CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 9947 del 10 maggio 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – RAPPORTO A TERMINE – DIPENDENTE POSTALE – CONTRATTO A TERMINE – NULLITA’ – IMPRESCRITTIBILITA’ DELL’AZIONE
Svolgimento del processo/Motivi della decisione
1 – Considerato che è stata depositata relazione del seguente contenuto:
“Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Ancona, L. F. chiedeva che fosse dichiarato nullo il termine apposto ad un contratto a tempo determinato con il quale era stata assunta alle dipendenze di Poste Italiane S.p.A., stipulato ai sensi dell’art. 8 del c.c.n.l. 26/11/94, come integrato dall’accordo sindacale 25/9/97, per il periodo 1/6/2000-31/8/2000, per “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso …”. Il Tribunale rigettava il ricorso. La decisione veniva riformata dalla Corte di appello di Ancona che, esclusa la decadenza per mancato rispetto del termine ex art. 32 della legge n. 183/2010 ed altresì esclusa la risoluzione per mutuo consenso, riteneva l’illegittimità del termine apposto al contratto e condannava la società a riammettere l’appellante in servizio ed a risarcirle il danno quantificato in otto mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Per la cassazione della sentenza ricorre Poste Italiane S.p.A. con tre motivi.
La lavoratrice intimata resiste con controricorso.
Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, in correlazione alla L. n. 10 del 2011. Sostiene la ricorrente che erroneamente la Corte territoriale avrebbe rigettato l’eccezione di decadenza per mancato rispetto del termine di sessanta giorni previsto dalla suddetta norma. Rileva che, nella specie, nessuna impugnativa stragiudiziale vi era stata entro il termine del 23/1/2011 (fissato dalla L. n. 183 del 2010) e che il ricorso introduttivo del giudizio era stato depositato solo in data 14/12/2011. Evidenzia che, a fronte di una decadenza già verificatasi, non poteva essere invocata la successiva disposizione di cui alla L. n. 10 del 2011 che ha prorogato i termini, non potendo quest’ultima avere efficacia retroattiva.
Il motivo è manifestamente infondato come già ritenuto da questa Corte di legittimità, da ultimo, con sentenza n. 2494 del 2015.
Appare utile ricostruire il quadro normativo che si è composto per effetto delle disposizioni approvate tra il novembre 2010 ed il febbraio 2011.
Come è noto la L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, ha introdotto rilevanti modifiche in ordine alle conseguenze economiche della accertata illegittimità di termini apposti a contratti di lavoro (L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5 e segg. cit.) innovando la disciplina delle impugnazioni dei contratti stessi (art. 32, comma 1, L. ult. cit.).
Prima dell’entrata in vigore del cd. Collegato Lavoro l’azione di nullità parziale del contratto, ex art. 1418 cod. civ. e art. 1419 cod. civ., comma 2, per sua natura imprescrittibile, era proponibile in ogni tempo.
Solo i diritti discendenti dalla conversione ex lege del rapporto a tempo determinato erano soggetti a prescrizione.
Con la L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 1-4, nel modificare l’assetto normativo dettato dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art 6 commi 1 e 2, si è esteso il regime delle decadenze a fattispecie che prima della L. 183 non ne erano toccate.
Sotto l’intitolazione “Decadenze e disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo determinato” il legislatore è intervenuto per modificare, in primo luogo, ed in via generale, la disciplina dell’impugnazione dei licenziamenti.
È stato introdotto, accanto al termine di decadenza di sessanta giorni per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, già esistente, un ulteriore termine di duecentosettanta giorni per la proposizione del ricorso giurisdizionale.
Tali termini sono stati successivamente modificati dalla L. 28 giugno 2012 n. 92 (c,d. Legge Fornero) rispettivamente in novanta e centottanta giorni.
La L. n. 183 del 2010, art. 32, quindi, dopo aver precisato al comma 2 che la L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6, nel testo modificato si applica “anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento”, con i successivi commi 3 e 4 estende l’applicazione della disciplina della decadenza anche ad altre forme contrattuali ed atti datoriali.
Per l’effetto occorre impugnare stragiudizialmente nel termine di sessanta giorni (poi divenuti novanta) e quindi proporre l’azione giudiziaria nel termine successivo di duecentosettanta giorni (poi centottanta): i licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto; il recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto, di cui all’art. 409, n. 3) del codice di procedura civile; il trasferimento ai sensi dell’art. 2103 cod. civ., con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento; l’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, artt. 1, 2 e 4 e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo.
Del pari sono assoggettati all’obbligo di impugnazione ed ai termini di decadenza ricordati: i contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, artt. 1, 2 e 4, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla scadenza del termine; i contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, e già conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge; le cessioni di contratti di lavoro avvenute ai sensi dell’art. 2112 cod. civ., con termine decorrente dalla data del trasferimento; ogni altro caso, compresa l’ipotesi prevista dal d.lgs. 10 settembre 2003. n. 276 in cui si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto.
In definitiva e con specifico riferimento ai contratti di lavoro a termine la disciplina dettata nel nuovo testo della L. n. 604 del 1966, art. 6, si applica, a decorrere dalla data di entrata in vigore della L. n. 183 del 2010 (il 24 novembre 2010), a tutti i contratti, a quelli ancora in corso ma anche a quelli già conclusi, stipulati sia ai sensi della L. n. 368 del 2001 che in base alle norme previgenti.
Viene così disegnato un sistema omogeneo di termini di impugnazione sia stragiudiziale che giudiziale. E’ introdotto ex novo un rigoroso regime di decadenze anche per l’impugnazione della nullità del termine apposto al contratto di lavoro, intervenendosi su un sistema, da lunghissimo tempo consolidato, fino ad allora assoggettato alla sola disciplina della prescrizione dei diritti.
È in tale quadro normativo che si inserisce il cd. decreto “mille proroghe”, vale a dire il D.L. 29 dicembre 2010, n. 225 convertito con modificazioni nella L. 26 febbraio 2011, n. 10.
In particolare, con il D.L. n. 225 del 2010, art. 2, comma 54, nel testo integrato dalla legge di conversione n. 10 del 2011, è stato introdotto alla L. n. 183 del 2010, art. 32, il comma 1 bis con il quale si dispone che: “In sede di prima applicazione, le disposizioni di cui alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6, comma 1, come modificato dal comma 1 del presente articolo, relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011”.
La norma, assai poco organica rispetto al contenuto dell’art. 32 che intende differire, ha determinato il formarsi di orientamenti di merito tra loro del tutto opposti.
Nel tentativo di ricondurre a sistema le norme che si sono succedute, questa Corte ha ritenuto che: “La L. 4 novembre 2010, n, 183, art. 32, comma 1 bis, introdotto dal D.L. 29 dicembre 2010, n. 225, convertito dalla L. 26 febbraio 2011, n. 10, nel prevedere “in sede di prima applicazione” il differimento al 31 dicembre 2011 dell’entrata in vigore delle disposizioni relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento, riguarda tutti gli ambiti di novità di cui al novellato art. 6 della L. 15 luglio 1966, n. 604, e dunque non solo l’estensione dell’onere di impugnativa stragiudiziale ad ipotesi in precedenza non contemplate, ma anche l’inefficacia di tale impugnativa, prevista dal comma 2 del medesimo art. 6 anche per le ipotesi già in precedenza soggette al relativo onere, per l’omesso deposito, nel termine di decadenza stabilito, del ricorso giudiziale o della richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato”.
Nel fare riferimento alla “prima applicazione” delle “disposizioni di cui all’art. 6, comma 1 (…)” la Corte ha evidenziato che si deve avere riguardo “all’ambito di novità insito nelle disposizioni in parola”.
La chiave di lettura da utilizzare va rinvenuta, appunto, nelle novità introdotte con la disposizione da prorogare.
Va osservato allora che l’art. 32 citato, nei suoi primi quattro commi, da un canto introduce ex novo un termine di decadenza per la proposizione dell’azione giudiziale di impugnazione dei licenziamenti prima non previsto, dall’altro estende il regime delle decadenze ad una serie di fattispecie che prima non ne erano interessate.
Come ritenuto da questa Corte, nelle prime pronunce che hanno applicato tale disciplina intervenute con specifico riguardo a fattispecie di impugnazione di licenziamenti (Cfr. Cass. n. 9203/2014 e poi anche n. 15434/2014, n. 24233/2014 e n. 24232/2014), la novità introdotta dalla norma va ravvisata nella previsione di un termine entro il quale depositare il ricorso giudiziario o comunicare alla controparte la richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato.
Tale termine è stato prorogato al 31/12/2011.
Con riguardo a tutte le altre fattispecie per le quali l’art. 32, ai commi 2, 3 e 4, ha introdotto dei termini di decadenza per l’impugnazione stragiudiziale e la proposizione dell’azione giudiziaria, il tratto di novità è costituito proprio da tale articolato regime.
Ciò premesso, per i contratti conclusi ai sensi del d.lgs. n. 368 del 2001, i cui termini non fossero ancora scaduti alla data di entrata in vigore del decreto “mille proroghe” (il 26 febbraio 2011), il sistema di decadenze previsto dalla L. n. 604 del 1966, art. 6, commi 1 e 2, nel testo modificato della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 1, più volte ricordata, non trova applicazione fino al 31 dicembre 2011.
Altrettanto deve ritenersi, induttivamente, per tutti quei contratti il cui termine fosse già scaduto alla data di entrata in vigore della proroga, rispetto ai quali però la decadenza non fosse ancora maturata.
Occorre verificare se, con riguardo ai contratti già conclusi alla data di entrata in vigore del Collegato Lavoro – stipulati anche in base alla normativa vigente prima del d.lgs. n. 368 del 2001 – e con riferimento a quelli i cui termini siano comunque decorsi prima dell’entrata in vigore della L. n. 10 del 2011, possa trovare applicazione la proroga dei termini di decadenza.
Al riguardo si osserva, ancora una volta, che la chiave di lettura da utilizzare sia il riferimento alle novità introdotte con la disposizione da prorogare.
Si è ricordato che costituisce novità la previsione di termini di decadenza anche per l’impugnazione dei contratti a termine.
È questa la disposizione della quale si intende differire la “prima applicazione” con la proroga al 31/12/2011.
Ha ritenuto allora la Corte che escludere dalla sua applicazione i contratti a tempo determinato già conclusi alla data di entrata in vigore della L. n. 183 del 2010 comporterebbe una irragionevole disparità di trattamento tra situazioni del tutto omogenee.
Si giustificherebbe la situazione in cui “una norma di cui è stata differita, senza ulteriore specificazione, l’entrata in vigore, resterebbe non di meno in vigore in alcuni casi; si verrebbe cioè, in via ermeneutica, a determinare la contemporanea vigenza e non vigenza di una medesima disposizione di legge, il che costituisce un risultato illogico e, al tempo stesso, contrario alla lettera della legge stessa” (cfr. Cass. n. 9203/2014 cit.).
Al contrario deve essere privilegiata una interpretazione delle norme che assicuri, in maniera uniforme, una generale e contestuale attuazione dell’intero sistema di decadenze a tutte le fattispecie alle quali si riferisce posto che il legislatore si è evidentemente determinato a differire l’applicazione delle novità introdotte con l’art. 32, comma 1 citato per evitare un passaggio traumatico al nuovo rigoroso regime di decadenze (v. con riguardo ad una diversa disciplina della decadenza la cui entrata in vigore era stata pure prorogata Cass. n. 9038 del 2011).
Una diversa interpretazione presterebbe il fianco a rilevanti dubbi di costituzionalità.
Di recente la Corte Costituzionale nell’esaminare sotto il profilo della violazione dell’art. 3 della Costituzione la disposizione contenuta nella L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. b) (cfr. Corte Cost. n. 155 del 2014) ha ritenuto che la previsione dell’applicazione del nuovo regime di decadenze, previsto dal comma 1 della stessa norma, ai contratti a termine già conclusi prima dell’entrata in vigore della L. n. 183 del 2010 e non anche a tutte le altre fattispecie elencate nella citata norma esauritesi prima di quella data, fosse legittima e non presentasse profili di irragionevolezza sul rilievo che le situazioni rispetto alle quali si pretendeva di ravvisare la violazione del principio di uguaglianza non presentavano quei caratteri di omogeneità rispetto ai quali era possibile ritenere irragionevole un trattamento differente.
Argomentando proprio da tale decisione, allora, si deve ritenere che ove, nella prima applicazione del nuovo testo della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 1, non si ritenesse applicabile la proroga della decadenza tutti i contratti a termine, e dunque anche a quelli che si siano conclusi prima dell’entrata in vigore del decreto “Mille proroghe” e per i quali, in ipotesi, sia già decorso il termine di decadenza, si determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento tra situazioni tra loro identiche.
In conclusione, dovendosi privilegiare una interpretazione costituzionalmente orientata del D.L. n. 225 del 2010, art. 1, comma 54, nel testo risultante dalle modifiche apportate dalla legge di conversione n. 10 del 2011, va ritenuto che la proroga al 31 dicembre 2011 dell’entrata in vigore della disciplina delle decadenze si applichi anche a tutti i contratti ai quali tale regime è esteso (così Cass. n. 2494 del 2015 cit.).
Infine, la disciplina in tema di decadenze e tutele, da ultimo introdotta con l’art. 28 del d.lgs. 81/2015, deve considerarsi applicabile ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in epoca successiva alla data di entrata in vigore del citato decreto legislativo n. 81, perdurando l’applicazione della disciplina di cui all’art. 32 della legge 183/2010 ai giudizi pendenti relativi ai contratti precedenti (v. Cass., nn. 21266 e 21521 del 2015).
Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione degli artt. 112, 116 e 117, dell’art. 1372, comma 1, cod. civ., dell’art 2697 nonché omessa motivazione circa fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, nn, 3, e 5, cod. proc. civ.), censurandosi la sentenza impugnata per aver escluso l’intervenuta risoluzione per mutuo consenso concentrato la propria motivazione solo sul decorso del tempo pur in presenza di evidenti elementi rivelatori del disinteresse, da parte della lavoratrice, al mantenimento della funzionalità del rapporto.
Il motivo non è fondato.
Come è noto, l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con nome imperative ex artt. 1418 e 1419, comma 2, cod. civ. Essa, pertanto, ai sensi dell’art. 1422 cod. civ., è imprescrittibile, pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione “ex lege” per illegittimità del termine apposto.
Ne consegue che il mero decorso del tempo tra la scadenza del contratto c la proposizione di siffatta azione giudiziale non può, di per sé solo, costituire elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà delle parti di risolvere il rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ovvero, in un ottica che svaluti il ruolo e la rilevanza della volontà delle partì intesa in senso psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come risoluzione per tacito mutuo consenso (v. Cass. 15 dicembre 1997, n. 12665; Cass. 25 marzo 1993, n. 824).
Comunque, consentendo l’ordinamento di esercitare il diritto entro limiti di tempo predeterminati, o l’azione di nullità senza limiti, il tempo stesso non può contestualmente e contraddittoriamente produrre, da solo e di per sé, anche un effetto di contenuto opposto, cioè l’estinzione del diritto ovvero una presunzione in tal senso, atteso che una siffatta conclusione sostanzialmente finirebbe per vanificare il principio dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità e/o la disciplina della prescrizione, la cui maturazione verrebbe “contra legem” anticipata secondo contingenti e discrezionali apprezzamenti.
Per tali ragioni appare necessario, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l’esercizio del diritto o dell’azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare “una volontà chiara e certa della parti di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. anche Cass., 2 dicembre 2000, n. 15403; Cass., 20 aprile 1998, n. 4003).
Tra l’altro, è onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso allegare prima e provare poi siffatte circostanze (v. Cass. Io febbraio 2010, n. 2279; Cass. 12 luglio 2010, n. 16303; Cass. 6 luglio 2007, n. 15624; Cass. 2 dicembre 2002, n. 17070; Cass. 2 dicembre 2000, n. 15403).
L’indirizzo consolidato di questa Corte (si vedano, oltre alle più datate decisioni sopra citate, Cass. 11 dicembre 2002, n. 17674; Cass. 17 dicembre 2004, n. 23554; Cass. 28 settembre 2007, n. 20390; Cass. 24 giugno 2008, n. 17150; Cass. 10 novembre 2008, n. 26935; Cass. 15 novembre 2010, n. 23057; Cass. 11 marzo 2011, n. 5887 e tra le più recenti, Cass. 28 gennaio 2014, n. 1780; Cass. 25 novembre 2015, n. 24069; Cass. 10 dicembre 2015, n. 24951; Cass. 22 gennaio 2016, n. 1179; Cass. 25 gennaio 2016, n. 1244) è, così, innanzitutto nel senso di ritenere che la mera inerzia del lavoratore nel contestare la clausola appositiva del termine non è sufficiente a far considerare sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinché possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, sicché la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto (v. Cass. 10 novembre 2008, n. 26935, Cass. 28 settembre 2007, n. 20390).
Tutte le sentenze citate hanno, nel caso concreto sottoposto all’esame di questa S.C., ritenuto giuridicamente corretta l’affermazione dei giudici di merito secondo cui la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto, anche se protratta per due o tre anni o più, non è sufficiente, in mancanza di ulteriori elementi di valutazione, a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione dei rapporto per tacito mutuo consenso.
Questa S.C., poi, ha più volte avuto modo di rilevare che non sono indicative di un intento risolutorio né l’accettazione del t.f.r. né la mancata offerta della prestazione, trattandosi di comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione del termine (cfr., Cass., n. 15628/2001, in motivazione). Lo stesso dicasi della condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni (cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonché, in senso analogo, Cass., n. 15900/2005, in motivazione)” – si vedano, in termini, anche le recenti Cass. 7 aprile 2014, n. 8061, Cass. 20 marzo 2014, n. 6632.
Nella specie, pacifico essendo tra le parti che nessuna eccezione di prescrizione dei diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione “ex lege” per illegittimità del termine apposto era stata ritualmente e tempestivamente formulata dalla società, deve ritenersi che la Corte di merito abbia fatto corretta applicazione delle sopraindicate regole, laddove ha evidenziato che il ritardo con cui la lavoratrice aveva agito in giudizio per far valere l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso non costituiva una inequivoca manifestazione di rinuncia alla sua prosecuzione o comunque una volontà diretta alla modifica del rapporto. Egualmente corretta è l’operata svalutazione di circostanze quali la mancata formulazione di riserve o contestazioni all’atto della conclusione del rapporto, trattandosi di circostanze comunque incentrate sulla complessiva inerzia del lavoratore. Estranea, poi, al comportamento successivo delle parti è la breve durata del contratto. La medesima estraneità sussiste anche con riguardo allo svolgimento di altra attività lavorativa. Ed infatti la ricerca di un nuovo lavoro è imposta al lavoratore dalla elementare necessità di sopperire comunque ai bisogni della vita.
Quanto agli ulteriori rilievi, si osserva che, sotto la vana tutela di un’intitolazione conforme al testo attuale del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., come modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n, 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, (“omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”), gli stessi mirano a provocare, in realtà, il controllo sulla motivazione della sentenza, non più consentito da detta norma.
Come è noto, la riformulazione dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5, (applicabile, ai sensi del cit. art. 54, co. 3, alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, cioè alle sentenze pubblicate a decorrere dal 12.9.12 e, quindi, anche alla sentenza della cui impugnazione si discute) rende denunciabile per cassazione il vizio di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Secondo le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 7.4.14, emesse dalle S.U. di questa S.C., la suddetta modifica legislativa deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. La medesima, dunque, non consente di denunciare un vizio di motivazione se non quando esso si converta, in realtà, in una vera e propria violazione di legge, vale a dire dell’art. 132, comma 2, n. 4 cod.proc.Civ.; ciò avviene soltanto in caso di mancanza grafica della motivazione, o di motivazione del tutto apparente, oppure di motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile, oppure di sua manifesta ed irriducibile contraddittorietà e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sé, restando esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima in raffronto con le risultanze probatorie.
L’omesso esame deve riguardare un fatto inteso nella sua accezione storico-fenomenica (e quindi non un punto o un profilo giuridico), un fatto principale o primario (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè un fatto dedotto in funzione probatoria). Tuttavia il riferimento al fatto secondario non implica – e la citata sentenza n. 8053 delle S.U. lo precisa chiaramente – che possa denunciarsi ex art. 360, co. 1, n. 5 cod. proc. civ. anche l’omessa o carente valutazione di determinati elementi probatori: basta che il fatto sia stato esaminato, senza che sia necessario che il giudice abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie emerse all’esito dell’istruttoria come astrattamente rilevanti. A sua volta deve trattarsi di un fatto processualmente esistente, per esso intendendosi non un fatto storicamente accertato, ma un fatto che in sede di merito sia stato allegato dalle parti: tale allegazione può emergere già soltanto dal testo della sentenza impugnata (e allora si parlerà di rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza del dato extra-testuale).
Nel caso in esame, i fatti controversi da indagare (da non confondersi con la valutazione delle relative prove) sono stati manifestamente presi in esame dalla Corte territoriale la quale ha ritenuto che gli elementi sottoposti alla sua valutazione (la breve durata del rapporto, il lungo tempo trascorso tra la cessazione di questo e l’azione giudiziaria, l’accettazione senza riserve del trattamento di fine rapporto, l’iscrizione della lavoratrice nelle liste cui la società attingeva per la stipula dei contratti a termine, le spiegazioni fornite dalla stessa appellante alla Corte territoriale in sede di libero interrogatorio circa i motivi che avevano determinato una dilazione così prolungata dell’azione giudiziaria) integrassero, nel complesso, un quadro probatorio inidoneo a ritenere sussistente una risoluzione per mutuo consenso; sicché non di omesso esame si tratta, ma di accoglimento di una tesi diversa da quella sostenuta dalla parte odierna ricorrente.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 della legge n. 183/2010 anche in correlazione con l’art. 8 della legge n. 604/1966, nonché omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti. Si duole delle conseguenze economiche tratte dalla Corte territoriale dalla ritenuta conversione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro e in particolare contesta le modalità di applicazione dell’ius superveniens rappresentato dall’art. 32, commi 5-7 della legge n. 183 del 2010, sostenendo che, nel quantificare l’indennità nella misura, pari a 8 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la Corte di appello non avrebbe proceduto ad una concreta e puntuale analisi dei criteri di cui all’art. 8 legge n. 604/1966, richiamati dal quinto comma dell’art. 32, ed avrebbe omesso di applicare la riduzione contemplata nel comma sesto del medesimo articolo.
Il motivo è fondato.
Sussiste, infatti, la denuncia violazione di legge ed anche un omesso esame (nei termini consentiti dalla riformulazione dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5 come sopra illustrati) essendo stata del tutto pretermessa nella sentenza impugnata l’applicazione dei criteri legali di quantificazione dell’indennità di cui all’art. 32 cit. che richiama, sul punto, l’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (risultando solo escluso il limite delle sei mensilità ritenuto “applicabile soltanto nell’ipotesi in cui fosse possibile all’appellante, conciliare la vertenza con l’ammissione in servizio).
Alla luce di quanto esposto si propone raccoglimento del terzo motivo di ricorso ed il rigetto degli altri, la cassazione della impugnata sentenza in relazione al motivo accolto con rinvio ad altro giudice che procederà al rinnovo della valutazione relativa alla determinazione della indennità risarcitoria ex art. 32 della L. n. 183 del 2010 in coerenza con i parametri di legge oltre che alla regolazione delle spese anche del giudizio di legittimità, il tutto con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5″.
2 – E’ stato successivamente depositato il verbale di conciliazione stipulato fra le parti in data 21 ottobre 2015 in sede sindacale.
Dal suddetto verbale di conciliazione, debitamente sottoscritto dalla lavoratrice interessata e dal rappresentante della Poste Italiane S.p.A., risulta che le parti hanno raggiunto un accordo transattivo concernente la controversia de qua, dandosi atto dell’intervenuta amichevole e definitiva conciliazione a tutti gli effetti di legge e dichiarando che, in caso di fasi giudiziali ancora aperte, le stesse sarebbero state definite in coerenza con il verbale stesso; tale verbale di conciliazione si appalesa idoneo a dimostrare l’intervenuta cessazione della materia del contendere nel giudizio di cassazione.
3 – In tal senso va emessa la corrispondente declaratoria.
4- Il contenuto dell’accordo transattivo giustifica la compensazione integrale delle spese processuali.
5 – Non sussistono i presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013). Tale disposizione trova applicazione rattorte temporis ai procedimenti iniziati – come il presente – in data successiva al 30 gennaio 2013, avuto riguardo al momento in cui la notifica del ricorso si è perfezionata, con la ricezione dell’atto da parte del destinatario (Sezioni Unite, sent. 3774 del 18 febbraio 2014), ma l’obbligo del pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dalla stessa norma, è collegato al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnate, del gravame (Cass. N. 10306 del 13 maggio 2014), condizione insussistente nella specie.
P.Q.M.
Dichiara cessata la materia del contendere; compensa le spese del presente giudizio.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1- quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
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