaltatrice non si era assunta alcun rischio il quale, invece, gravava interamente sulla committente.
6. Le censure, che possono essere esaminate congiuntamente, sono in parte inammissibili ed in parte infondate.
6.1. Questa Corte nel l’esaminare fattispecie sovrapponibili a quella in esame (Cass. n. 23599 del 2018, n. 27105 del 2018 e n. 1844 del 2019) ha rammentato che la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri come la scelta tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Cass. n. 19011 del 2017; Cass. n. 16056 del 2016).
6.2. Le censure così come articolate non sono neppure ammissibili sotto il profilo dell’esame della motivazione e della sua denunciata carenza e contraddittorietà, in quanto le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 8053 del 2014 hanno chiarito che “La riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.
Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”.
6.3. L’ assenza di precise indicazioni inerenti una delle ipotesi sopra enunciate rende perciò inammissibili le censure anche con riguardo alla denunciata erronea valutazione delle circostanze relative alla inesistenza del rischio economico. Si tratta infatti di profili strettamente attinenti al merito della controversia che non possono trovare ingresso in questa sede di legittimità.
6.4. E’ vero che “Il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro, previsto dall’art. 1 della l. n. 1369 del 1960 (applicabile “ratione temporis”), opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa mantenendo i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali la retribuzione, la pianificazione delle ferie, l’assicurazione della continuità della prestazione), senza una reale organizzazione della prestazione finalizzata al conseguimento di un risultato produttivo autonomo.” (cfr. Cass. n. 27105 del 25/10/2018 e n. 7820 del 2013) e tuttavia nel caso in esame il giudice di merito ha accertato il carattere lecito dell’appalto riscontrando, in base ad un apprezzamento in fatto insindacabile in sede di legittimità, l’esistenza di un effettivo potere direttivo della società appaltatrice nei confronti dei lavoratori, a fronte dell’intervento della committente nella predisposizione dei manuali operativi, oltre che nella formazione del personale.
7. In conclusione il ricorso deve essere rigettato e le spese vanno poste a carico della soccombente nella misura indicata in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, poi, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 4000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R.