CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza n. 8805 del 4 maggio 2016
TRIBUTI – IVA – DETRAZIONE – ACQUISTI DA SOCIETA’ “CARTIERE” – FRODE CAROSELLO – RECUPERO DELL’IMPOSTA DETRATTA – NECESSITA’ DI PROVA DA PARTE DELL’UFFICIO DELLA CONSAPEVOLEZZA NEL CESSIONARIO DELL’ESISTENZA DELLA FRODE – ESCLUSIONE – BUONA FEDE DEL CONTRIBUENTE – PROVA SECONDO IL GRADO DI DILIGENZA OSSERVATA
RITENUTO IN FATTO
A seguito di p.v.c. redatto sulla base della verifica fiscale svolta dalla G.d.F. di Pordenone, nonché delle segnalazioni di vari Uffici territoriali originate da controlli a carico della società F. s.r.l., dell’impresa A. di C. F., e di altre Imprese operanti nel settore del commercio di autoveicoli, l’Agenzia delle entrate notificava alla società B. s.r.l. un avviso di accertamento per il recupero a tassazione dell’Iva detratta nell’anno di imposta 2004 (€ 405.270,72 per imposta, € 535.771,13 per sanzioni ed € 17.954,06 per interessi), relativa a fatture di acquisto di autovetture emesse dalle fornitrici F. s.r.l., Pilot s.r.l., A. e C. Service di L. B. A., in quanto afferenti operazioni ritenute soggettivamente inesistenti, trattandosi di società c.d. cartiere interposte nell’acquisto di autovetture presso fornitori francesi in esenzione da Iva (c.d. frodi carosello); in sostanza, la contribuente avrebbe assolto in rivalsa e poi detratto l’Iva non pagata dalle quattro fornitrici italiane, con un risparmio di imposta che aveva consentito alla contribuente di praticare consistenti sconti agli acquirenti finali.
L’adita C.T.P. di Pordenone accoglieva il ricorso del contribuente, per avere questi fornito la prova sia dell’avvenuta corresponsione dell’imposta indicata in fattura, sia dell’inerenza dell’operazione fatturata, mentre l’Ufficio, pur avendo dimostrato che le fornitrici erano delle “cartiere”, non aveva fornito la prova della cosciente partecipazione alla frode da parte della contribuente.
La C.T.R. del Friuli Venezia Giulia, respinta preliminarmente l’eccezione di nullità sollevata dall’Ufficio per contraddittorietà della motivazione della sentenza di prime cure, la confermava integralmente, respingendo sia l’appello principale dell’Ufficio, sia quello incidentale sulle spese proposto dalla società.
Per la cassazione della sentenza d’appello n. 62/08/09 dell’11.8.2009, l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso affidato a quattro motivi, cui la contribuente ha resistito con controricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo di ricorso, proposto in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c., l’Agenzia delle entrate deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 19 comma 1, e 21 comma 6, del d.P.R. n. 633/72, ritenendo che erroneamente il giudice d’appello ha preteso la prova di una consapevolezza effettiva nel cessionario dell’esistenza della frode, se non della sua partecipazione dolosa alla stessa, essendo invece sufficiente che nel suo comportamento possa ravvisarsi una negligenza negoziale.
2. Il secondo mezzo solleva una censura di nullità, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4), c.p.c., per violazione degli artt. 2909 c.c., 116 e 324 c.p.c., in relazione al preteso giudicato interno formatosi sulla natura di “cartiere” delle società cedenti.
3. Con il terzo motivo si denuncia invece, in relazione tanto al n. 3) quanto al n. 4) dell’art. 360, primo comma, c.p.c., la violazione degli artt. 2700 c.c., 115 e 116 c.p.c., nonché 52 comma 6 e 54 comma 2, d.P.R. n. 633/72, in combinato disposto degli artt. 57, comma 1, D.Lgs. n. 546/92 e 112 c.p.c., deducendosi che la C.T.R, non avrebbe potuto disconoscere l’efficacia probatoria del processo verbale di constatazione, in quanto atto pubblico, facente prova fino a querela di falso dei fatti constatati dal pubblico ufficiale in ordine alla attestata mancanza di strutture aziendali delle imprese cedenti, tanto più trattandosi di circostanze di fatto allegate dall’amministrazione e mai contestate dalla contribuente.
4. L’ultimo motivo contiene invece una censura motivazionale in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5), c.p.c., poiché il collegio giudicante regionale, negando l’esistenza di idonee prove documentali, sarebbe incorso nell’omesso esame di documenti decisivi, segnatamente “il verbale dell’Ufficio di Bolzano”.
5. Il ricorso merita accoglimento per il primo motivo, tenuto conto dell’indirizzo di questa Corte ormai consolidatosi sul controverso tema delle c.d. operazioni soggettivamente inesistenti, che si va brevemente a riepilogare.
6. In Ipotesi di contestazione – come nella fattispecie In esame – della indebita detrazione di fatture a fini IVA, in quanto relative ad operazioni ritenute inesistenti, l’Ufficio è tenuto a fornire la prova o che l’operazione fatturata non è mai stata posta in essere, ovvero che essa non è intercorsa tra i soggetti indicati nella fattura, a tal fine indicando gli elementi – anche solo indiziari – sui quali si fonda la contestazione, ivi compresa la conoscenza o conoscibilità del cessionario/committente in ordine alla fittizietà delle operazioni; ricade invece sul contribuente l’onere di dimostrare la fonte legittima della detrazione e la sua mancanza di consapevolezza di partecipare ad un’operazione fraudolenta, non essendo sufficienti, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili (Cass. sent. n. 428/2015, n. 28683/2015, n. 12802/2011).
7. Anche la Corte di Giustizia UE ha più volte ribadito che, ove un’operazione sia considerata come non effettivamente realizzata – per evasioni o irregolarità commesse a monte dell’operazione dedotta a fondamento del diritto alla detrazione – l’Amministrazione finanziaria deve dimostrare che il destinatario della fattura sapeva, o avrebbe dovuto sapere, che l’operazione si inseriva nel quadro di un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto, alla luce di elementi oggettivi ed alla stregua dei principi sull’onere della prova vigenti nello Stato membro, senza potersi pretendere dal predetto destinatario verifiche inesigibili, quanto alla qualità di soggetto passivo IVA in capo al fatturante, o alla sua disponibilità dei beni ceduti (C. Giust. 31.1.13, C-642/11; 6.12.12, C- 285/11; 21.6.12 in C-80/11 e C-142/11).
8. Non sembra quindi revocabile in dubbio che l’Amministrazione possa fornire la prova anche mediante presunzioni – come espressamente prevede, per l’IVA, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2 (e analogamente, per le imposte dirette, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 39, comma 1, lett. d) – e mediante elementi indiziari (cfr. Cass. n. 21953/07, n. 9108/12, n. 23560/12, n. 27718/13, n. 20059/2014; v. anche C. Giust. 6.7.06 in C. 439/04, 21.2.06 in C- 255/02, 21.6.12 in C -80/11, nonché 6.12.12 cit. e 31.1.13 cit).
9. E’ pur vero che con una recente pronunzia la Corte europea ha sostenuto – invero in una particolare fattispecie in cui, si noti, era impossibile identificare il reale fornitore dei beni – che “le disposizioni della sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di Imposta sul valore aggiunto; base imponibile uniforme, come modificata dalla direttiva 2002/38/CE del Consiglio, del 7 maggio 2002, devono essere interpretate nel senso che esse ostano a una normativa nazionale … che neghi a un soggetto passivo il diritto di detrarre l’imposta del valore aggiunto dovuta o assolta per beni che gli sono stati ceduti sulla base dei rilievi che la fattura è stata emessa da un soggetto che deve essere considerato, con riferimento ai criteri previsti da tale normativa, un soggetto inesistente e che è impossibile identificare il vero fornitore dei beni, tranne nel caso in cui si dimostri, alla luce di elementi oggettivi e senza esigere dal soggetto passivo verifiche che non gli incombono, che tale soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta cessione si iscriveva in un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare” (Corte Giust. 22.10.2015 in C-277/14).
10. Tuttavia questa Corte, pur precisando che in taluni casi “l’onere probatorio dell’amministrazione finisce con l’appesantirsi in quanto, di norma, non è possibile esigere che il cessionario/committente, al fine di assicurarsi che non sussistano irregolarità o evasioni nella catena delle cessioni, verifichi che l’emittente della fattura correlata ai beni e ai servizi ne disponesse e fosse in grado di fornirli e che abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’IVA, o che disponga dei relativi documenti” (Cass. n. 24490/2015), ha comunque rimarcato che, a fronte di indizi che consentano al cessionario/committente di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasione – indizi che l’amministrazione deve allegare e provare appunto in base ad elementi oggettivi, per quanto presuntivi – egli continua ad essere gravato da un obbligo di verifica di quegli stessi elementi (cfr. Cass. n. 20059/2014, n. 15044/2014).
11. In concreto, ai fini del quadro probatorio – anche indiziario – che l’Amministrazione deve offrire sulla presumibile assenza di buona fede del cessionario o committente, sono stati valorizzati, ad esempio, la circostanza che la prestazione non poteva essere effettivamente resa dal fatturante, perché sfornito della sia pur minima dotazione personale e strumentale adeguata alla sua esecuzione (cfr. Cass. n. 5912/2010, Corte giust, 13 febbraio 2014 in causa C-18/13), ovvero l’immediatezza dei rapporti tra cedente/prestatore fatturante interposto e cessionario/committente, a fronte di una conclamata inidoneità allo svolgimento dell’attività economica (cfr. Cass. n. 6229/2013, n. 24426/2013, n. 25778/2014), trattandosi di elementi tutti sintomatici e potenzialmente idonei a consentire che il cessionario/committente si renda conto (o almeno sospetti) l’esistenza di irregolarità od evasione. A fronte di una simile offerta di prova, è dunque il contribuente a dover provare – in applicazione dei principi generali In materia di ripartizione dell’onere probatorio (art. 2697 c.c.) – di non essere a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione non era il fatturante ma altri, diversamente dovendosi negare il diritto alla detrazione dell’IVA versata (Cass. 6229/13); non si è infatti al cospetto di una inversione dell’onere della prova in ordine ai fatti costitutivi della pretesa, trattandosi piuttosto della normale dialettica tra prova e controprova che presidia il corretto delinearsi di un rapporto tra parti processuali (Cass. n. 22005/14).
12. Nel caso in esame, risultando controversa non già l’esistenza (oggettivamente pacifica) di una operazione di frode, bensì la consapevole partecipazione a detta frode della società cessionaria, odierna contribuente, il giudice d’appello non ha osservato i superiori canoni di giudizio ed i conseguenti criteri di ripartizione dell’onere probatorio, laddove ha ritenuto: a) che, una volta corrisposta, la detraibilità dell’lva può essere negata “solamente quando risulti provato che la formazione della fattura, costituente titolo per la detrazione, è conseguente ad un accordo fraudolento con altro soggetto, accordo finalizzato ad evadere l’imposta da questi a sua volta dovuta”; b) che “al contribuente non può porsi a carico altro se non di provare la effettività della transazione ed il pagamento dell’imposta giacché la prova che il dante causa è solvibile (o meglio, che intende a sua volta assolvere all’I.V.A.), che ha una consistenza sul piano organizzativo, strutturale e commerciale e che non costituisce mera cartiera è prova che, materialmente, nessun avente causa è in grado di fornire”.
13. Come già esposto, questa Corte ritiene al contrario – con orientamento granitico che trova a ben vedere conforto anche nella più rigorosa e recente giurisprudenza eurounitaria (Corte Giust. 22.10.2015 cit.) – che, a fronte dì elementi che consentano al cessionario quantomeno di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasione – elementi che l’amministrazione deve ovviamente allegare e può provare anche in via presuntiva – il contribuente si considera gravato da un onere di diligente verifica delle corrispondenti circostanze, rispondendo perciò dell’eventuale difetto della diligenza specificamente richiesta agli operatori professionali non solo laddove emerga che egli sapeva, ma anche ove risulti che egli “avrebbe dovuto sapere” che l’operazione cui ha preso parte si inscriveva all’interno di un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto (cfr. Cass. nn. 428 e 28683 del 2015, nn. 20059 e 15044 del 2014, sopra cit.).
14. Una volta chiarito l’esposto principio di diritto, spetta pur sempre al giudice tributario di merito valutare – con giudizio di fatto censurabile in cassazione solo per vizi attinenti alla congruità e coerenza logica della motivazione – la sussistenza del caratteri di gravità, precisione e concordanza degli Indizi forniti dall’amministrazione finanziaria, esaminandoli sia singolarmente, sia nel loro complesso, nonché la specifica consistenza e rilevanza della prova contraria eventualmente offerta dal contribuente, esponendo adeguatamente l’esito di tale concomitante giudizio nella motivazione della sentenza. A tal fine, la causa va dunque rimessa all’esame dei giudici di secondo grado, non senza mancarsi di richiamare lo specifico precedente reso tra le medesime parti – ed in termini del tutto analoghi – da questa stessa Corte, con sentenza n. 22005 del 17 ottobre 2014.
15. L’accoglimento del primo motivo di ricorso rende superfluo l’esame del terzo e del quarto, che resta assorbito a prescindere dei rilevabili profili di inammissibilità. Va invece rigettato II secondo motivo, che erroneamente invoca il formarsi del giudicato sulla natura di “cartiere” delle imprese cedenti, che però costituisce non già un capo di domanda, bensì un semplice presupposto di fatto che, per quanto rilevante, non è nemmeno decisivo ai fini della decisione, dovendo in ogni caso appurarsi il grado di diligenza spiegata dal contribuente, in relazione al riscontro della sua consapevolezza di simili caratteristiche.
16. In conclusione, la sentenza impugnata va cassata con rinvio, per una rivisitazione del materiale probatorio offerto dalle parti alla luce del principio di diritto sopra riepilogato nel punti da 11) a 13). Il giudice del rinvio provvederà altresì a regolare le spese processuali del grado di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso e rigetta il secondo, cori assorbimento del terzo e del quarto, cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della C.T.R. del Friuli Venezia Giulia, che provvederà anche sulle spese del grado.