CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 42892 depositata il 20 settembre 2017
RITENUTO IN FATTO
1. Il sig. GP ricorre per l’annullamento della sentenza dei 07/11/2016 della Corte di appello di Roma che, rigettando la sua impugnazione, ha confermato la condanna alla pena (principale) di un anno e sei mesi di reclusione (oltre pene accessorie) inflitta dal Tribunale di quello stesso capoluogo, con sentenza del 18/05/2015, per il reato di cui agli artt. 81, cpv., é cod. pen., 8, d.lgs. n. 74 del 2000, a lui ascritto perché, quale legale rappresentante della società «KS S.r.l.», al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi, negli anni 2009 e 2010 aveva emesso 112 fatture per operazioni inesistenti.
1.1. Con il primo motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., l’inosservanza o comunque l’erronea applicazione della legge penale. Deduce, al riguardo, che, benché il testimone dell’Agenzia delle Entrate avesse affermato di aver incaricato tutte le sedi nazionali dell’Agenzia di agire penalmente nei confronti degli utilizzatori delle fatture, nessuna prova conferma l’esercizio dell’azione penale nei confronti di questi ultimi, men che meno il relativo esito. Aggiunge che lo stesso testimone aveva affermato che a seguito di accesso presso la sede della società presso lo studio del commercialista, dott. V., aveva accertato la presenza di una segretaria, tale V.V., che lavorava in una stanza affittata alla società. Quanto alla propria posizione, afferma di aver tentato di convincere il Giudice di essere stato un semplice prestanome, ottantenne, malato, munito di sola licenza elementare, incapace persino di accendere e spegnere un computer, di essere altresì intestatario di decine di società (l’INPS non gli corrisponde per questo la pensione minima sociale) e che si era prestato ad accettare l’incarico su richiesta proprio del V., dietro corrispettivo mensile di trecento euro. Non poteva andare a visitare gli utilizzatori, né poteva riceverli, visto che la sede societaria era costituita dalla sola stanza occupata dalla segretaria. Il Giudice qualche dubbio lo aveva avuto se si era determinato a sentire, ai sensi dell’art. 507, cod. proc. pen., il V. il quale, però, non avrebbe potuto scagionarlo visto che era stato proprio lui a proporgli l’incarico, ad affittare la stanza alla società, a percepirne il compenso. Il Giudice, quindi, non ha tenuto conto in alcun modo della sua posizione personale e non ha concesso il rinvio chiesto dal proprio difensore per assumere la testimonianza della segretaria.
1.2. Con il secondo motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione. Lamenta che la sentenza impugnata è sintetica e sommaria e in più occasioni rinvia genericamente alla pronuncia di primo grado per tutto quel che riguarda la ricostruzione sostanziale dei processo e le relative valutazioni probatorie. Non una sola parola è stata spesa sulla richiesta di rinnovazione del dibattimento ed, in particolare, sulla richiesta di assunzione della testimonianza della V.V.. Inoltre la Corte di appello non solo non ha adeguatamente spiegato le ragioni del proprio convincimento, ma non ha neppure valutato, con la necessaria attenzione, la ricostruzione difensiva proposta con l’appello. Un’attenta valutazione della vicenda, attraverso la documentazione in atti e le puntuali osservazioni contenute nell’appello, avrebbe condotto il Giudice di secondo grado a riconoscere la sua estraneità al fatto-reato contestato.
1.3. Con il terzo motivo eccepisce la mancanza dell’elemento soggettivo sotto il profilo della mancanza della consapevolezza del danno o almeno del possibile all’Erario.
2. All’odierna udienza il difensore ha prodotto la sentenza del Tribunale di Roma del 23/01/2017 che ha assolto il ricorrente dal reato di cui all’art. 8, d.lgs. n. 74 del 2000, commesso il 21/12/2009 (emissione di fatture per operazioni inesistenti nei confronti della società “HT S.p.a.”) con la formula «perché il fatto non sussiste».
MOTIVI DELLA DECISIONE
3. Il ricorso è inammissibile perché generico, proposto al di fuori dei casi consentiti dalla legge e manifestamente infondato.
4.Deve essere innanzitutto dichiarata la inammissibilità dell’odierna produzione documentale volta a sollecitare questa Corte di cassazione ad una non specificata e comunque non consentita valutazione nel merito della odierna regiudicanda che non è sovrapponibile “ictu ocur a quella oggetto della sentenza prodotta e dalla quale esula completamente ogni questione relativa alla effettiva sussistenza del reato. Il tema devoluto, infatti, riguarda esclusivamente la responsabilità penale per il delitto tributario dell’amministratore legale (o del titolare) dell’impresa che eccepisce lo scollamento totale tra la legale rappresentanza (o la titolarità) dell’impresa e la sua gestione.
5. I tre motivi possono essere esaminati congiuntamente essendo comuni per l’oggetto.
5.1.Si legge nella sentenza impugnata che la società legalmente rappresentata dall’odierno ricorrente era una vera e propria “cartiera”: aveva sede presso lo studio di un commercialista; benché l’oggetto sociale prevedesse la vendita di prodotti elettronici, era priva di magazzino o comunque di un deposito; aveva una sola dipendente, assunta per un brevissimo periodo di tempo; non era proprietaria di immobili, non aveva un sito internet, non compariva nelle Pagine Gialle. Ciò nonostante, negli anni 2009 e 2010 aveva emesso fatture pari, rispettivamente, a oltre 11 milioni di euro nel primo anno e a 7 milioni di euro nel secondo. La sentenza prende in considerazione la tesi difensiva della non consapevolezza della natura di “cartiera” della società, così come esposta nell’odierno ricorso, e, incontestata la materialità del fatto (non contestata nemmeno in questa sede), la disattende sul rilievo della assoluta inesistenza dei caratteri più elementari della società, a partire dalla propria sede fisica. Il Tribunale aveva precedentemente ritenuto inattendibile la tesi difensiva secondo cui egli era un mero prestanome inconsapevole del ruolo di amministratore, da un lato valorizzando il fatto che egli era amministratore di varie società, dall’altro che lo stesso V., indicato come testimone a difesa, aveva dichiarato di essere stato incaricato proprio dall’imputato, che questi frequentava con regolarità il proprio studio, di averlo infine accompagnato in banca per l’apertura di un conto corrente intestato alla società sul quale egli (il GP) aveva la delega ad operare. I Giudici di merito, in ultima analisi, non hanno creduto alla tesi dell’amministratore fittiziamente interposto, inconsapevole del proprio ruolo e della realtà dei fatti. La Corte di appello, al riguardo, non affronta in modo espresso la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale mediante l’assunzione della testimonianza della V.V., né risolve la questione relativa alla credibilità del testimone V., ma ciò perché nel suo ragionamento prevale il dato oggettivo della inesistenza dei caratteri più elementari della società e della consapevolezza, da parte dell’imputato, dell’attività di cartiera della società stessa e della sua disponibilità a ricoprire la carica di legale rappresentante al fine di un suo personale tornaconto.
5.2.In termini generali, questa Corte ha già affermato il principio secondo il quale il prestanome non risponde dei delitti in materia tributaria (nella specie in materia di dichiarazione infedele previsto dall’art. 4, d.Lgs. n. 74 del 2000) solo se è privo di qualunque potere o possibilità di ingerenza nella gestione della società (Sez. 3, n. 47110 del 19/11/2013, Piscicelli, Rv. 258080; nello stesso senso, in motivazione, anche Sez. 3, n. 23425 del 28/04/2011, Ceravolo).
5.3.Quanto all’elemento soggettivo, si è aggiunto che dei delitti tributari, in particolar modo di quelli caratterizzati dal dolo specifico di evasione, risponde anche il mero amministratore di diritto, a titolo di concorso con l’amministratore di fatto per omesso impedimento dell’evento ex artt. 40, cpv. cod. pen., e art.2932 cod. civ., a condizione, tuttavia, che il prestanome abbia agito col fine specifico di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione fiscale di terzi (Sez. 3, n. 15900 del 02/03/2016, Gagliotta, Rv. 266757, in tema di reato di cui all’art. 10, d.igs. n. 74 del 2000; Sez. 3, n. 38780 del 14/05/2015, Biffi, Rv. 264971, in tema di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette o IVA; Sez. 3, n. 23425 del 28/04/2011, Ceravolo, Rv. 250962, in tema di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette o IVA). Tuttavia, non è necessario che il dolo specifico di evasione sia condiviso e fatto proprio anche dall’amministratore di diritto; il motivo per il quale questi decide di cedere ad altri la gestione non necessariamente si deve coniugare con il movente dell’autore materiale del reato a dolo specifico. E’ sufficiente – secondo quanto meglio si dirà – che il prestanome sia consapevole di accedere all’altrui proposito illecito che la propria condotta omissiva rende attuabile o comunque agevola, qualunque sia il motivo della sua decisione (cfr., al riguardo, Sez. 3, n. 6208 del 09/04/1997, Ciciani, Rv. 208804, secondo cui anche per i reati imputati ai sensi dell’art. 40 cpv., cod. pen., l’elemento psicologico si configura secondo i principi generali, sicché è sufficiente che il “garante” abbia conoscenza dei presupposti fattuali del dovere di attivarsi per impedire l’evento e si astenga, con coscienza e volontà, dall’attivarsi, con ciò volendo o prevedendo l’evento – nei delitti dolosi – o provocandolo per negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme – nei delitti colposi e nelle contravvenzioni in genere).
5.4.Tanto premesso, osserva il Collegio che già il Tribunale, in coerenza con l’editto accusatorio (per il quale il ricorrente risponde in prima persona del delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti quale legale rappresentante, appunto, della società emittente le fatture), aveva disatteso la tesi difensiva della scissione tra la la titolarità legale/formale dell’impresa e quella effettiva utilizzando, ai fini della ricostruzione del fatto, proprio la prova testimoniale sollecitata dall’odierno ricorrente, il quale non può oggi dolersene senza cadere in un’evidente contraddizione logica frutto a sua volta dell’incoerenza tra la propria tesi e le opzioni probatorie volte a sostenerla. Peraltro, sempre secondo quanto risulta dalla sentenza di primo grado, il ricorrente aveva affermato che l’attività di vendita dei telefonini veniva svolta su internet dall’impiegata (la citata V.V.) e di non essere a conoscenza del fatturato della società. Tale affermazione, non contestata, costituisce un ulteriore elemento di frattura con la tesi difensiva della totale ignoranza dell’attività societaria e si salda con quanto sostengono i Giudici dell’appello secondo i quali l’imputato era perfettamente a conoscenza dell’attività di “cartiera” della società da lui legalmente rappresentata. Questo argomento legittima, come si vedrà, la decisione della Corte territoriale di non dare seguito alla richiesta di assunzione della testimonianza della segretaria.
5.5.Deve in ogni caso essere esclusa in radice la fondatezza della tesi difensiva secondo cui il mancato esercizio dell’azione penale nei confronti degli utilizzatori delle fatture emesse per operazioni inesistenti preclude quello nei confronti dell’emittente. Il delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti di cui all’art. 8, d.lgs. n. 74 del 2000 ha natura di reato di pericolo o di mera condotta (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, Giordano, Rv. 248869), per la cui sussistenza non è nemmeno necessario che le fatture siano annotate nella contabilità del destinatario il quale, in astratto, potrebbe anche decidere di non avvalersene. Le fatture per operazioni inesistenti sono tossine la cui circolazione il legislatore ha inteso reprimere sin dalla loro emissione, quando finalizzata a consentire a terzi l’evasione di imposta. Non importa il loro destino, strutturalmente estraneo alla fattispecie che si disinteressa volutamente dell’effettivo conseguimento del fine evasivo; è sufficiente che tale fine sussista (e, pertanto, qualifichi l’azione) al momento iniziale dell’emissione perché si determini la reazione repressiva, non essendo richiesta, a tal fine, la successiva utilizzazione del documento. Ne consegue che, ai fini dell’integrazione del dolo specifico del reato, non è richiesto che l’autore della condotta si rappresenti il danno arrecato all’Erario che, in ipotesi, potrebbe anche mancare in caso di mancata utilizzazione delle fatture. E’ necessario e sufficiente il fine di consentire a terzi l’evasione di imposta e dunque il potenziale pericolo dell’altrui utilizzo a fini evasivi del documento fiscalmente rilevante. Sotto questo specifico profilo le doglianze del ricorrente sono, come si dirà, generiche e manifestamente infondate.
5.6.Sotto altro profilo, la decisione di abdicare ai poteri e ai doveri che incombono sul legale rappresentante dell’impresa ( onde consentirne a terzi la gestione effettiva e incontrollata, è circostanza che toglie sostanza all’argomento difensivo dello scollamento tra l’azione illecita altrui e la propria responsabilità. La cessione della integrale gestione di fatto dell’impresa (conservandone la sola titolarità formale) costituisce manifestazione di quel dominio finalistico dell’azione, che si esprime proprio attraverso la deliberata e consapevole rinunzia ad esso, che è alla base dell’imputazione causale dell’evento prevista dall’art. 40, cpv., cod. pen.. In questi casi, la rinuncia alla possibilità di ingerenza nella gestione della società giustifica, sul piano causale, l’attribuzione della responsabilità per fatto altrui (cfr. Sez. 3, n. 47110 del 19/11/2013, Piscicelli, Rv. 258080, cit. e Sez. 3, n. 23425 del 28/04/2011, Ceravolo, cit.) ma – come già detto – non è di per sé sufficiente a provare il consapevole concorso nei reati commessi dall’amministratore di fatto, a maggior ragione se per essi è richiesto il dolo specifico. L’imputazione dell’evento ai sensi dell’art. 40, cpv., cod. pen., infatti, operando sul piano strettamente causale (e dunque oggettivo), non assolve all’onere di dimostrare anche la sussistenza del dolo del reato commesso dall’amministratore di fatto, pena la trasformazione dell’addebito nei confronti di quest’ultimo da doloso in colposo, quando non anche oggettivo (in questo senso, condivisibilmente in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, Sez. 5, n. 642 del 30/10/2013, Demajo, Rv. 257950; Sez. 5, n. 44293 del 17/11/2005, Liberati, Rv. 232816). L’interposizione fittizia può essere dovuta a varie ragioni, non necessariamente criminali (per esempio, il puro e semplice desiderio di non comparire in prima persona per motivi di mera opportunità, la pessima reputazione di un imprenditore screditato sul mercato, l’intenzione di eludere un’incapacità specifica ad assumere ruoli direttivi nell’impresa). L’imputazione del reato all’interposto comporta che sia dimostrato anche il dolo( che deve avere necessariamente ad oggetto il fatto tipico nella sua interezza. La semplice imputazione causale dell’evento non è sufficiente; occorrono ulteriori indici, sulla cui esistenza e attitudine a provare il dolo, le deduzioni del ricorrente sono però decisamente generiche e apodittiche.
5.7. E’ infatti a questo punto che si innesta il ragionamento della Corte di appello che, tesaurizzando il quadro fattuale già ricostruito in primo grado (e cioè la evidente natura di cartiera della società, la sua logistica, la consapevolezza da parte del ricorrente della natura impossibile dell’oggetto sociale, il commercio cioè di telefonini, la cessione retribuita mensilmente della gestione societaria), ne ha tratto più che valido argomento per disattendere la tesi difensiva della estraneità dell’imputato al reato commesso dall’amministratore di fatto. La decisione, pertanto, di non rinnovare il dibattimento è frutto del buon governo dei principi appena esposti, in conseguenza dei quali l’affermazione della responsabilità piena e consapevole del ricorrente per il reato a lui specificamente ascritto non può essere messa in discussione, certamente non mediante le generiche deduzioni in tema di mancanza di consapevolezza del danno (o del pericolo di danno) arrecato all’Erario (deduzioni che peraltro costituiscono la letterale trascrizione del secondo motivo dell’atto di appello). In un simile contesto, tale deduzione, riproposta sic et simpliciter, senza prendere posizione sui costituti fattuali che legittimano una diversa conclusione, assume i caratteri della petizione di principio fine a se stessa.
5.8.La inammissibilità del ricorso preclude la possibilità di rilevare cause di estinzione del reato, quale la prescrizione, verificatesi successivamente alla pronunzia della sentenza impugnata. Alla detta declaratoria consegue, ex art.616 c.p.p., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere per la stessa delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 2.000,00
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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