CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 7558 del 15 aprile 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA – BALLERINA – INTERVISTA – VIOLAZIONE DELL’OBBLIGO DI FEDELTA’ – NON SUSSISTE
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza n. 972/2014, depositata il 24 ottobre 2014, la Corte di appello di Milano, pronunciando sul reclamo proposto da M.F.G. nei confronti, della sentenza del Tribunale di Milano n. 419/2014 e in parziale riforma della stessa, dichiarava la illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato alla reclamante il 19/1/2012 dalla Fondazione T. alla S. per avere la dipendente, membro del Corpo di Ballo del T., fatto affermazioni al quotidiano inglese “The O.” e a quotidiani nazionali aventi ad oggetto la condizione di pregiudizio fisico e piscologico delle ballerine e la subordinazione a fattori non professionali delle loro carriere; quanto alle conseguenze della ritenuta illegittimità, applicava la disciplina di cui all’art. 18 L. n. 300/1970 nella formulazione anteriore alla L. 28 giugno 2012, n. 92, trattandosi di licenziamento risalente al 19 gennaio 2012.
A sostegno della propria decisione la Corte osservava, quanto alle dichiarazioni rilasciate al periodico, che non vi era stata la possibilità di acquisire la trascrizione integrale dell’intervista, pur richiesta all’autorità giudiziaria britannica, e che, pertanto, non vi era prova che le frasi indicate nella lettera di contestazione potessero, con la necessaria sicurezza, essere attribuite alla lavoratrice; che, inoltre, era da ritenere che alcune di esse fossero frutto della sintesi del giornalista e che, in ogni caso, sia tali frasi, sia quelle che comparivano tra virgolette anche nell’articolo, fossero state del tutto decontestualizzate, venendo così ad assumere significati distorti rispetto al più ampio contesto, al quale erano riferibili, tanto in assoluto, come in relazione all’ambito non strettamente legato al T. alla S. ma a tutto il mondo della danza; che, d’altra parte, le frasi addebitate potevano avere una portata lesiva del prestigio dell’Ente e, quindi, assumere valenza disciplinare, in quanto i fenomeni negativi, che descrivevano, non venissero soltanto denunciati per se stessi ma imputati ad un comportamento di tolleranza o trascuratezza, o, ancor peggio, di violazione degli obblighi di sicurezza da parte della direzione della Fondazione e peraltro la mancata acquisizione del testo integrale dell’intervista rendeva impossibile anche la valutazione di tale particolare aspetto.
Quanto poi alla dichiarazione comparsa su due quotidiani nazionali, rilevava la Corte che entrambi gli articoli non alludevano in alcun modo ad una specifica intervista diretta, ma si limitavano a riprendere brani del precedente articolo comparso sul periodico inglese, sicché non vi era la prova che in tali sedi la reclamante avesse davvero pronunciato la frase addebitata, la quale comunque risultava già presente in un libro scritto in passato dalla G. ed esposto in vendita nel bookshop all’interno del T.: a dimostrazione che, a giudizio della stessa Fondazione, essa non aveva valenza realmente denigratoria.
Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la Fondazione T. alla S. con dodici motivi; la G. ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo, il secondo e Il terzo motivo la Fondazione T. alla S. denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 2105 c.c., rispettivamente deducendo che: (a) l’obbligo di fedeltà, al pari di ogni altra obbligazione, deve osservarsi secondo le regole della correttezza ex art. 1175 c.c. e adempiersi con la diligenza del buon padre di famiglia ex art. 1176 c.c. sicché costituisce onere di chi rilascia un’intervista cautelarsi dal rischio di travisamenti e deformazioni ad opera del giornalista, ponendo in essere idonee misure di prevenzione e, in particolare, registrando la conversazione; (b) l’obbligo di fedeltà risulta violato, in caso di dichiarazioni del lavoratore pregiudizievoli, non soltanto quando esse siano direttamente riferite al datore di lavoro ma anche quando siano riferite ad altri soggetti oppure siano di carattere generale; (c) l’obbligo di fedeltà rende vietata ogni dichiarazione del lavoratore suscettibile di recare pregiudizio al datore di lavoro, anche se non imputi a quest’ultimo specifiche responsabilità.
Con il quarto motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 5 L. n. 604 del 1966: osserva al riguardo che, ove il datore di lavoro abbia provato quanto rientra nella sua sfera di controllo (e cioè, nella specie, il rilascio di un’intervista contenente dichiarazioni a sé pregiudizievoli), compete al lavoratore dimostrare il contrario (e cioè, nella specie, la difformità fra quanto dichiarato e quanto riportato dalla stampa, trattandosi di un fatto interno alla sua propria sfera di controllo).
Con li quinto motivo di ricorso la Fondazione T. alla S. denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 4, la nullità della sentenza per motivazione apparente in ordine all’accoglimento dell’impugnativa del licenziamento, sul rilievo che l’assoluta inconferenza delle premesse rispetto alle raggiunte conclusioni in punto di fatto non consentirebbe di identificare il percorso logico-giuridico posto a base della decisione.
Con il sesto motivo la Fondazione denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti, individuato nella circostanza che la lavoratrice – così come dedotto sia in sede di opposizione che in sede di appello – era stata sanzionata (con tre giorni di sospensione) per analogo comportamento contestatole nel 2011 e, nel rendere le proprie giustificazioni, si era espressamente e specificamente impegnata ad evitare ulteriori violazioni.
Con il settimo e l’ottavo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione dell’art. 18 L. n. 300/1970, per avere la Corte disposto la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro occupato in precedenza o in altro equivalente e condannato la Fondazione al risarcimento del danno nella misura delle retribuzioni globali di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra, con il versamento dei relativi contributi assistenziali e previdenziali, con ciò erroneamente applicando la disciplina anteriore alle modifiche della norma introdotte con la L. 28 giugno 2012, n. 92, atteso che il licenziamento era precedente alla data di entrata in vigore di dette modifiche, ma il relativo giudizio di impugnazione ad essa successivo.
Con i motivi nono, decimo, undicesimo e dodicesimo la ricorrente Fondazione denuncia rispettivamente; (a) ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., la nullità della sentenza per omessa pronuncia sull’eccezione di aliunde perceptum, in violazione dell’art. 112 c.p.c.; (b) ai sensi dell’art. 360 n. 3, la violazione dell’art. 18, comma 5, L. n. 300/1970, per Il caso in cui l’eccezione abbia formato oggetto di un rigetto implicito; (c) ai sensi dell’art. 360 n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo in ordine al rigetto implicito dell’eccezione e cioè avere, la G., operato come insegnante, in epoca successiva al licenziamento e quanto meno per l’anno accademico 2012/2013, in una nota scuola di danza milanese; (d) ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., la nullità della sentenza per motivazione apparente in ordine al rigetto implicito dell’eccezione, stante l’impossibilità di ricostruire il percorso logico-giurldico posto a base di tale pronuncia.
Il ricorso deve essere respinto.
Il primo, il secondo e il terzo motivo possono essere trattati congiuntamente, in quanto relativi alla violazione e falsa applicazione della medesima norma di legge (art. 2105 c.c.) sotto profili connessi.
I motivi in esame muovono, infatti, da un presupposto comune a tutti e cioè dall’avere, il dipendente, reso dichiarazioni di contenuto denigratorio e comunque pregiudizievoli per il datare di lavoro.
Su tale premessa i motivi risultano chiaramente infondati.
E’ invero dirimente rilevare che la Corte territoriale, dopo avere ricostruito con precisione l’iter processuale, sia in primo che in secondo grado, volto ad ottenere dal giornale domenicale “The O.” la trascrizione integrale dell’intervista rilasciata dalla G. e dato atto della risposta negativa pervenuta, secondo cui il materiale richiesto non era stato reperito né presso li giornalista, che a propria firma aveva pubblicato l’intervista, né presso “The G.”, al cui gruppo il domenicale appartiene, ha concluso coerentemente nel senso della impossibilità di verificare che le frasi, così come riportate nella lettera di contestazione, siano state effettivamente profferite dalla reclamante e in quale contesto (cfr. sentenza, pag. 12) e altrettanto coerentemente concluso nel senso che l’impossibilità di acquisire il testo integrale impedisce la valutazione dell’effettivo, significato e del tenore delle frasi medesime (pag. 14).
Con riferimento, poi, a quella parte della lettera di contestazione, in cui la Fondazione addebita alla lavoratrice la circostanza che sulle testate nazionali “L.R.” e “i.G.” fosse stata pubblicata altra sua dichiarazione di contenuto pregiudizievole (“Nessuno immagina che dietro a un balletto possano esserci storie di corruzione, di minacce e di compromessi, per mantenere il proprio posto sul palco”), la Corte territoriale ha osservato, con motivazione anch’essa congrua ed esente da vizi logici, come, in primo luogo, la Fondazione T. alla S. non avesse offerto alcuna prova del fatto che detta frase fosse stata effettivamente pronunciata dalla G. nel corso di interviste rilasciate o nell’ambito di dichiarazioni rese a commento del contenuto dell’articolo apparso sul giornale britannico e come, d’altra parte, entrambi gli articoli prodotti dalla parte reclamata non alludessero in alcun modo ad una specifica intervista diretta, svoltasi con la G., ma si limitassero a riprendere, con l’aggiunta di frasi pronunciate da altre ballerine, brani acquisiti dall’articolo precedentemente apparso su “The O.”: con la conseguenza che, anche per questa parte della lettera di contestazione, non vi era alcuna prova che la lavoratrice avesse effettivamente pronunciato la frase che le era stata addebitata.
Risultano altresì infondati il quarto, il quinto e li sesto motivo di ricorso.
Il quarto motivo, il quale parte dall’assunto secondo cui graverebbe sul lavoratore l’onere di provare che le dichiarazioni pregiudizlevoli per il datore di lavoro attribuitegli in una intervista sono il risultato di travisamenti del giornalista, realizza, con tutta evidenza, una inversione delle regole di riparto dell’onere probatorio che presiedono alla materia dei licenziamenti (art. 5 L. 15 luglio 1966, n. 604), regole che – nella fattispecie in esame – onerano il datare della dimostrazione sia del fatto estrinseco della dichiarazione, così come riportata su quotidiani e periodici, sia della sua reale conformità alle frasi effettivamente pronunciate dal lavoratore, così da provare la riconducibilità a quest’ultimo del contenuto che si reputa denigratorio, solo tale riconducibilità potendo condurre all’integrazione del fatto impeditivo o estintivo del rapporto di lavoro.
Il quinto motivo, imputando alla sentenza impugnata nullità per motivazione apparente, là dove perviene ad escludere la riferibilità alla G. delle frasi addebitate, non tiene in alcun conto il fatto che tale conclusione, diversamente da quanto opinato dalla ricorrente, appare come la logica, quanto inevitabile, sintesi delle premesse del ragionamento seguito dalla Corte territoriale, secondo quanto si è già rilevato nei trattare dei primi tre motivi di ricorso.
Il sesto motivo, con il quale si censura l’omesso esame della recidiva, quale fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti, piega esplicitamente la critica così rivolta alla sentenza di secondo grado “ai fini dell’accoglimento dell’impugnativa del licenziamento”.
Peraltro il fatto, di cui si assume la decisività, non ha, in realtà, tale carattere, posto che, da un lato, come pacifico, la recidiva non è elemento costitutivo della contestata fattispecie disciplinare; dall’altro, essa potrebbe esclusivamente rilevare sui piano della valutazione di proporzionalità tra la sanzione applicata e il fatto, ove di questo, diversamente dal caso in esame, fosse stata accertata la verità materiale.
I motivi settimo e ottavo, che possono esaminarsi congiuntamente, vedendo sulla stessa questione, sono egualmente infondati, alla luce del principio di diritto di cui a Cass. 31 luglio 2015, n. 16265, per li quale “ai sensi dei combinato disposto dei commi 47 e 67 dell’art. 1 della L. n. 92 del 2012, nei giudizi aventi ad oggetto i licenziamenti disciplinari, al fine di individuare la legge regolatrice del rapporto sul versante sanzionatorio, va fatto riferimento non al fatto generatore del rapporto, né alla contestazione degli addebiti, ma alla fattispecie negoziale del licenziamento, sicché l’art. 1, comma 42 della legge n. 92 cit. si applica solo ai nuovi licenziamenti, ossia a quelli comunicati a partire dal 18 luglio 2012, data di entrata in vigore della nuova disciplina”.
Anche i motivi nono, decimo, undicesimo e dodicesimo possono essere esaminati in via congiunta, riguardando tutti, sotto i differenti profili rispettivamente indicati, la questione dell’aliunde perceptum.
Al riguardo deve, in primo luogo, rilevarsi come la sentenza impugnata, disponendo la condanna della Fondazione “al risarcimento del danno nella misura delle retribuzioni globali di fatto intercorrenti dal giorno del licenziamento alla effettiva reintegrazione, con il versamento dei relativi contributi assistenziali e previdenziali” (cfr. sentenza, pag. 18), abbia, in realtà, e sia pure per implicito, pronunciato anche sull’eccezione in esame, alla stregua della disciplina applicabile ratione temporis, posto che la deduzione di “quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative” si configura come un mero limite, operante sul piano delle conseguenze patrimoniali, di una indennità che deve essere ordinariamente “commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto”.
Ne consegue che la pronuncia risarcitoria secondo tale criterio, come nella specie, involge in sé anche l’esame, ed il rigetto, di ogni fattore di eventuale riduzione, quale l’aliunde perceptum, siccome incompatibile rispetto ad una pronuncia di condanna commisurata alla retribuzione globale di fatto.
La motivazione seguita sul punto dalla Corte territoriale non è, a ben vedere, neppure apparente, essendo chiaro che, per pervenire alla statuizione di condanna della Fondazione al risarcimento del danno nella misura delle retribuzioni globali di fatto, Il giudice di appello ha dovuto necessariamente considerare, quale premessa del suo ragionamento, l’esistenza di limiti alla disciplina legale e la circostanza di averla applicata dà conto (sia pure, come si è detto, per implicito) dell’avvenuto accertamento dell’insussistenza di tali limiti.
Né infine può ritenersi che la sentenza impugnata sia incorsa nell’omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360 n. 5 (e cioè avere, la G., operato come insegnante quantomeno per l’anno accademico 2012/2013 in una nota scuola di danza milanese), trattandosi di fatto privo della “decisività” che deve essere riconosciuta, ricorrendo le specifiche condizioni, al fatto storico accertato come esistente, mentre detta attività di insegnamento ha formato oggetto di semplice allegazione e di una produzione (di una comunicazione tratta da un sito internet) non accompagnata se non da istanze istruttorie generiche e di palese natura esplorativa (“esibizione della documentazione attestante i redditi da lavoro della ricorrente: cfr. nella sentenza impugnata, pag. 4, conclusioni per la parte reclamata).
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cessazione, liquidate in euro 100,00 per esborsi e in euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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