CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 40046 depositata l’ 8 novembre 2021

Reati tributari – Contenzioso – Competenza territoriale – Ricorso in cassazione – Genericità dei motivi di impugnazione – Effetti – Inammissibilità del ricorso

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 21 gennaio 2021, la Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale di Milano con la quale: (capo a) G. e P. sono stati condannati ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, perché, in concorso tra loro e rispettivamente in qualità di rappresentante legale e di amministratore di fatto della società “L.M.it. s.r.l.”, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, si avvalevano di fatture relative ad operazioni inesistenti emesse dalla ditta “S.A.”, indicando elementi passivi fittizi nella dichiarazione annuale relativa a dette imposte per l’anno 2011; (capo b) P. è stato condannato ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000 perché, in qualità di amministratore di fatto della “L.M.it. s.r.l.”, al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto, si avvaleva di fatture relative ad operazioni inesistenti emesse dalla ditta “A.”, indicando elementi passivi fittizi nella dichiarazione annuale relativa a detta imposta per l’anno 2012; capo c) F. e P. sono stati condannati ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000 perché, in concorso tra loro e rispettivamente in qualità di titolare e amministratore di fatto della ditta individuale “A.”, al fine di consentire alla società “L.M.it. s.r.l.”, destinataria delle fatture, l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto di cui al capo b), emettevano fatture relative ad operazioni inesistenti per il periodo d’imposta 2012.

2. Avverso la sentenza gli imputati, tramite i propri difensori, hanno proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.

2.1. Nell’interesse degli imputati G. e P. si deducono tre motivi di ricorso.

2.1.1. Con una prima doglianza, si fa valere l’inosservanza delle norme relative alla competenza territoriale, che avrebbe dovuto essere riconosciuta in favore del Tribunale di Busto Arsizio, in ragione del criterio secondo cui la competenza territoriale spetta al giudice del luogo ove si trova la sede effettiva dell’impresa e non la sede legale. Nel caso di specie, la sede effettiva ed operativa della società “L.M.it. s.r.l.” sarebbe sempre stata Parabiago – come d’altronde confermato dalle sentenze di primo e secondo grado nonché dalle dichiarazioni dei due marescialli della Guardia di Finanza escussi nel corso del processo – di talché, ai sensi degli artt. 9, comma 2-bis, e 11 del d.lgs. n. 155 del 2012, la competenza si sarebbe dovuta attribuire al Tribunale di Busto Arsizio e non a quello di Milano.

2.1.2. Con un secondo motivo, si lamenta l’erronea applicazione della legge penale, per avere la Corte territoriale eluso le censure dettagliatamente motivate e specificate dalla difesa nell’atto di appello, essendosi, al contrario, limitata ad una trascrizione pedissequa della sentenza di primo grado in violazione del fondamentale onere di motivare i propri assunti.

2.1.3. In terzo luogo, ci si duole dell’inosservanza della legge penale e processuale avuto riguardo alle norme in tema di onere della prova e presunzione di innocenza. A parere della difesa, nei due gradi di giudizio non sarebbe emersa

alcuna prova, ancor meno al di là di ogni ragionevole dubbio, circa la penale responsabilità degli imputati, condannati quali legale rappresentante e amministratore di fatto della società “L.M.it. s.r.l.” senza alcun valido riscontro probatorio.

2.2. La sentenza è stata impugnata, altresì, nell’interesse dell’imputato F. che ha affidato il suo ricorso a tre diversi motivi.

2.2.1. In primo luogo si deduce – al pari degli altri imputati – l’inosservanza o erronea applicazione dell’art. 18 del d.lgs. 74 del 2000 in tema di competenza territoriale, sul rilievo che i giudici di merito avrebbero erroneamente applicato la summenzionata disposizione, ai sensi della quale il reato si considera consumato nel luogo in cui il contribuente ha il domicilio fiscale. Ed invero, nel caso in esame, la ditta “A.” avrebbe avuto sede legale in Legnano, ma domicilio fiscale in Parabiago, come emerso dall’istruttoria e dalle visure camerali degli atti, cosicché, ribadendo ancora una volta la centralità della sede effettiva della persona giuridica, si sarebbe dovuta riconoscere la competenza territoriale in favore del Tribunale di Busto Arsizio e non di quello di Milano.

2.2.2. Con un secondo motivo di ricorso, si lamentano il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato contestato, nonché l’erronea applicazione delle norme in materia di valutazione delle risultanze istruttorie emerse durante il processo. A parere della difesa, in giudizio non si sarebbe raggiunta la prova della penale responsabilità dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio, essendo pacificamente emersa, al contrario, l’estraneità del ricorrente circa la gestione della ditta “A.” e dei rapporti con clienti, fornitori e commercialisti. Né egli avrebbe mai materialmente emesso alcuna delle fatture oggetto di indagine, essendosi sempre occupati di tutto gli imputati G. e P.. Insiste la difesa, ritenendo errata la valutazione della Corte d’appello in ordine sia all’elemento soggettivo che oggettivo del delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti: sotto il primo profilo, il soggetto attivo oltre ad essere consapevole del falso dovrebbe volere l’evasione di terzi; nel caso in esame, tuttavia, non sussisterebbe tale dolo specifico dell’imputato perché egli non avrebbe avuto, da un lato, alcun potere di ingerenza nella gestione della ditta e, dall’altro, alcuna consapevolezza di emettere le fatture false. Sotto il profilo oggettivo, la difesa esclude che l’inesistenza meramente giuridica – quale quella documentata con fatture relative a prestazioni inesistenti in quanto aventi natura diversa da quella apparsa in fattura – sia contemplata dalla norma penale, e sostiene, per converso, che l’inesistenza di cui alla citata disposizione sarebbe di tipo oggettivo, ovverosia da intendersi come quella documentata con fatture relative a prestazioni inesistenti in quanto mai avvenute o avvenute in parte rispetto a quelle indicate. In questa logica, le fatture di cui ai capi b) e c) d’imputazione, essendo regolarmente registrate e contabilizzate sia dalla società “L.M.it. s.r.l.” sia dalla “A.” nonché riferite ad operazioni commerciali realmente eseguite, non rientrerebbero nell’ambito applicativo della dedotta fattispecie incriminatrice.

2.2.3. Con una terza doglianza, si deducono la violazione di legge e il travisamento delle risultanze probatorie in ordine all’omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e all’eccessività della pena inflitta all’imputato. Sotto il primo profilo, si lamenta l’inconsistenza sia degli elementi richiamati dalla Corte territoriale sia della motivazione volta ad escludere il riconoscimento delle richieste circostanze, per la mancanza di dolo specifico nella condotta dell’imputato e di precedenti penali a carico del medesimo. Inoltre, si ritiene oltremodo gravosa la misura sanzionatoria applicata e, segnatamente, la pena accessoria di interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, trattandosi di un soggetto incensurato senza precedenti specifici.

Considerato in diritto

1. I ricorsi sono inammissibili.

1.1. Il primo motivo di doglianza – comune a tutti i ricorrenti e riferito all’incompetenza territoriale – è inammissibile.

1.1.1. Dal combinato disposto degli artt. 9, comma 2-bis, e 11 del d.lgs. 155 del 2012 – da integrare con l’allegato 1 del citato decreto – emerge che per i reati commessi in Parabiago, la cui notizia di reato sia stata acquisita o sia pervenuta al pubblico ministero in data successiva al 13/09/2013 (entrata in vigore del decreto), la competenza è del Tribunale di Busto Arsizio e non di quello di Milano; mentre prima di tale modifica era vigente la tabella A allegata al regio decreto n. 12 del 30/01/1941, secondo la quale la competenza spettava effettivamente a Milano.

Nel caso di specie, la difesa di P. e G. allega la richiesta di rinvio a giudizio (doc. 3), in cui si attesta che la notizia di reato è del 17/07/2014, quindi successiva al termine fissato dal richiamato decreto legislativo.

1.1.2. In punto di diritto, la competenza per territorio non può essere determinata sulla base delle sopravvenute prove assunte in dibattimento circa il luogo della commissione del reato, atteso che la legge processuale, stabilendo all’art. 21, comma 2, cod. proc. pen. che l’incompetenza territoriale è rilevata o eccepita, a pena di decadenza, al più tardi entro il termine di cui all’art. 491, comma 1, cod. proc. pen., ed inserendo la trattazione e decisione delle relative problematiche tra le “questioni preliminari”, ha chiaramente inteso vincolare le statuizioni sul punto allo stato degli atti, precludendo qualsiasi previa istruzione od allegazione di prove a sostegno della proposta eccezione (Sez. 4, n. 27252 del 23/09/2020, Rv. 279537). Inoltre, per il principio della perpetuano jurisdictionis la questione relativa alla competenza per territorio non può essere proposta oltre i limiti temporali costituiti dalla conclusione dell’udienza preliminare o, se questa manchi, dal compimento per la prima volta dell’accertamento della costituzione delle parti nel corso degli atti introduttivi al giudizio, sicché restano privi di rilievo eventuali, successivi, eventi istruttori o decisori, di significato diverso rispetto ai dati prima valutati ai fini della fissazione della competenza per territorio (ex multis, Sez. 3, n. 5697 del 19/11/2019, Rv. 278410; Sez. 6, n. 33435 del 04/05/2006, Rv. 234347). L’eccezione di incompetenza territoriale, ritualmente prospettata dalle parti nel termine di cui all’art. 491 cod. proc. pen. e respinta dal giudice, può essere riproposta con i motivi di impugnazione senza però introdurre argomentazioni ulteriori e diverse da quelle originarie; ne consegue che, in sede di legittimità, sono insindacabili gli aspetti relativi alla competenza territoriale non ritualmente sottoposti dalla parte entro i termini dell’art. 491 cod. proc. pen., neanche se questi siano collegati a sopravvenienze istruttorie e potrebbero giustificare, in astratto, uno spostamento della competenza (Sez. 2., n. 4876 del 30/11/2016, Rv. 269212).

1.1.3. I principi appena richiamati trovano applicazione nel caso di specie, in cui dagli atti emerge che le difese degli imputati hanno sollevato eccezione di incompetenza territoriale all’udienza del 7 marzo 2018 e i giudici di appello hanno ritenuto non possibile integrare la prospettazione di parte, dal momento che, all’epoca in cui il primo giudice aveva deciso sull’eccezione in oggetto, non era stata sollevata alcuna questione relativa alla notizia di reato pervenuta in data successiva al 13/09/2013, tale da modificare il foro territorialmente competente. Pertanto, essendosi formata sul punto una preclusione, del tutto correttamente la competenza si è ritenuta radicata in Milano, luogo ove figurava tra l’altro la sede legale della società coinvolta, essendo smentita dagli atti la circostanza che detta sede fosse meramente fittizia e che, dunque, fosse necessario ricorrere al criterio residuale della sede effettiva. A ciò deve aggiungersi che l’affermazione secondo cui l’attività della società si svolgeva in realtà in Parabiago si basa su acquisizioni che, a prescindere da ogni valutazione sul loro contenuto, sono successive alla formulazione dell’eccezione di incompetenza, in quanto rappresentate – nella prospettazione difensiva – dall’audizione testimoniale degli ufficiali accertatori, e non possono perciò essere prese in considerazione.

1.2. Il secondo motivo di ricorso proposto dalla difesa di G. e P., riferito essenzialmente alla violazione delle norme tese ad assicurare una congrua argomentazione circa le censure difensive avanzate, è inammissibile per genericità.

Occorre, preliminarmente, osservare che la mancanza di specificità del motivo va ritenuta non solo per la sua indeterminatezza, ma anche per la mancata correlazione tra le ragioni argomentate nella decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato. Pertanto, è inammissibile il ricorso per cassazione che riproduce e reitera gli stessi motivi prospettati con l’atto di appello e motivatamente respinti in secondo grado, senza confrontarsi criticamente con gli argomenti utilizzati nel provvedimento impugnato ma limitandosi, in maniera generica, a lamentare una presunta carenza o illogicità della motivazione (ex plurimis, Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rv. 276970; Sez. 3, n. 44882 del 18/08/2014, Rv. 260608; Sez. 2, n. 29108 del 15/07/2011).

Contrariamente a quanto asserito dalla difesa, la Corte d’appello ha debitamente confutato le doglianze prospettate sul punto, rilevando come esse mal si conciliassero con il patrimonio probatorio del processo che, invece, è stato valorizzato in modo congruo. In particolare, la difesa censura la pedissequa riproposizione della motivazione della sentenza di primo grado, nonché la mancata analisi e valutazione dei motivi di appello senza specificare né allegare alcunché, ma limitandosi a tale generica asserzione. Invero, i ricorrenti formulano rilievi non riferiti puntualmente alla motivazione della sentenza impugnata, formulando mere asserzioni che non considerano, neanche a fini di critica, le argomentazioni svolte dalla Corte territoriale.

1.3. Parimenti inammissibile per genericità il terzo motivo di ricorso, con cui si lamenta la violazione delle norme volte a garantire i principi dell’onere della prova e della presunzione di innocenza. Anche a prescindere da tale assorbente considerazione di carattere generale, la censura in esame risulta articolata in fatto. Così che va ribadito come siano precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (ex plurimis, Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482).

Tanto premesso, i ricorrenti operano un sommario riferimento al mancato raggiungimento, da parte del giudice di merito, della prova “oltre ogni ragionevole dubbio”, senza meglio precisare quali passaggi della motivazione della sentenza impugnata siano lacunosi o illogici. E fiova sul punto ricordare che il parametro di valutazione indicato nell’art. 533 cod. proc. pen. opera in modo diverso nella fase di merito e in quella di legittimità: solo innanzi alla giurisdizione di merito tale parametro può essere invocato per ottenere una valutazione alternativa delle prove sulla base delle allegazioni difensive; diversamente in sede di legittimità tale regola rileva solo nella misura in cui la sua inosservanza si traduca in una manifesta illogicità del tessuto motivazionale (Sez. 2, n. 18313 del 09/01/2020). Inoltre, non risulta riprodotto in ricorso il contenuto degli atti dimostrativi della tesi difensiva, né essi sono stati allegati, per cui le argomentazioni prospettate – che vorrebbero P. come un semplice dipendente addetto alle vendite e la coniuge Galgano del tutto estranea alle vicissitudini fiscali della società – rimangono mere congetture che la difesa avrebbe dovuto non solo enunciare, bensì dimostrare in giudizio. Né, infine, ci si confronta con le argomentazioni della Corte d’appello la quale, seppur sinteticamente, ha illustrato in modo coerente e condivisibile le ragioni da cui desumere il coinvolgimento dei ricorrenti nel sistema illecito descritto in sentenza (pagg. 28-29).

2. Il ricorso di F. – il cui primo motivo è già stato trattato sub 1.1. – è anche esso inammissibile.

2.1. Tale rilievo si attaglia al secondo motivo di doglianza, con cui si censura la sussistenza dell’elemento materiale nei reati contestati sotto il profilo del vizio di motivazione e della violazione di legge in punto di valutazione delle risultanze istruttorie.

In primo luogo, con riguardo all’errata considerazione dell’elemento soggettivo del reato, esso è formulato in fatto e, dunque, teso all’ottenimento di una sostanziale valutazione di merito, in ordine al dolo specifico di evasione. In particolare, la prospettazione difensiva si basa sulla ritenuta mancata ingerenza del ricorrente nella gestione della ditta individuale “A.”, oltre che su una pretesa ed indimostrata inconsapevolezza delle operazioni illecite poste in essere dalla stessa, astrattamente idonee ad escludere, in capo al ricorrente, la coscienza e volontà di emettere fatture relative ad operazioni inesistenti al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte dovute. In ogni caso, la Corte territoriale ha dato puntualmente conto del meccanismo criminoso posto in essere dalla citata ditta e del pieno coinvolgimento dell’imputato, titolare di “A.”, con una motivazione che, essendo conforme a quella del giudice di prima istanza, si salda con quest’ultima così da fornire un’unica e complessa trama argomentativa. Dunque, pienamente logica e coerente deve ritenersi l’affermazione dei giudici del gravame secondo cui il lungo periodo di tempo in cui il ricorrente rimaneva titolare della ditta, i rapporti intrattenuti con l’amministratore di fatto nonché il disinteresse mostrato nella gestione delle stessa non possono portare ad escluderne la responsabilità penale, ma anzi inducono a ritenere provato il meccanismo fraudolento e, conseguentemente, l’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice.

Ad ogni modo, anche a prescindere dal carattere valutativo del motivo, esso deve comunque ritenersi manifestamente infondato nella parte in cui la difesa incentra le sue ragioni sulla distinzione, del tutto arbitraria, tra inesistenza meramente giuridica ed inesistenza oggettiva delle prestazioni, ritenendo soltanto la seconda rientrante nell’egida della norma incriminatrice, con conseguente irrilevanza penale della prima tipologia di inesistenza, di cui al caso di specie. Deve infatti ricordarsi che il reato di emissione di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000, pacificamente configurabile anche in caso di fatturazione solo soggettivamente falsa, ricorre, da un lato, ove i beni o i servizi siano effettivamente entrati nella sfera giuridico- patrimoniale dell’impresa utilizzatrice delle fatture – in questo caso la “L.M.it. s.r.l. – e, dall’altro lato, ove sussista l’elemento della simulazione soggettiva, ossia la rappresentazione documentale della provenienza della prestazione oggetto dell’imposizione da un soggetto giuridico differente da quello indicato in fattura, il quale, dunque, l’abbia effettivamente erogata. Tale interpretazione, infatti, è consentita sia dall’argomento testuale, fondato sull’ampiezza della previsione normativa, la quale si riferisce genericamente ad “operazioni inesistenti”; sia dall’argomento teleologico, fondato sulla considerazione per cui, anche in tali casi, è possibile conseguire il fine illecito indicato dalla norma in esame, ovvero consentire ai terzi l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto (ex plurimis, Sez. 3, n. 20353 del 17/03/2010, Rv. 247110; Sez. 3, n. 14707 del 14/11/2007, Rv. 239658). Inoltre, lo stesso art. 1, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 74 del 2000 stabilisce che “per fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi”. Ne consegue che le operazioni soggettivamente inesistenti devono ritenersi configurabili anche quando, come nel caso di specie, la fattura rechi l’indicazione di un soggetto erogatore della prestazione imponibile – nel caso in esame “A.” – diverso da quello effettivo, individuato nell’imputato P.. Anche in una siffatta ipotesi, del resto, il documento esprime una chiara capacità decettiva, idonea a impedire l’identificazione degli attori effettivi delle operazioni commerciali, precludendo o comunque ostacolando la possibilità dell’accertamento tributario e palesando, in questo modo, un nucleo di disvalore che ne giustifica pienamente la riconducibilità all’area del penalmente rilevante (Sez. 3, n. 24307 del 19/01/2017, Rv. 269986).

2.2. Il terzo motivo di ricorso, riferito alla mancata concessione delle attenuanti generiche, è parimenti inammissibile.

A tal proposito deve richiamarsi il costante orientamento di questa Corte, in forza del quale il giudice di merito è chiamato ad esprimere sul punto un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o della esclusione (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Rv. 279549; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017 Rv. 271269). Ed invero, a tal fine non è necessaria un’analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, essendo sufficiente l’indicazione degli elementi ritenuti decisivi e rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri. L’obbligo della motivazione non è certamente disatteso quando non siano state prese in considerazione tutte le prospettazioni difensive, a condizione, però, che in una valutazione complessiva il giudice abbia dato la prevalenza a considerazioni di maggior rilievo, disattendendo implicitamente le altre. E la motivazione, fondata sulle sole ragioni preponderanti della decisione, non può, purché congrua e non contraddittoria, essere sindacata in cassazione, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (ex plurimis, Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Rv. 279549; Sez. 3, n. 54179 del 17/07/2018, Rv. 275440).

Orbene, in virtù di tali principi, non risultano configurabili i vizi evocati, avendo la Corte territoriale – in continuità con il giudice di primo grado Tribunale – ritenuto la gravità dei fatti in esame sufficiente a giustificare il diniego delle richieste attenuanti generiche. Del pari, in merito al quantum della pena, il giudice ha effettuato una valutazione globale del fatto di reato, alla luce dei criteri di commisurazione ex art. 133 cod. pen., ritenendo adeguata e congrua la sanzione applicata, inflitta tra l’altro in misura assai modesta, con concessione del beneficio della sospensione condizionale.

3. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del’ procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 3.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese .processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.