CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 9195 del 6 maggio 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – IMPRESA FAMILIARE – LAVORO NERO – ESERCIZIO DI RISTORAZIONE – IMPIEGO DI FAMILIARI – ACCESSO ISPETTIVO – OMESSA ISCRIZIONE NEL LIBRO MATRICOLA – SANZIONE
Ritenuto in fatto
1. Il 23 ottobre 2002 la Guardia di finanza ispezionava i locali adibiti da S.B. a proprio esercizio di ristorazione, ivi riscontrando la presenza al lavoro del fratello F. e della cognata L.T.. I verbalizzanti riferivano: “i familiari identificati all’atto dell’accesso preso la sede della ditta vengono qualificati quali coadiuvanti familiari, senza vincolo di lavoro subordinato” (p.v.c. pag.8). Indi, con atto notificato il 13 agosto 2003, era applicata al titolare della ditta sanzione per aver omesso di istituire il libro matricola e di compilarlo inserendovi i nominativi dei predetti collaboratori.
2. Il contribuente impugnava l’atto assumendo che il fratello e la cognata non avrebbero dovuto essere considerati veri e propri dipendenti con vincolo di subordinazione ma meri collaboratori familiari per i quali vigeva la presunzione di gratuità delle loro prestazioni. Il ricorso era rigettato dalla C.t.p. di Genova che osservava come non fosse stato addotto alcun atto costitutivo d’impresa familiare, né altro elemento dimostrativo della pretesa insussistenza del vincolo di subordinazione.
3. Per la riforma di tale decisione il contribuente proponeva appello, al quale il fisco resisteva contestualmente rilevando che la sanzione andava solo meglio calibrata secondo le sopravvenute indicazioni della Corte costituzionale (sent. n. 144 del 2005). La C.t.r. della Liguria, con sentenza dell’8 ottobre 2008, procedeva unicamente alla rideterminazione quantitativa della sanzione riducendola con riferimento al lasso temporale tra l’inizio dell’attività (atto di cessione del 5 aprile 2002) e il giorno della constatazione della violazione amministrativa.
4. Per la cassazione di tale decisione S.B. propone ricorso affidato a due motivi. L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso; il contribuente replica con memoria.
Considerato in diritto
1. Con il primo motivo di ricorso, denunciando violazione di norme di diritto sostanziali, il contribuente afferma che l’art. 3, comma 3, del D.L. n. 12 del 2002 e gli artt. 2094, 2697 e 2729 cod. civ. devono essere interpretati nel senso che, stante la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative in ambito familiare, nel caso di prestazioni rese da stretti congiunti dell’imprenditore, che dichiarino di non percepire compenso, e in assenza dei altri elementi idonei a dimostrare i requisiti indefettibili dell’onerosità e della subordinazione gerarchica, debba ritenersi operante l’anzidetta presunzione e debba correlativamente escludersi l’esistenza di rapporto di lavoro fra l’imprenditore e i congiunti.
2. Col secondo motivo di ricorso il contribuente denuncia errore di giustificazione della decisione di merito sul fatto, laddove la C.t.r. trascura di motivare sulla contestata qualificazione di lavoro subordinato del rapporto intercorso tra il contribuente, il fratello e la cognata, in relazione al contenuto del processo verbale della Guardia di finanza e alla portata della disposizione sanzionatoria.
3. Entrambi i mezzi non sono fondati.
3.1. L’art. 3, comma 3, del D.L. n. 12 del 2002 (nel testo anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 36 bis del d.l. n. 223 del 2006) stabilisce che l’impiego di lavoratori dipendenti non risultanti dalle scritture o altra documentazione obbligatorie, è punito con la sanzione amministrativa dal 200 al 400 per cento dell’importo, per ciascun lavoratore irregolare, del costo del lavoro calcolato sulla base dei vigenti contratti collettivi nazionali, per il periodo compreso tra l’inizio dell’anno e la data di constatazione della violazione.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 144 del 2005, ha stabilito che è costituzionalmente illegittimo, con riferimento all’art. 24 cost., l’art. 3, comma 3, del d.l. n. 12 del 2002, nella parte in cui, prevedendo per il datore di lavoro che abbia assunto lavoratori irregolarmente una sanzione pari allo stipendio a questi dovuto sin dall’inizio dell’anno in cui è stata accertata la violazione, non ammette la possibilità di provare che il rapporto di lavoro irregolare abbia avuto inizio successivamente al primo gennaio del suddetto anno. A tale principio di diritto si è attenuto il giudice d’appello dando tuttavia per scontato e, dunque, implicitamente accertato il presupposto del vincolo di subordinazione lavorativa che legava i due familiari al contribuente verificato.
3.2. Costituisce jus receptum il principio secondo cui ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato si presume effettuata a titolo oneroso, ma può essere ricondotta ad un rapporto diverso istituito affectionis vel benevolentiae causa, caratterizzato dalla gratuità della prestazione. A tale fine non rileva il grado maggiore o minore di subordinazione, cooperazione o inserimento del prestatore di lavoro, ma la sussistenza o meno di una finalità ideale alternativa rispetto a quella lucrativa, che deve essere rigorosamente provata, fermo restando che la valutazione al riguardo compiuta dal giudice del merito è incensurabile in sede di legittimità, se immune da errori di diritto e da vizi logici (conf. tra le tante Sez. L, Sentenze n. 3304 del 06/04/1999, n. 1833 del 26/01/2009, n. 11089 del 03/07/2012). Invero, per negare che le prestazioni lavorative svolte nell’ambito di un gruppo parentale diano luogo ad un rapporto di lavoro subordinato, occorre accertare l’esistenza di una partecipazione costante dei vari membri alla vita e agli interessi del gruppo, ossia uno stato di mutua solidarietà e assistenza, dovendo in difetto di ciò, specie quando le prestazioni lavorative siano svolte al di fuori della comunità familiare, escludersi l’ipotesi del lavoro gratuito, la cui presunzione, peraltro, non opera quando i soggetti non sono conviventi sotto il medesimo tetto ma in unità abitative autonome e distinte (conf. tra le tante Sez. L, Sentenze n. 10664 del 14/12/1994 e n. 14579 del 27/12/1999).
3.3. Sul versante dell’impresa familiare si osserva che l’istituto, per il carattere residuale emergente dell’incipt dell’art. 230 bis cod. civ., concerne l’apporto lavorativo all’impresa del congiunto che non rientri nell’archetipo del lavoro subordinato o per il quale non sia raggiunta la prova dei connotati tipici della subordinazione. Sicché l’ipotesi del lavoro familiare gratuito resta confinata in un’area limitata. Pertanto, qualora un’attività lavorativa sia stata svolta nell’ambito dell’impresa, il giudice di merito deve valutare le risultanze di causa per distinguere tra lavoro subordinato e compartecipazione all’impresa familiare, escludendo, comunque, la gratuità della prestazione per solidarietà familiare (Sez. L, Sentenza n. 19925 del 22/09/2014, Rv. 632591). Infatti l’art. 230 bis cit. riconoscendo al familiare che effettui prestazioni lavorative nell’impresa familiare un diritto di partecipazione agli utili e la liquidazione in denaro alla loro cessazione (o in caso di alienazione dell’azienda), esclude una presunzione di gratuità delle dette prestazioni lavorative, sicché l’asserita gratuità richiede la prova di una causa affectionis vel benevolentiae, la quale non può desumersi dalla mera circostanza negativa che il familiare non abbia avanzato, in costanza del rapporto, pretese retributive (Sez. 1, Sentenza n. 2138 del 01/03/1988, Rv. 457986).
3.3. Nella specie la C.t.p., senza essere smentita dalla C.t.r. e senza impugnazione specifica sul punto, ha persino escluso l’esistenza dei requisiti dell’impresa familiare, né risulta dal ricorso che il contribuente abbia addotto indicatori fattuali della ricorrenza di prestazioni svolte affectionis vel benevolentiae causa ovverosia l’esistenza di una partecipazione costante dei vari congiunti alla vita e agli interessi del gruppo, cioè quello stato di mutua solidarietà e assistenza e di convivenza sotto lo stesso tetto logicamente e giuridicamente fondanti l’ipotesi del lavoro gratuito. Nulla di tutto ciò è stato addotto da contribuente per cui non può dirsi che il giudice d’appello abbaia trascurato regole giuridiche e/o elemento logici e circostanziali favorevole alla tesi delle gratuità sostenuta dal contribuente sulla scorta di un improprio passaggio valutativo, equivoco e non vincolante del processo verbale di constatazione.
3.4. Preliminarmente, si rileva la carenza di legittimazione processuale del Ministero controricorrente, che non è stato parte nel giudizio di secondo grado, non è stato evocato nel giudizio di legittimità ed è oramai estraneo al contenzioso tributario dopo la creazione delle agenzie fiscali. L’intervento ministeriale in cassazione con controricorso è, dunque, inammissibile e il ricorso del contribuente, ovviamente, va esaminato per il fisco unicamente riguardo all’Agenzia delle entrate, che è la sola a essere legittimata ad causam (oltre ad Equitalia).
4. Rigettato il ricorso, le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza del contribuente nei confronti dell’Agenzia e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il contribuente la pagamento delle spese liquidate in € 2.625,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
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