CORTE DI CASSAZIONE sentenza n. 1594 del 27 gennaio 2016
LAVORO – PREVIDENZA – INPS – GESTIONE COMMERCIANTI – CONTRIBUTI OMESSI – CARTELLA DI PAGAMENTO – RISCOSSIONE DI CONTRIBUTI PREVIDENZIALI
In tema di riscossione di contributi previdenziali, l’opposizione avverso la cartella esattoriale di pagamento (nel caso di specie omessi contributi alla gestione commercianti) emessa ai sensi dell’art. 2 del D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, convertito, con modificazioni, nella L. 7 dicembre 1989, n. 389, dà luogo ad un giudizio ordinario di cognizione su diritti ed obblighi inerenti al rapporto previdenziale obbligatorio e, segnatamente, al rapporto contributivo, con la conseguenza che l’ente previdenziale convenuto può chiedere, oltre che il rigetto dell’opposizione, anche la condanna dell’opponente all’adempimento dell’obbligo contributivo, portato dalla cartella, senza che ne risulti mutata la domanda.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – MOTIVI DELLA DECISIONE
1 – Considerato che è stata depositata relazione del seguente contenuto:
La Corte di appello di Sassari confermava la decisione del Tribunale della stessa sede che aveva respinto l’opposizione proposta da C.S.S. diretta ad ottenere l’annullamento della cartella di pagamento con la quale l’I.N.P.S. gli aveva chiesto il pagamento di omessi contributi e relative sanzioni dovuti alla gestione commercianti porgli anni 2000/2004, ritenendo sussistenti i requisiti per la iscrizione dell’opponente, legale rappresentante della S. s.r.l., alla suddetta gestione. Evidenziava, in particolare, la Corte territoriale che dall’istruttoria svolta era emerso che il S. aveva svolto all’interno dell’azienda un’attività che andava ben oltre i compiti gestori propri dell’amministratore.
Per la cassazione di tale decisione ricorre C. S. S. affidando l’impugnazione a due motivi.
L’I.N.P.S., in proprio e quale mandatario della S.C.CT. S.p.A., resiste con controricorso.
Con i due motivi il ricorrente, denunciando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1, commi 203 e 208, della legge 662/96, come interpretato dall’art. 12, comma 11, del D. L. 78/2010, conv. dalla legge n. 122/2010, nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, lamenta che la Corte territoriale non abbia considerato che l’attività svolta all’interno dell’azienda dal S. era riconducibile solo ed esclusivamente alle funzioni di amministratore senza poter essere configurata quale attività di socio-lavoratore. Rileva che la società, che svolge attività di vendita di materiale edile agli imprenditori, ha propri dipendenti che si occupano dell’attività aziendale e commerciale mentre gli amministratori si dedicano solo all’attività gestoria.
Il ricorso è qualificabile come manifestamente infondato.
Come è noto, è stato ritenuto (Cass. Sez. Un. 8 agosto 2011, n. 17076 ) che: .
E’ stato, infatti, emanato il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 12, comma 11, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, art. 1, comma 1, recante misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica. Tale disposizione prevede, con norma dichiaratamente di interpretazione autentica: .
Non opera più, quindi, alla stregua della norma interpretativa (ritenuta conforme a Costituzione dalla sentenza n. 15 del 2012 della Corte costituzionale), la regola della attività prevalente e quindi, in via generale, vale l’obbligo di iscrizione e contribuzione sia alla gestione commercianti, sia alla gestione separata.
E’ vero tuttavia che il presupposto per la iscrizione alla gestione commercianti è che si eserciti effettivamente l’attività commerciale e quindi vi siano le condizioni cui la legge subordina il relativo obbligo.
La disciplina previgente è, infatti, stata modificata dalla L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, comma 203 che così ha sostituito la L. 3 giugno 1975, n. 160, art. 29, comma 1: <l’obbligo n.=”” non=”” cui=”” di=”” gestione=”” alla=”” è=”” la=”” per=”” attività=”” ovvero=”” o=”” in=”” i=”” lavoro=”” iscritti=”” c=”” il=”” che=”” l.=”” ruoli=”” e=”” registri=”” albi,=”” siano=”” autorizzazioni=”” licenze=”” regolamenti,=”” leggi=”” da=”” previsto=”” ove=”” possesso,=”” d)=”” prevalenza;=”” abitualità=”” carattere=”” con=”” aziendale=”” al=”” personalmente=”” partecipino=”” c)=”” limitata;=”” responsabilità=”” a=”” società=”” soci=”” nonché=”” vendita=”” punto=”” preposti=”” coadiutori=”” familiari=”” richiesto=”” requisito=”” tale=”” gestione.=”” sua=”” relativi=”” rischi=”” ed=”” oneri=”” gli=”” lutti=”” assumano=”” dell’impresa=”” piena=”” abbiano=”” b)=”” vendita;=”” grado,=”” terzo=”” entro=”” affini=”” parenti=”” compresi=”” ivi=”” famiglia,=”” componenti=”” dei=”” proprio=”” prevalentemente=”” dirette=”” organizzate=”” dipendenti,=”” numero=”” dal=”” prescindere=”” che,=”” imprese=”” gestori=”” titolari=”” a)=”” seguenti=”” possesso=”” soggetti=”” sussiste=”” integrazioni,=”” modificazioni=”” successive=”” 613,=”” 1966,=”” luglio=”” 22=”” commerciali=”” esercenti=”” degli=”” assicurativa=”” nella=”” iscrizione=””>.
La iscrizione alla gestione commercianti è, quindi, obbligatoria ove si realizzino congiuntamente le fattispecie previste dalla legge e cioè: la titolarità o gestione di imprese organizzate e dirette in prevalenza con il lavoro proprio e dei propri familiari; la piena responsabilità ed i rischi di gestione (unica eccezione proprio per i soci di s.r.l.); la partecipazione al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza; il possesso, ove richiesto da norme e regolamenti per l’esercizio dell’attività propria, di licenze e qualifiche professionali.
Da tanto deriva che, se la regola espressa dalla norma risultante dalla disposizione interpretata (L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, comma 208) e dalla disposizione di interpretazione autentica (D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 12, comma 11) è che l’esercizio di un’attività di impresa commerciale, artigiana o agricola, la quale di per sé comporti l’obbligo dell’iscrizione alla relativa gestione assicurativa presso l’I.N.P.S., non fa scattare il criterio dell’unificazione della posizione previdenziale in un’unica gestione secondo l’individuazione dell’attività “prevalente”, rimanendo attività distinte e (sotto questo profilo) autonome, sicché parimenti distinto ed autonomo resta l’obbligo assicurativo nella rispettiva gestione assicurativa, deve coerentemente ritenersi che ognuna delle due distinte attività debba essere valutata, ai fini della sussistenza dell’obbligo contributivo, secondo gli ordinari criteri.
Così la sussistenza di un’attività comportante l’obbligo contributivo nei confronti della gestione commercianti va valutata con i criteri di cui al già sopra ricordato comma 203 del medesimo art. 1 della legge n. 662/1996.
Ai fini, dunque, di tale ulteriore (rispetto a quello della gestione separata) obbligo contributivo non è richiesta la verifica del requisito della prevalenza (che vale nel solo ambito delle attività autonome inquadrabili nei settori produttivi del commercio, dell’artigianato e dell’agricoltura; vale, cioè, solo al fine di evitare più di una contribuzione nel caso di un soggetto esercente contemporaneamente, anche in un’unica impresa, attività plurime, ma pur sempre tutte “assicurabili” nelle gestioni previste per le attività in parola), bensì quella della sussistenza degli elementi della abitualità e della professionalità della prestazione lavorativa, nonché degli altri requisiti eventualmente previsti dalle rispettive discipline normative di settore.
Per il doppio onere occorre, dunque, una “coesistenza” di attività riconducibili, rispettivamente, al commercio e all’amministrazione societaria.
La verifica della sussistenza di requisiti di legge per tale “coesistenza” è compito del giudice di mento e deve essere effettuata in modo puntuale e rigoroso, indispensabile essendo che l’onere probatorio (il quale, secondo le ordinarie regole, grava sull’ente previdenziale, tenuto a provare i fatti costitutivi dell’obbligo contributivo – cfr. ex multis Cass. 20 aprile 2002, n. 5763; Cass. 6 novembre 2009, n. 23600 – ) venga compiutamente assolto, potendo assumere rilevanza, ai fini di tale valutazione e, quindi, della prova del personale apporto all’attività di impresa, con diretta ed abituale ingerenza dell’amministratore nel ciclo produttivo della stessa, clementi quali la complessità o meno dell’impresa, l’esistenza o meno di dipendenti e/o collaboratori, la loro qualifica e le loro mansioni (così, ad esempio, in presenza di una società di capitali con numerosi dipendenti ed un sistema organizzato di controlli sul personale, la diretta partecipazione al lavoro aziendale dell’amministratore, ancorché pure socio, non beneficia di elementi presuntivi che diversamente possono sussistere quando si è in presenza di una società con due soli soci, di cui uno amministratore:, e senza dipendenti – si veda, per una ipotesi di questo secondo tipo, Cass. 11 luglio 2012, n. 11685).
Ciò precisato, nella specie, il decisim della Corte territoriale, incentrato sullo svolgimento da parte del S. non solo dell’attività di amministratore ma anche dell’attività commerciale, con prevalente apporto personale pur in presenza di un certo numero di dipendenti (si vedano i passaggi della sentenza in cui, valorizzandosi non solo le dichiarazioni rese all’ispettore dell’I.N.P.S. proprio dal S. – il quale aveva precisato che ad essere svolta “con carattere meramente sussidiario e secondario” era stata l’attività di gestione ed amministrazione – ma quanto de visti osservato dall’ispettore stesso, è evidenziato l’espletamento consueto da parte del ricorrente di compiti consistenti nel “prestare assistenza ai clienti, predisporre preventivi, effettuare ordini e provvedere alla vendita” e specificato che tale tipo di attività non può certo ascriversi alla categoria “gestione ed amministrazione”), non è stato validamente infirmato dalla parte ricorrente e dal mezzo d’impugnazione articolato.
Se è vero che, di per se, la qualifica di socio di una società di capitali (con responsabilità limitata al capitale sottoscritto e con partecipazione alla realizzazione dello scopo sociale esclusivamente tramite il conferimento di tale capitale) non può essere significativa dell’esercizio di diretta attività commerciale nell’azienda, nello specifici), tale esercizio è stato ritenuto provato dalla Corte territoriale sulla base di un accertamento in fatto che in questa sede di legittimità non può essere sottoposto a revisione critica.
Va, infatti, osservato che la giurisprudenza di questa Corte formatasi sulla configurabilità del vizio di cui all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., (nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.L., n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012) è costante nell’affermare che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge).
Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione (così e per tutte, Cass. S.U. n. 13045/97).
Nello specifico, invece, le doglianze, che si sostanziano nella mera contrapposizione di un giudizio di “eccezionalità” ed “occasionalità” ai compiti strettamente commerciali – non ricollegabili alla carica sociale rivestita – che la Corte di merito ha, al contrario, ritenuto “abitualmente” e “continuativamente” svolti, mirano a provocare un rinnovato esame dei fatti di causa che includa l’apprezzamento in senso conforme alle aspettative della parte ricorrente di elementi tralasciati o male interpretati dalla Corte distrettuale, elementi la cui valutazione in termini di idoneità a produrre una decisione di segno opposto implicherebbe un pieno sindacato di merito, estraneo al compito istituzionale di questa Corte.
In conclusione, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5>>.
2 – Non sono state depositate memorie ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ..
3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni in diritto svolte dal relatore (che trovano anche conferma nelle più recenti Cass. 19 marzo 2014, n. 6470; Cass. 26 marzo 2015, n. 6192; Cass. 22 maggio 2015, n. 10566; Cass. 1° luglio 2015, n. 13446) siano del tutto condivisibili e che sussista con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375, n. 5, cod. proc. civ. per la definizione camerale del processo.
4 – Conseguentemente, il ricorso va rigettato.
5 – I recenti interventi, legislativo e giurisprudenziali, giustificano la compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
6 – La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater; d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiché l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass., Sez. Un., n. 22035/2014).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; compensa le spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater; del d.P.R. n. 115 del 2002 da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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