CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 35156 depositata il 18 luglio 2017
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 19 maggio 2015 il Tribunale di Milano condannò C. P. alla pena un anno di reclusione, quale aumento per la continuazione con i fatti di cui alla sentenza del 7 novembre 2012 del Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale (divenuta irrevocabile il 21 febbraio 2013), in relazione ai reati di cui agli artt. 2 e 3 d.lgs. n. 74 del 2000, commessi quale presidente del consiglio di amministrazione della C.T.S. Cooperativa Trasporti e Servizi negli anni 2007 e 2009; con la medesima sentenza il Tribunale ordinò anche la confisca del profitto del reato, pari a euro 4.269.417,30, per equivalente sui beni dell’imputato per il medesimo ammontare in caso di impossibilità di esecuzione sui beni della società.
La Corte d’appello di Milano, provvedendo con sentenza del 13 luglio 2016 sulla impugnazione dell’imputato, ha dichiarato non doversi procedere in relazione ai fatti di cui alla annualità 2007 perché estinti per prescrizione, e ha rideterminato la pena in mesi otto di reclusione e l’importo della confisca, diretta o per equivalente, in euro 1.960.847,46. 2.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, affidato a due motivi.
2.1. Con un primo motivo ha denunciato illogicità della motivazione, travisamento di un fatto processuale e violazione del principio del ne bis in idem sostanziale, anche alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 200 del 2016, lamentando il mancato rilievo della duplicità delle sanzioni inflitte all’imputato per il medesimo fatto, e cioè quella detentiva conseguente ai reati e quella pecuniaria, sotto forma di confisca per equivalente conseguente al mancato pagamento da parte della società debitrice degli importi evasi alla stessa addebitati in via amministrativa.
2.2. Con un secondo motivo ha Rh lamentato, in particolare, l’affermazione della configurabilità del reato di cui all’art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000 pur in assenza di condotte fraudolente, essendo stato accertato dal Tribunale che la società amministrata dall’imputato aveva solamente annotato nella propria contabilità fatture di importo inferiore autoprodotte.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso, peraltro riproduttivo dei motivi d’appello, non è fondato.
2. Il primo motivo, mediante il quale il ricorrente ha denunciato violazione del divieto di una doppia sanzione per il medesimo fatto, in relazione alla disposizione della confisca per equivalente nei suoi confronti, non è fondato.
2.1. Come evidenziato anche dalla Corte d’appello nella motivazione della sentenza impugnata, la confisca, conseguente alle violazioni tributarie commesse dall’imputato, è stata disposta in via diretta nei confronti della persona giuridica e non del suo amministratore, con la conseguente insussistenza dei presupposti per ravvisare una duplicazione di sanzioni nei confronti del medesimo soggetto a seguito delle medesime condotte, difettando il connotato ineludibile della identità dei soggetti sanzionati. Tale aspetto è stato, da ultimo, chiarito dalla Corte di giustizia UE, IV sezione, nella sentenza 5 aprile 2017, Orsi (C-217/15) e Baldetti (C-350/15), nella quale la Corte sovranazionale ha posto un primo punto fermo in relazione alla legittimità dell’articolazione normativa del doppio binario punitivo in materia tributaria nel nostro ordinamento. Al riguardo, infatti, la Corte di giustizia UE ha affermato che “L’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che consente di avviare procedimenti penali per omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto dopo l’irrogazione di una sanzione tributaria definitiva per i medesimi fatti, qualora tale sanzione sia stata inflitta ad una società dotata di personalità giuridica, mentre detti procedimenti penali sono stati avviati nei confronti di una persona fisica“, sottolineando la necessità, per l’applicazione del divieto di bis in idem, che debba essere la stessa persona ad essere sottoposta ad una doppia sanzione per uno stesso fatto, ipotesi non ricorrente nel caso in esame, nel quale la confisca è stata disposta nei confronti della persona giuridica e, nel caso esito infruttuoso, totale o parziale, della sua esecuzione sul patrimonio dell’ente, nella forma della confisca di valore sui beni dell’imputato.
2.2. Va aggiunto, in relazione allo specifico punto della confisca per equivalente, che questa ha la finalità di impedire che l’impiego economico dei beni di provenienza delittuosa possa consentire al colpevole di garantirsi il vantaggio che era oggetto specifico del disegno criminoso (Sez. 3, n. 10120 del 01/12/2010, Provenzale, Rv. 249752). Essa mira, infatti, a ripristinare lo status quo ante, cioè la situazione economica del reo modificata dalla commissione dell’illecito, sterilizzandone le utilità tratte, ma – a differenza della confisca diretta – opera mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di valore corrispondente a dette utilità, risultate in sé non più (in tutto o in parte) aggredibili; si tratta, pertanto, di una misura connotata da un evidente carattere afflittivo – che non ricorre nella confisca diretta, immediatamente legata alla cosa oggetto del profitto – e da un rapporto consequenziale alla condanna proprio della sanzione penale, esulando invece da essa qualsiasi funzione di prevenzione propria delle pene accessorie e delle misure di sicurezza, compresa la stessa confisca diretta (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264436; Sez. U, n. 18374 del 31/1/2013, Adami, Rv. 255037; Sez. 3, n. 18311 del 6/3/2014, Cialini, 259103; Sez. 3, n. 7180 del 19/1/2017, Rinaldi, non massimata). In altri termini, la misura è parannetrata al profitto o al prezzo del reato soltanto sotto un profilo quantitativo, sì che l’ablazione va a colpire una parte del patrimonio che, in sé, non ha alcun collegamento con il reato, né alcun rapporto di pertinenzialità con esso (per tutte, Sez. 3, n. 20887 del 15/4/2015, Aumenta, Rv. 263408); è l’imputato che viene ad essere direttamente colpito nelle sue disponibilità economiche, non la cosa in quanto derivante dal reato, dal che il carattere sanzionatorio, comune – «né più, né meno» (Sez. U, Lucci, cit.) – alla pena applicata con la sentenza di condanna.
2.3. Proprio la diretta consequenzialità della confisca di valore alla condanna consente di escludere la violazione del divieto di ne bis in idem prospettata dal ricorrente, per la presenza della “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta” (che nella specie è vera e propria coincidenza) tra i due procedimenti sanzionatori, richiesta dalla Corte di Strasburgo per escludere la violazione di detto divieto.
La Corte EDU (grande Camera), con la sentenza del 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, ric. n. 24130/11 e 29758/11, ha, infatti, affermato che “non viola il ne bis in idem convenzionale la celebrazione di un processo penale, e l’irrogazione della relativa sanzione, nei confronti di chi sia già stato sanzionato in via definitiva dall’amministrazione tributaria con una sovrattassa (nella specie pari al 30% dell’imposta evasa), purché sussista tra i due procedimenti una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta”.
La Corte di Strasburgo ha chiarito che in linea di principio l’art. 4 prot. 7 CEDU non esclude che lo Stato possa legittimamente apprestare un sistema di risposte a condotte socialmente offensive (come l’evasione fiscale) che si articoli – nella cornice di un approccio unitario e coerente – attraverso procedimenti distinti, purché le plurime risposte sanzionatorie non comportino un sacrificio eccessivo per l’interessato, con il conseguente onere per la Corte di verificare se la strategia adottata da ogni singolo Stato comporti una violazione del divieto di ne bis in idem, oppure sia, al contrario il “prodotto di un sistema integrato che permette di affrontare i diversi aspetti dell’illecito in maniera prevedibile e proporzionata, nel quadro di una strategia unitaria” (§ 122). Non sarebbe, infatti, possibile dedurre dall’art. 4 prot. 7 un divieto assoluto per gli Stati di imporre una sanzione amministrativa (ancorché qualificabile come “sostanzialmente penale” ai fini delle garanzie dell’equo processo) per quei fatti di evasione fiscale in cui è possibile, altresì, perseguire e condannare penalmente il soggetto, in relazione a un elemento ulteriore rispetto al mero mancato pagamento del tributo, come una condotta fraudolenta, alla quale non potrebbe dare risposta sanzionatoria adeguata la mera procedura “amministrativa” (§ 123).
Nella prospettiva di un equilibrato bilanciamento tra gli interessi del singolo e quelli collettivi, la Corte ha dunque valorizzato il criterio della “sufficiently close connection in substance and time” ricavato da parte della propria precedente giurisprudenza (§ 125).
Ad avviso della Corte EDU il modo più sicuro per assicurare il rispetto dell’art. 4 prot. 7 sarebbe la previsione di un meccanismo in grado di unificare, in qualche stadio della procedura, i due procedimenti sanzionatori, in modo tale da garantire l’irrogazione delle differenti sanzioni da parte di un’unica autorità e nell’ambito di un unico processo, ma la disposizione convenzionale non esclude Io svolgimento parallelo di due procedimenti, purché essi appaiano connessi dal Aot; punto di vista sostanziale e cronologico in maniera sufficientemente stretta, e purché esistano meccanismi in grado di assicurare risposte sanzionatorie nel loro complesso proporzionate e, comunque, prevedibili (§ 130), verificando gli scopi delle diverse sanzioni e dei profili della condotta considerati, la prevedibilità della duplicità delle sanzioni e dei procedimenti, i correttivi adottati per evitare “per quanto possibile” duplicazioni nella raccolta e nella valutazione della prova e, soprattutto la proporzionalità complessiva della pena (§ 133).
Di tali principi è stata fatta applicazione dalla medesima Corte EDU, I sez., nella recente sentenza 18 maggio 2017, Jóhannesson e a. c. Islanda, ric. n. 22007/11, nella quale è stata ravvisata, all’unanimità, la violazione della garanzia convenzionale, sottolineando le differenze tra il caso di specie all’esame e quello deciso dalla Grande Camera, sotto lo specifico profilo dell’assenza di una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta” tra i due procedimenti sanzionatori.
2.4. Nel caso in esame deve escludersi, alla stregua di tali orientamenti interpretativi della Corte sovranazionale, la configurabilità della violazione del ne bis in idem lamentata, peraltro genericamente, dal ricorrente, in quanto l’applicazione delle due sanzioni (e cioè della pena detentiva e della confisca per equivalente) è avvenuta in un unico processo e contestualmente; con finalità differenti e considerando differenti profili della condotta (la consumazione degli illeciti quanto alla condanna alla pena detentiva e le conseguenze degli stessi, sotto il profilo dell’evasione di imposta, quanto alla confisca); attraverso strumenti di cui era prevedibile ex ante l’adozione, senza duplicazioni nella raccolta e nella valutazione della prova (avvenute, sia per pure con finalità diverse, contestualmente), e, soprattutto, dando vita a un complessivo sistema sanzionatorio che non può, stante la sua correlazione alla imposta evasa, dirsi sproporzionato o irragionevole. Ne consegue, in definitiva, l’infondatezza della doglianza, non essendo ravvisabile la violazione del divieto di ne bis in idem convenzionale prospettato dal ricorrente.
3. Anche il secondo motivo, mediante il quale è stata prospettata l’illogicità della motivazione, nella parte relativa alla qualificazione delle condotte di cui al capo b) come violazione dell’art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000 anziché come violazione dell’art. 2 del medesimo d.lgs. 74/2000, non è fondato.
La Corte d’appello ha correttamente affermato la configurabilità del reato di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 74 del 2000 non solamente sulla base e in conseguenza dell’utilizzo nelle dichiarazioni fiscali della società amministrata dall’imputato di fatture auto od etero prodotte, relative a operazioni parzialmente inesistenti, come sostenuto dal ricorrente, secondo cui tali condotte consentirebbero di configurare solamente il reato di cui all’art. 2 del medesimo d.lgs. 74 del 2000, bensì sulla base di ulteriori plurime condotte fraudolente, volte, a fine di evasione, a evitare o eludere l’accertamento della base imponibile, consistenti nella infedele registrazione di fatture di vendita o di acquisto, nella duplicazione delle stesse con importi diversi, nella annotazione di fatture non rinvenute nella contabilità.
Tale conclusione dei giudici di merito risulta corretta, essendo stati indicati i plurimi e fraudolenti comportamenti dell’imputato (consistenti, come si ricava dalla contestazione, nella indicazione nel libro giornale e nel registro iva delle vendite di ricavi e iva a debito inferiori a quelli reali, attraverso la sostituzione dei documenti di vendita originariamente emessi, con altri riportanti importi inferiori; nella indicazione nel libro giornale di costi fittizi; nella infedele od omessa registrazione di molteplici fatture di vendita e di acquisto, in modo da ridurre i ricavi e aumentare i costi; nella imputazione di ammortamenti non risultanti dai registri contabili), ulteriori rispetto al mero utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, volti, in modo ingannevole, a occultare ricavi o aumentare fittiziamente costi, con la conseguente corretta affermazione della configurabilità del reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, essendo stati ampiamente descritti i comportamenti fraudolenti ulteriori rispetto all’utilizzo di fatture relative a operazioni in tutto o in parte inesistenti.
4. Alla infondatezza di entrambi i motivi di ricorso conseguono il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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