CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 novembre 2016, n. 24455
Licenziamento – Prestazione lavorativa presso un altro reparto – Mancata ottemperanza all’ordine datoriale – Impugnazione del contratto collettivo
Svolgimento del processo
1. Con sentenza depositata il 7 marzo 2013 la Corte d’appello di Napoli, in riforma della decisione del giudice di primo grado, dichiarò illegittimo, per difetto di proporzionalità fra addebito e sanzione, il licenziamento disciplinare intimato da D.T.S. S.p.A. a U.R.. Al ricorrente era contestata la mancata ottemperanza all’ordine datoriale di prestare la propria attività lavorativa presso il reparto “evaporazioni”, piuttosto che presso il reparto “stampaggi” al quale il lavoratore era in precedenza addetto; tale condotta era stata considerata integrare l’ipotesi di insubordinazione ai superiori di cui all’art. 10 lett. a) CCNL, idonea a giustificare la sanzione espulsiva.
2. La Corte territoriale rilevò che, ai fini del giudizio in ordine alla proporzionalità della sanzione, era necessaria una valutazione coordinata e unitaria dei dati acquisiti, compresa la considerazione del comportamento del lavoratore sotto il profilo soggettivo dell’intensità dell’elemento volitivo e dei motivi della reazione. Osservò che lo spostamento di reparto, normalmente preceduto da preavviso di almeno due giorni prima, era avvenuto con modalità diverse da quelle della prassi aziendale, a distanza di soli due giorni dalla reintegra del lavoratore disposta in attuazione dell’ordinanza ex art. 700 c.p.c., dopo che egli aveva iniziato il proprio turno di lavoro, peraltro in costanza del timore che la variazione preludesse ad una sospensione dell’attività per CIG. Osservò che la parte datoriale non aveva mai chiarito le ragioni determinanti l’improvviso spostamento e che il giorno dopo l’U. aveva ottemperato all’ordine, recandosi nel nuovo reparto, sicché l’inadempimento era circoscritto a un solo giorno lavorativo. In ragione delle suddette circostanze, rilevanti sotto i profili oggettivo e soggettivo, la Corte ritenne che la condotta del lavoratore non integrasse insubordinazione, per la configurabilità della quale sarebbero occorsi ripetuti e ingiustificati atti di inosservanza ai propri doveri, idonei a denotare un atteggiamento di sfida nei confronti del potere datoriale.
3. Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione la società sulla base di unico motivo. Resiste con controricorso il lavoratore.
Motivi della decisione
1. Con l’unico motivo il ricorrente deduce art. 360, co. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 3 I. 604/1966 e dell’art. 25 lett. A) Disciplina generale, sezione III, ora art. 10 lett. a) e h) del CCNL per i dipendenti delle industrie metalmeccaniche private e della installazione di impianti; art. 360, co. 5 c.p.c. omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
2. Il motivo è inammissibile, in primo luogo per le modalità di redazione della censura, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 19959 del 22/09/2014, Rv. 632466).
3. Quanto all’aspetto contenutistico, va richiamato il principio enunciato da Cass. Sez. L, Sentenza n. 6848 del 22/03/2010, Rv. 612262: “In tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all’illecito commesso – rimesso al giudice di merito – si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto, e l’inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 cod. civ., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto” (conforme Cass. n. 25743 del 2007, Rv. 601361). In tale prospettiva, si evidenzia che le critiche svolte con i motivi di ricorso concernono non già la verifica in ordine ai criteri ermeneutici di applicazione della clausola generale di cui all’art. 1455 c.c., ma, piuttosto, l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi ritenuti dai giudici del merito idonei a integrare il giustificato motivo di licenziamento. Le doglianze, pertanto, ripercorrendo gli elementi emergenti dall’istruttoria, sono rivolte non già nei confronti dei criteri di applicazione della clausola generale, ma piuttosto verso la sussunzione, effettuata dai giudici del merito sulla base delle risultanze istruttorie, della situazione di fatto nei parametri indicati dalla clausola medesima. Di conseguenza, al di là della formulazione delle censure anche in termini di violazioni di legge, le stesse finiscono con l’investire la valutazione delle risultanze istruttorie sulla cui base è stato formulato il predetto giudizio di sussunzione, proponendo a questa Corte questioni di mero fatto non esaminabili in sede di legittimità. Il tutto in regime di nuova formulazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c., che ha ridotto l’ambito del sindacato in ordine alla motivazione (v. Sez. 5, Sentenza n. 25332 del 28/11/2014, Rv. 633335: “la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa. Ne consegue che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti”).
3. Alle svolte argomentazioni si aggiunga che tutte le censure fanno riferimento all’interpretazione della norma contrattuale collettiva, sicché sono sanzionate ai sensi degli artt. 366 n. 4 e 369 n. 6 c.p.c., non risultando prodotto per intero il contratto collettivo di riferimento. Va richiamato in proposito il principio più volte affermato nella giurisprudenza di legittimità secondo il quale “L’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi su cui il ricorso si fonda – imposto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., nella nuova formulazione di cui al d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40 – non può dirsi soddisfatto con la trascrizione nel ricorso delle sole disposizioni della cui violazione il ricorrente si duole attraverso le censure alla sentenza impugnata, dovendosi ritenere che la produzione parziale di un documento sia non solamente incompatibile con i principi generali dell’ordinamento e con i criteri di fondo dell’intervento legislativo di cui al citato d.lgs. n. 40 del 2006, intesi a potenziare la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, ma contrasti con i canoni di ermeneutica contrattuale dettati dagli artt. 1362 cod. civ. e seguenti e, in ¡specie, con la regola prevista dall’art. 1363 cod. civ., atteso che la mancanza del testo integrale del contratto collettivo non consente di escludere che in altre parti dello stesso vi siano disposizioni indirettamente rilevanti per l’interpretazione esaustiva della questione che interessa” (Sez. L, Sentenza n. 15495 del 02/07/2009. Rv. 609037).
2. Alla declaratoria d’inammissibilità del ricorso segue la liquidazione delle spese secondo soccombenza.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore di U.R. delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi € 4.100,00, di cui € 4.000,00 per compensi, oltre spese generali nella misura del 15 % e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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