CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 29 maggio 2013, n. 110
Processo tributario – Tentativo di conciliazione – Possibilità di assegnare un termine non superiore a sessanta giorni per la formazione di una proposta – Ritenuta applicabilità alla sola conciliazione proposta dalle parti e non anche a quella proposta d’ufficio – Asserita irragionevolezza – Omessa sperimentazione del tentativo di dare una lettura costituzionalmente conforme della norma impugnata – Inammissibilità della questione – Art. 48, co. 4, D.Lgs. n. 546/1992 – Costituzione, art. 3.
Ritenuto in fatto
1.- La Commissione tributaria provinciale di Milano, con ordinanza del 7 febbraio 2012 ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 48, comma 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in cui non prevede, né consente, che la Commissione tributaria, avendo esperito d’ufficio il tentativo di conciliazione, possa o debba assegnare alle parti un termine per l’esame e per l’eventuale accettazione della proposta, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, asserendo la lesione del principio di ragionevolezza.
2.- Espone il giudice a quo che, all’udienza pubblica fissata per la trattazione della controversia avente ad oggetto l’impugnazione dell’avviso di rettifica e liquidazione, ai fini dell’imposta di registro, del valore di un ramo di azienda compravenduto, le parti avevano chiesto un termine per l’adeguato esame della proposta di conciliazione fatta d’ufficio, ai sensi del comma 2 dello stesso art. 48 del d.lgs. n. 546 del 1992.
3.- Assume il rimettente, tuttavia, che l’art. 48, comma 4, prevede la concessione di un termine alle parti solo nel caso in cui la proposta di conciliazione provenga da una di esse, non anche quando provenga dall’ufficio.
Ciò contrasterebbe con l’art. 3 Cost., per difetto di ragionevolezza: l’impossibilità di rinviare la trattazione della causa ad altra udienza vanificherebbe qualsiasi tentativo di conciliazione esperito o che potrebbe essere esperito dalla Commissione tributaria.
Ad avviso del rimettente, inoltre, non può essere data una interpretazione diversa della norma che possa consentire di superare i dubbi di costituzionalità, cosicché – in punto di rilevanza – secondo la Commissione tributaria solo se la norma fosse ritenuta illegittima potrebbe accogliersi l’istanza di rinvio.
4.- E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato. La difesa dello Stato, in primo luogo, ha eccepito l’inammissibilità della questione, evidenziando un possibile errore nell’individuazione della norma impugnata, atteso che la proposta conciliativa effettuata dalla Commissione tributaria dovrebbe essere ricondotta all’art. 48, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 e non all’art. 48, comma 4.
In secondo luogo, ha rilevato come la questione sia non fondata, atteso che la norma si sottrae alla censura formulata in ragione di una interpretazione costituzionalmente orientata della stessa. Difatti, la possibilità di assegnare un termine alle parti per esaminare la proposta conciliativa della Commissione sarebbe desumibile dalle finalità deflative dell’istituto medesimo, conformi ai principi del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. e al principio di ragionevolezza.
Considerato in diritto
1.- La Commissione tributaria provinciale di Milano sospetta di illegittimità costituzionale l’articolo 48, comma 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), che prevede: «qualora una delle parti abbia proposto la conciliazione e la stessa non abbia luogo nel corso della prima udienza, la commissione può assegnare un termine non superiore a sessanta giorni, per la formazione di una proposta ai sensi del comma 5». Premette il giudice a quo di aver esperito, alla prima udienza,
il tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 48, comma 2, del citato decreto legislativo, e che entrambe le parti avevano chiesto un termine per esaminare la proposta; sennonché, a suo avviso, l’istanza non avrebbe potuto trovare accoglimento in ragione del contenuto della disposizione impugnata: difatti il comma 4 in questione ammette il rinvio dell’udienza solo per la conciliazione proposta dalle parti e non per quella proposta d’ufficio.
Secondo il rimettente, tale mancata previsione sarebbe priva di ragionevolezza e violerebbe l’art. 3 della Costituzione, in quanto vanificherebbe di fatto il tentativo di conciliazione esperito dalla Commissione tributaria.
2.- La questione è inammissibile.
3.- Preliminare, anche rispetto all’eccezione di aberratio ictus proposta dalla difesa dello Stato, è la verifica dell’adeguatezza della valutazione del rimettente circa l’interpretazione del complesso normativo in questione.
Tale valutazione si fonda sul presupposto che il comma 2 dell’articolo 48, nel prevedere che il tentativo di conciliazione d’ufficio debba essere effettuato – come quello avanzato dalle parti – non oltre la prima udienza, esiga che la possibilità di un rinvio della causa ad altra udienza sia espressamente disciplinata anche in questo caso, analogamente a quanto fa il successivo comma 4 per il tentativo di conciliazione di parte.
4.- Osserva tuttavia la Corte che la previsione del rinvio in quest’ultima ipotesi trova la ragione d’essere nella sua specificità: l’accordo fra le parti si realizza qui al di fuori del processo e quindi richiede una disciplina procedimentale, quale è, appunto, quella dettata dal quinto comma dello stesso articolo.
Del resto, la peculiarità di questa fattispecie è evidenziata anche dalla Corte di cassazione, che la definisce come «conciliazione aderita», distinguendola dall’altra qualificata come «giudiziale» (ex multis, sentenza n. 4626 del 2007).
Quanto a quest’ultima, essa, esaurendosi interamente nel processo, trova già la sua disciplina sia nelle regole proprie del processo tributario che in quelle dell’ordinamento processuale generale.
E’ dunque alla stregua di tali regole che il rimettente avrebbe dovuto verificare la possibilità di una interpretazione del comma 2, più volte citato, tale da non comportare la preclusione lamentata. Si ritiene, peraltro, che a questo proposito non sia senza rilievo l’art. 34, comma 3, primo periodo, dello stesso decreto legislativo.
Tale disposizione, nel prevedere che all’udienza pubblica «la Commissione può disporre il differimento della discussione a udienza fissa, su istanza della parte interessata, quando la sua difesa tempestiva, scritta o orale, è resa particolarmente difficile a causa dei documenti prodotti o delle questioni sollevate dalle altre
parti», potrebbe indurre a ritenere che la Commissione, in presenza della seria prospettazione delle parti dell’esigenza di rinvio ad altra udienza, per esaminare la proposta di conciliazione esperita d’ufficio, possa acconsentire alla richiesta.
Ciò, fra l’altro, sarebbe in piena aderenza al principio della ragionevole durata del processo affermato dall’art. 111 Cost., attesa la possibilità di una rapida e semplificata chiusura del giudizio con il verbale di conciliazione.
Si aggiunga che la disposizione, lungi dall’essere un’eccezione, appare in linea con le norme del processo ordinario di cognizione che regolano la scansione procedimentale delle udienze, in presenza del tentativo di conciliazione, norme alle quali fa rinvio, nel limite della compatibilità, il comma 2 dell’art. 1 del d.lgs. n. 546 del 1992, disciplinando il processo tributario.
Difatti, l’art. 183, terzo comma, del codice di procedura civile sancisce che, all’udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione, il giudice istruttore fissi una nuova udienza se deve esperire il tentativo di conciliazione di cui all’art. 185 dello stesso codice.
In termini ancor più generali, si consideri che le norme processuali attribuiscono al giudice poteri che attengono alla conduzione del processo, e di cui lo stesso deve fare buon governo anche nel gestirne la scansione temporale, in un corretto equilibrio tra i diversi interessi costituzionalmente protetti.
5.- Nella specie, il rimettente si è limitato ad affermare che la lettera della legge non consente alcuna interpretazione adeguatrice. La questione, quindi, risulta viziata da una non compiuta sperimentazione del tentativo di dare una lettura costituzionalmente conforme della norma impugnata (in tema, ordinanze n. 212, n. 103 e n. 101 del 2011).
Ciò anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo: l’istituto della conciliazione giudiziale, infatti, offre la possibilità di una risoluzione conveniente e rapida delle controversie nel processo, analoga a quella realizzata in sede extragiudiziaria dalla Alternative Dispute Resolution – ADR, anche in ragione della non obbligatorietà di quest’ultima (sentenza n. 272 del 2013).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 48, comma 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Milano con l’ordinanza in epigrafe.
—
Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costituzionale 05 giugno 2013, n. 23.
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