CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 dicembre 2017, n. 30605
Dimissioni – Interposizione fittizia – Prova dell’estinzione del rapporto di lavoro
Svolgimento del processo
W.R. proponeva appello contro le sentenze del Tribunale di Trieste n. 94/08 e n. 476/08 esponendo: che il giudice di primo grado non aveva considerato che le dimissioni presentate il 15.9.04, essendo un atto recettizio, producono i loro effetti solo quando giungono al reale destinatario e quindi che, in caso di interposizione fittizia vietata dall’art. 1 della legge n. 1369/60, non hanno alcun valore quelle presentate ad un soggetto diverso dall’effettivo datore di lavoro A.; che in concreto egli non aveva mai comunicato le sue dimissioni all’A. ma solo alla Cooperativa P. Lavoro, sua formale datrice di lavoro, e di aver fatto ciò con la prospettiva di essere riassunto in tempi ragionevoli dall’A., tempestivamente convenuta in giudizio; che, dati tali presupposti, il Tribunale di Trieste aveva erroneamente ritenuto provata una sua volontà di risolvere il rapporto di lavoro con A.; che la prova dell’estinzione del rapporto avrebbe dovuto essere fornita dalla A.; che la rinuncia, pur essendo ricavabile da fatti concludenti, deve essere inequivoca e tale non era la mera cessazione del rapporto di lavoro, peraltro invalido, con la Cooperativa; che il Tribunale aveva erroneamente ricavato l’esistenza della sua pretesa volontà di risolvere il rapporto con A. dal fatto che le dimissioni sarebbero state da lui presentate alla Cooperativa con la coscienza che il vero datore di lavoro era la A.; che in realtà le dimissioni erano state da lui presentate perché era divenuta insostenibile la situazione presso la Cooperativa, conoscendo peraltro una intenzione di A. di sistemare la posizione dei lavoratori da essa impropriamente utilizzati; resisteva la A.A. s.p.a. (succeduta alla prima) rilevando che nessuna pressione era stata esercitata sul lavoratore al fine delle sue dimissioni; che egli del resto, dopo le dimissioni, non pose le sue energie lavorative a disposizione di A..
Con sentenza depositata l’11.1.12, la Corte d’appello di Trieste respingeva il gravame del R., ritenendo che il suo rapporto di lavoro, dopo le dimissioni, si era obiettivamente risolto non solo con la Cooperativa, ma anche con la A.A., anche considerato che dopo le dimissioni stipulò altro contratto di lavoro stabile con altro datore di lavoro.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il R., affidato a sei motivi. Resiste la A.A. con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
Deve pregiudizialmente osservarsi che nel giudizio di cassazione, la comunicazione dell’avviso di udienza al difensore che risulti essere stato cancellato dall’albo degli avvocati di appartenenza, è ritualmente eseguita presso la cancelleria della Corte, ex art. 366, comma 2, ultima parte, c.p.c., persistendo l’obbligo del professionista, alla stregua del rapporto di mandato instaurato con il proprio cliente, ad informarlo dell’impossibilità di proseguire il patrocinio, sicché non è configurabile alcun irrimediabile “vulnus” al diritto di difesa della parte (Cass. n. 15566\15). Nella specie il domiciliatario avv. F. dichiara di essere codifensore della A. insieme all’avv. S.. Peraltro la notifica del ricorso è del 2012, mentre l’avv. S. risulta cancellato solo nel 2015. Venendo pertanto al merito si osserva.
1. – Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e\o falsa applicazione dell’art. 2118 c.c.
Lamenta che la sentenza impugnata ritenne erroneamente valide ed efficaci le dimissioni rassegnate dal R. nei confronti della Cooperativa (datore di lavoro apparente) anche nei confronti della società A. (datore di lavoro effettivo), in contrasto col principio secondo cui in ipotesi di violazione dell’art. 1 L. n. 1369/60, le dimissioni rassegnate dal lavoratore alla società appaltatrice sono prive di effetti giuridici poiché il rapporto di lavoro intercorre ex lege con l’impresa appaltante (Cass. n. 4862/6).
Il motivo è infondato.
Il principio invocato, infatti, vale, come pure chiarito dalla citata pronuncia di questa Corte, laddove, per effetto dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1960 n. 1369, il rapporto di lavoro con la appaltatrice si sia (già) convertito in rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze dell’impresa appaltante.
Nella specie tale conversione, e la stessa nullità dell’appalto, non risulta giudizialmente accertata, ma solo dedotta dal ricorrente, mentre la sentenza impugnata ha ritenuto, sulla base di una serie di elementi (aver cessato di lavorare, dopo le dimissioni, anche con la A., cui non offrì comunque le sue prestazioni lavorative; il reperimento pressoché immediato di altra occupazione a tempo indeterminato), che con l’atto di dimissioni in questione il R. abbia comunque inteso cessare dal rapporto anche con la A..
Trattasi di apprezzamenti di fatto incensurabili in questa sede, posto che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360, comma primo, n. 5) cod. proc. civ., non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. 6 marzo 2006 n. 4766; Cass. 25 maggio 2006 n. 12445; Cass. 8 settembre 2006 n. 19274; Cass. 19 dicembre 2006 n. 27168; Cass. 27 febbraio 2007 n. 4500; Cass. 26 marzo 2010 n. 7394; Cass. 5 maggio 2010 n. 10833, Cass. n. 15205\14).
2. – Con il secondo motivo il ricorrente denuncia una insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia (art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.), consistente nella sua supposta volontà di risolvere, attraverso le dimissioni rassegnate nei confronti della cooperativa, anche il rapporto di lavoro con l’appaltante, ovvero una risoluzione per mutuo consenso.
Il motivo non è meritevole di accoglimento per le ragioni sopra esposte. Quanto poi alla lamentata risoluzione del rapporto per mutuo consenso, deve evidenziarsi che la sentenza impugnata ha solo ritenuto che dalle dimissioni in questione, unite agli altri elementi fattuali prima rammentati, non potesse che dichiararsi la cessazione del rapporto anche con A..
3. – Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione e\o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.
Lamenta che mentre la società A. si era limitata a sostenere che il R. si era dimesso, nulla al riguardo aveva provato.
Il motivo è infondato essendo pacifiche le dimissioni del R. ed inoltre, per le circostanze sopra rammentate ed evidenziate dalla corte di merito, la volontà, da esse derivante, di recedere anche dal rapporto con A., secondo l’apprezzamento delle circostanze di causa effettuato dal giudice di merito e non sindacabile in questa sede se non per illogicità o incongruenza, come sopra rammentato.
4. – Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c.
Lamenta ancora che la sentenza impugnata, nel ritenere effettivamente rassegnate le dimissioni anche nei confronti di A., aveva solo supposto circostanze di cui non vi era la prova in atti.
Il motivo è infondato, non sussistendo alcuna violazione dell’art. 112 c.p.c., lamentandosi piuttosto inammissibilmente una erronea valutazione delle risultanze istruttorie, ed in particolare del proposto tentativo obbligatorio di conciliazione (in data 12.7.04) nei confronti di A. e quello, di qualche mese successivo, proposto nei confronti della Cooperativa; il reperimento nelle more di altra stabile occupazione.
5. – Il ricorso deve essere pertanto rigettato.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi, € 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a.
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