CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 10452 del 20 maggio 2016
LAVORO – CONTRATTI A TERMINE – RINNOVO – SELEZIONE PUBBLICA PER “ESPERTO LINGUISTICO” – ASSUNZIONE A TEMPO INDETERMINATO – ANZIANITA’ DI SERVIZIO
Svolgimento del processo/Motivi della decisione
1 – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 cod. proc. civ., ha depositato in cancelleria la seguente relazione ex artt. 380 bis e 375 cod. proc. civ., ritualmente comunicata alle parti:
“Con sentenza n. 2160/2013, depositata in data 31 maggio 2013, la Corte di appello di Lecce, decidendo in sede di rinvio disposto da questa Corte con decisione n. 7152/2008 del 17/3/2008, accoglieva l’impugnazione proposta da N. P. nei confronti dell’Università degli Studi di Bari e condannava quest’ultima al pagamento, in favore dell’appellante, della somma di euro 67.060,62 a titolo di differenze retributive e di euro 13.395,85 a titolo di t.f.r. nonché alla integrazione della contribuzione previdenziale e assistenziale derivanti dal diritto al trattamento economico del ricercatore confermato a tempo definito, rapportato a 500 ore con effetto dalla data di prima assunzione, per il periodo successivo a quello regolato da una transazione giudiziale intervenuta tra le parti e fino alla cessazione del rapporto con l’Università, considerate le classi stipendiali biennali.
Questi i fatti di causa: – con ricorso al Tribunale di Bari l’attuale intimata, premesso di essere stata già assunta dall’Università degli Studi di Bari in qualità di “lettore di madre lingua” con contratti a termine rinnovati annualmente, di aver superato una selezione pubblica per “esperto linguistico” bandita dall’Università e di essere stata, quindi, assunta a tempo indeterminato dall’11/11/1994 per 550 ore, ridotte a 500 a seguito della stipula del c.c.n.l. 21/5/1996, di aver definito un giudizio pendente con una transazione in data 30/11/1998 (con la quale l’Università aveva riconosciuto l’esistenza di un rapporto a tempo indeterminato sin dal primo contratto a termine, la retribuzione maggiore corrispondente a quella di professore non di ruolo di scuola media superiore, le differenze retributive maturate sino al 31/10/1994, l’effettiva e piena anzianità di servizio nonché l’integrazione contributiva in rapporto alla maggiore retribuzione), aveva convenuto in giudizio l’Università degli Studi di Bari, chiedendo: a) accertarsi il diritto a mantenere lo status di lettore nel ruolo ad esaurimento ex d.P.R. n. 329/1990; b) dichiarare il diritto a percepire, a decorrere dall’1/11/1994, la retribuzione spettante a seguito della transazione stipulata con l’Università il 30/11/1998, retribuzione composta da trattamento base, tredicesima e scatti di anzianità; c) condannare, di conseguenza, l’Università alle differenze retributive maturate dal 1° novembre 1994 e fino alla cessazione del rapporto con l’Università, con gli accessori di legge, e alla corrispondente integrazione contributiva; d) dichiarare il diritto ad effettuale una prestazione lavorativa annua pari a 550 ore.
Il Tribunale di Bari aveva rigettato le domande.
La decisione era stata confermata dalla Corte di appello di Bari sulla scorta del principio affermato da questa Corte di Cassazione con la sentenza n. 13292 del 1999 circa la legittimità dell’inquadramento degli ex lettori di lingua straniera come collaboratori ed esperti di lingua madre, figura introdotta dal D.L. n. 120 del 1995, convertito nella L. n. 236 del 1995. Rilevavano i giudici baresi che, nel caso di specie, l’astratta sopravvivenza della figura del lettore di lingua straniera, possibile in caso di inerzia delle parti, era stata superata dall’attribuzione del nuovo inquadramento con il contratto di lavoro, stipulato fra le parti a seguito del superamento da parte dell’appellante di una selezione pubblica per l’assunzione di esperti linguistici di madre lingua, a nulla rilevando i motivi per i quali l’appellante aveva partecipato al bando e sottoscritto il contratto.
Ritenevano, inoltre, che a diverse determinazioni non potesse pervenirsi alla stregua degli spunti desunti dal testo della transazione del 30/11/1998, nella quale la lavoratrice era definita “lettore” ed il rapporto considerato a tempo indeterminato sin dall’inizio della collaborazione tra le parti (e ciò perché: 1) la definizione di lettore, attribuita al lavoratore in un negozio tra privati, non poteva sostituirsi a norme di legge e collettive, che fissano gli elementi necessari per uno statar, 2) la transazione si riferiva essenzialmente al periodo litigioso precedente la stipula del contratto regolato dalla nuova disciplina sugli esperti di madrelingua; 3) la definizione non era comunque vincolante per il giudice; 4) il riconoscimento del rapporto a tempo indeterminato ab initio non interferiva con il principio della successione delle regole nuove a quelle sul vecchio lettorato). I giudici di secondo grado osservavano poi che la conservazione dei diritti quesiti, e in particolare del trattamento ottenuto fino al 31/10/1994, non riguardava una fattispecie, come quella in esame, nella quale il trattamento retributivo rivendicato era stato ottenuto a posteriori, in sede conciliativa, e solo fino al 31/10/1994, ultimo giorno precedente gli effetti del contratto stipulato in base ad uno dei D.L. anticipatori della L. n. 236 del 1995; mentre altra ed inferiore era stata la retribuzione effettivamente percepita nel periodo suddetto. Non sussisteva quindi violazione dell’art. 2103 cod. civ. Aggiungevano che la rinuncia, inserita nella transazione, a tutti gli ulteriori titoli, diritti o azioni, diretti o indiretti, dedotti o non dedotti, comunque correlati ad ogni attività lavorativa prestata dalla ricorrente per l’Università degli Studi di Bari nel periodo fino al 31/10/1994, precludeva la richiesta di un trascinamento stipendiale rivendicato per effetto di una concatenazione tra la prima e la seconda domanda. L’accordo conciliativo non aveva quindi alcuna incidenza sulla regolamentazione del periodo decorrente dall’1/11/1994, rimasta quella del contratto già stipulato da alcuni anni in base alla nuova legge. Escludeva, poi, la Corte territoriale ogni violazione dell’art. 36 Cost. con riferimento alla retribuzione percepita dall’appellante dall’1/11/1994 rispetto a quella prevista dal c.c.n.l. per il personale dell’Università era entrato in vigore il 21 maggio 1996. Quanto alla domanda diretta alla affermazione del diritto a continuare ad effettuare una prestazione annua pari a 550 ore, come stabilito nel contratto del 1994, i giudici di secondo grado rilevavano che il primo giudice aveva, fra l’altro, escluso la riferibilità dell’art. 51, comma 4, del c.c.n.l. (che contempla la possibilità di un monte ore annuo anche superiore alle 500 ore) agli ex lettori, assunti prima del contratto, trattandosi di norma applicabile solo ai neo assunti; osservavano che l’appellante non aveva mosso censure specifiche su tale distinzione (esperti di madrelingua alettone neoassunti); aggiungevano che la fattispecie rientrava nella previsione dell’art. 2077 cod. civ., comma 2, con sostituzione di diritto delle clausole dei contratti individuali da parte di quelle del contratto collettivo, salvo il principio della conservazione delle condizioni più favorevoli.
Osservavano, infine, che non vi era stata di fatto alcuna riduzione del monte di 550 ore e del compenso ragguagliato a tale quantità di impegno. Proposto ricorso per cassazione, questa Corte riteneva fondato il rilievo con il quale la ricorrente aveva censurato la decisione impugnata per aver negato il diritto alla maggiore retribuzione di ricercatore confermato a tempo definito anche per il periodo successivo all’1/11/1994, nonché alla ricostruzione della carriera. Richiamava la pronuncia della Corte di Giustizia CE 26/6/2001 e l’art. 1 della legge n. 63/2004 (come interpretato da questa Corte nelle decisioni n. 21856/2004, n. 5909/2005 e n. 4147/2007) e rinviava ad altro giudice, indicato nella Corte di appello di Lecce, che, per il periodo successivo a quello regolato dalla transazione intervenuta fra le parti (periodo oggetto della domanda introduttiva), avrebbe dovuto applicare il seguente principio di diritto: “In forza della sentenza pronunciata dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee in data 26 giugno 2001, nella causa C – 212/99, e del D.L. n. 2 del 14 gennaio 2004, come convertito con la L. 5 marzo 2004, n. 63 ai collaboratori linguistici, ex lettori di madre lingua straniera, già destinatari di contratti stipulati ai sensi del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, art. 28, abrogato dal D.L. 21 aprile 1995, n. 120, art. 4, comma 5, convertito, con modificazioni, dalla L. 21 giugno 1995, n. 236, ancorché non dipendenti da una delle sei Università menzionate nel citato D.L. n. 2 del 2004, conv. con la L. n. 63 del 2004, compete, proporzionalmente all’impegno orario assolto, e tenuto conto che l’impegno pieno corrisponde a 500 ore, il trattamento economico corrispondente a quello del ricercatore confermato a tempo definito, con effetto dalla data di prima assunzione”.
A seguito di riassunzione, la Corte di appello di Lecce si pronunciava nei termini sopra indicati.
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Università di Bari affidato a due motivi cui N. P. resiste con controricorso.
Con il primo motivo l’Università denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 240 del 2010, art. 26, norma di interpretazione autentica del D.L. n. 2 del 2004, art. 1, convertito con modifiche in L. n. 63 del 2004, così come interpretato in via autentica dalla L. n. 240 del 2010, art. 26 (art 360 cod. proc. civ., n. 3). Lamenta che la Corte territoriale, pur dando atto della sopravvenuta norma interpretativa, non ha dichiarato, pur essendovi tenuta, l’estinzione del giudizio, così come previsto nell’ultima parte del comma 3 dell’art. 26 citato. Rileva che il richiamo operato dalla Corte leccese alla pronuncia di questa Corte n. 5792 del 2013 è del tutto inconferente, trattandosi in quel caso di una pronuncia di rigetto del ricorso del lavoratore.
Il motivo presenta profili di inammissibilità ed è comunque manifestamente infondato.
Non risulta, infatti, censurato il passaggio argomentativo della Corte territoriale nella parte in cui, a sostegno della ritenuta non applicabilità della disposizione sulla estinzione del giudizio, ha posto il contrasto dell’art. 26, comma 3, della legge n. 240/2010, che non ha riconosciuto “in modo pieno ed incondizionato agli ex lettori di lingua straniera le pretese da essi vantati”, con i principi enunciati dalla Corte di Giustizia CE nella sentenza del 26 giugno 2001, n. 212, direttamente applicabile nell’ordinamento italiano (questo, in particolare, il punto rispetto al quale sarebbe integrato il contrasto: se agli altri lavoratori dello Stato viene garantita in generale la stabilità attraverso la legge 18 aprile 1962, n. 230 e se i medesimi beneficiano, proprio in forza di tale legge n. 230, della ricostruzione della loro carriera per quanto riguarda aumenti salariali, anzianità e versamento, da parte del datore di lavoro, dei contributi previdenziali fin dalla data della loro prima assunzione, anche gli ex lettori di lingua straniera, divenuti collaboratori linguistici, devono beneficiare di una ricostruzione analoga con effetti a decorrere dalla data della loro prima assunzione).
Neppure è adeguatamente censurato il decisum della Corte di appello nella parte in cui ha ulteriormente spiegato le ragioni della ritenuta non applicabilità dell’art. 26 citato essendosi la ricorrente limitata a dedurre una pretesa inconferenza del richiamo al precedente di questa Corte costituito da Cass. 8 marzo 2013, n. 5792 senza chiarire perché il principio estrapolato da tale decisione mal si adatterebbe al caso in questione.
Sul punto, infatti, la Corte territoriale, a mezzo del suddetto richiamo giurisprudenziale, ha evidenziato che l’art. 26 interviene su questioni, relative ai rapporti concernenti i lettori di madrelingua straniera (d.P.R. n. 382 del 1980, ex art. 38), che, nella specie, riguardando il periodo antecedente all’1/11/1994, cioè quello regolato dalla transazione, hanno acquistato forza di giudicato; e, per ciò stesso, non formano più oggetto di “giudizi in corso”. Tale consolidamento della situazione antecedente all’1/11/1994, producendo, sia pure in via indiretta, conseguenze sul periodo successivo, impedisce l’applicazione del richiamato art. 26 anche per detto periodo.
Trattasi, in ogni caso, di argomentazione corretta (si veda anche Cass. 16 luglio 2013, n. 17368).
Ed infatti, l’art. 26, comma 3, della l. n. 240 del 2010 fornisce una interpretazione autentica dell’art. 1, comma 1, del D.L. n. 2 del 2004. Quest’ultima disposizione riconosce ai collaboratori ex lettori “un trattamento economico corrispondente a quello del ricercatore confermato a tempo definito, con effetto dalla data di prima assunzione, fatti salvi eventuali trattamenti più favorevoli”. La prima parte dell’art. 26, comma 3, chiarisce (individuando un dies ad quem) che il riconoscimento ai collaboratori ex lettori di un trattamento economico corrispondente a quello del ricercatore confermato a tempo definito ha effetto soltanto “sino alla data di instaurazione del nuovo rapporto quali collaboratori esperti linguistici, a norma dell’articolo 4 del decreto-legge 21 aprile 1995, n. 120, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 1995, n. 236”. A partire da quel momento, il trattamento economico fondamentale è individuato dalla contrattazione collettiva di comparto, secondo il disposto dell’art. 4 del D.L. n. 120 del 1995, che rappresenta tuttora la norma di base del nuovo regime. La seconda parte dell’art. 26, comma 3, compie un ulteriore riconoscimento, pur sempre dipendente da quello di cui alla prima parte. Stabilisce, infatti, che la conservazione dei diritti acquisiti nel periodo anteriore al 1995 comporta anche il diritto dei collaboratori ex lettori alla corresponsione della differenza “tra l’ultima retribuzione percepita come lettori di madrelingua straniera, computata secondo i criteri dettati dal citato decreto legge n. 2 del 2004”, cioè la retribuzione spettante nel 1994 a un ricercatore confermato a tempo definito, “e, ove inferiore, la retribuzione complessiva loro spettante secondo le previsioni della contrattazione collettiva di comparto e decentrata”.
La volontà del legislatore, manifestata attraverso la prima e la seconda parte dell’art. 26, comma 3, è diretta, dunque, a chiarire che la norma del 2004 implica il riconoscimento ai collaboratori ex lettori di un trattamento economico corrispondente a quello dei ricercatori confermati “sino alla data di instaurazione del nuovo rapporto quali collaboratori esperti linguistici, a norma dell’articolo 4 del decreto-legge 21 aprile 1995, n. 120, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 1995, n. 236”. E’ allora logico dedurre che la medesima norma, laddove ha previsto che: “Sono estinti i giudizi in materia, in corso alla data di entrata in vigore della presente legge” non possa che riferirsi ai giudizi aventi ad oggetto le pretese dei collaboratori ex lettori nei termini di cui al primo ed al secondo comma. Essendo, dunque, imprescindibile un ragionevole collegamento tra la previsione processuale di estinzione dei processi e la disposizione che disciplina le pretese sostanziali, non devono essere dichiarati estinti tutti i processi nei quali i collaboratori esperti linguistici avanzino pretese nei confronti delle università ma solo quelli nei quali rilevi il nuovo assetto dato dal legislatore alla materia senza che ne derivi una vanificazione dei diritti azionati. Si veda quanto affermato da questa Corte nelle sentenze n. 16924 del 24 luglio 2014, n. 17824 dell’8/8/2014 e n. 19992 del 23 settembre 2014 le quali hanno sottolineato che il provvedimento del 2010 costituisce una sorta di transazione legislativa (come avvenuto in altri numerosi casi di accoglimento in via legislativa di alcune pretese avanzate in sede giudiziaria e conseguente azzeramento del contenzioso) diretta a dare pronta e certa esecuzione alle sentenze prima ricordate della Corte di giustizia e a stabilire definitivamente il trattamento economico spettante ai collaboratori linguistici, fissando anche i parametri per il riconoscimento dei diritti pregressi maturati nei rapporti di lavoro precedenti e nelle quali è stato richiamato il principio affermato dal giudice delle leggi (Corte cost. n. 310 del 2000) secondo cui “onde escludere che sia stato menomato il diritto di azione, è necessario e sufficiente accertare che il nuovo assetto dato dal legislatore alla materia non si traduca in una sostanziale vanificazione dei diritti azionati, ma attui una nuova disciplina del rapporto, tale da far venire meno le basi del preesistente contenzioso, in quanto realizza – nella misura e con le modalità ritenute dal legislatore compatibili con i limiti, ragionevolmente apprezzati, consentiti dalle circostanze nelle quali esso si è trovato ad operare – le pretese fatte valere dagli interessati”.
Ed allora è di tutta evidenza che, nel caso in esame, in cui è rivendicata la maggiore retribuzione di ricercatore confermato a tempo definito per il periodo successivo all’1/11/1994 (e cioè successivo a quello regolato dalla transazione intervenuta tra le parti) nonché la ricostruzione della carriera a far data dalla prima assunzione, si è fuori dalle ipotesi di cui all’art. 26, comma 3, cit. e dunque dell’estinzione ope legis.
Senza dire che, nell’ipotesi in questione, a fronte di una domanda intesa non solo ad ottenere l’accertamento del diritto vantato ma anche la condanna al pagamento di differenze retributive (nella specie quantificate tenendo conto degli scatti biennali di anzianità con decorrenza dalia prima assunzione), una pronuncia di estinzione, ove pure, come si assume, necessariamente conseguente all’intervenuto riconoscimento legislativo del diritto a termini dell’art. 26, comma 3, della legge n. 240/2010, avrebbe comunque vanificato in parte la pretesa azionata, in evidente contrasto con la ratio della legge.
L’irrilevanza, nella fattispecie in esame, dell’estinzione rende superflua ogni altra questione posta dalla ricorrente così come l’esame della questione di costituzionalità sollevata, in via subordinata, dalla controricorrente.
Con il secondo motivo è denunciata la violazione dell’art. 385 cod. proc. civ. in relazione alla operata regolamentazione delle spese di tutti i gradi di giudizio a fronte della pronuncia remittente che delegava al giudice del rinvio solo di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.
Il motivo è manifestamente infondato.
Questa Corte ha più volte affermato che il giudice del rinvio, al quale la causa sia rimessa dalla Corte di cassazione anche perché provveda sulle spese del giudizio di legittimità, è tenuto a provvedere sulle spese delle fasi di impugnazione, se rigetta l’appello, e sulle spese dell’intero giudizio, se riforma la sentenza di primo grado, secondo il principio della soccombenza applicato all’esito globale del giudizio, piuttosto che ai diversi gradi del giudizio ed al loro risultato (cfr. Cass. 29 marzo 2006, n. 7243; Cass. 18 giugno 2007, n. 14053; Cass. 7 gennaio 2009, n. 50; Cass. 9 ottobre 2015, n. 20289).
In conclusione, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5″.
2 – Non sono state depositate memorie ex art. 380 bis, co. 2, cod. proc. civ..
3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e che ricorra con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375, n. 5, cod. proc. civ. per la definizione camerale del processo.
4 – In conclusione il ricorso va rigettato.
5 – La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.
6 – Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228), che ha integrato l’art. 13 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.
La suddetta condizione sussiste nel caso in esame.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.700,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.