CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 febbraio 2022, n. 3144
Iva – Frode carosello – Condizioni – Oggettiva fittizietà del fornitore – Conoscenza del destinatario dell’evasione dell’imposta – Prova contraria a carico del contribuente
Fatto
Ritenuto che:
La D. Distribuzione Merci e servizi s.r.l., esercente attività all’ingrosso di prodotti non alimentari, impugnava avanti alla CTP di Roma l’avviso di accertamento che traeva origine da una verifica da cui erano emerse, secondo l’Ufficio, circostanze penalmente rilevanti per l’anno 2011, in relazione alle quali veniva redatta denuncia ai sensi dell’art 347 c.p.p. per i reati contemplati dall’art 2 del dlgs 74/2000 riconducibili al coinvolgimento della società in una frode Iva intracomunitaria diretta a favorire la formazione di un ingente credito Iva attraverso l’interposizione della società cartiera “S.T. s.r.l.. la quale non aveva presentato dichiarazione Iva e II.DD. per più di tre anni, non aveva effettuato ed aveva emesso fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, applicando prezzi di molto inferiori a quelli operati da altri soggetti regolari sul mercato.
La CTP di Roma accoglieva il ricorso evidenziando che le medesime questioni avevano già formato oggetto per altre annualità di altre pronunce rese dalla medesima CTP e che il procedimento penale a carico del legale rappresentante della contribuente Paolo Salati era stato archiviato.
Avverso la sentenza di primo grado l’Agenzia delle Entrate proponeva appello avanti alla CTR del Lazio che con pronuncia nr 5629/2019 lo rigettava.
Il Giudice di appello rilevava che l’accertamento aveva preso le mosse da un processo verbale con cui era stata contestato una frode carosello posta in essere dalla società cartiera “S.T. s.r.l.” e da altre società che avevano assunto il ruolo nella prospettazione dell’Ufficio di missing trader, negli anni dal 2008 al 2011, nel settore del commercio di beni di provenienza estera interponendosi, queste ultime, tra il cedente estero ed il reale cessionario nazionale, effettivo destinatario di merci, sicché la verifica si era estesa a tutti i soggetti che avevano intrattenuto rapporti commerciali con le citate società venditrici e tra questi la società in questione.
Osservava che, all’esito dell’esame indiziario, non erano emersi a carico della società contribuente elementi in grado di dimostrare la connivenza della stessa nella realizzazione del disegno frodatorio né la consapevolezza di porre in essere con i propri acquisti operazioni soggettivamente inesistenti, in specie perché i rapporti intrattenuti con la società “S.T. s.r.l.” erano regolari, i prezzi di vendita praticati erano del tutto conformi a quelli di mercato, se non addirittura maggiori, come dimostrato dalla perizia giurata redatta in sede penale. Sottolineava poi che i dati forniti dall’Ufficio non erano in grado di dimostrare il contrario, anche in considerazione del fatto che la mancanza di strutture o di magazzini avrebbero potuto non essere conosciute dalla società acquirente perché le vendite avvenivano on line, con conseguente ricorrenza, nella specie, dell’esimente della buona fede.
A tali considerazioni il giudice di appello aggiungeva ad abundantiam, pur tenendo conto del principio dell’autonomia e del doppio binario tra il procedimento penale e quello tributario, che il giudice penale aveva, sulla scorta di elementi raccolti in tale sede, accertato la mancanza in capo al legale rappresentante della società contribuente della consapevolezza di partecipare ad una frode carosello.
Avverso tale sentenza l’Ufficio propone ricorso per cassazione affidato a due motivi cui resiste la contribuente con controricorso eccependo l’inammissibilità del ricorso per omesso deposito del ricorso.
Nella memoria depositata prima dell’udienza camerale la controricorrente rinunciava alla suddetta eccezione avendo verificato la tempestività dell’iscrizione a ruolo.
Diritto
Considerato che:
Con il primo motivo si denuncia la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art 112 c.p.c. nonché degli artt 36 e 61 del Dlgs 546/1992 e dell’art 132 c.p.c., in relazione all’art 360 primo comma nr 4 c.p.c., per essere la CTR incorsa in errore prendendo in esame una fattispecie diversa rispetto a quella sottoposta alla sua attenzione e per aver confermato l’annullamento dell’avviso di accertamento, con apparente motivazione sulla base di circostanze che non si attagliavano agli effettivi presupposti della verifica fiscale.
Con un secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art 54 del D.P.R. nr 633/1972 e dell’art 2697 c.c., in relazione all’art 360 primo comma nr 3 c.p.c., per avere la CTR gravato l’Amministrazione finanziaria di un onere probatorio non spettantele.
Va in primo luogo esclusa la violazione dell’art 112 c.p.c.
L’indagine fiscale riguardante diversi anni di imposta, come emerge dall’esame dell’avviso di accertamento e dallo stesso ricorso introduttivo, è stata originata da una attività ispettiva avviata nei confronti della S.T. s.r.l., che avrebbe svolto un ruolo di missing trader nell’ambito di una frode carosello, nell’ambito della quale sono stati individuati numerosi soggetti economici implicati a vario titolo nella medesima frode a carosello.
Tra le società che hanno assunto lo specifico ruolo di missing trader sono state individuate la K. s.r.l., la B.M. s.r.l., la K. s.r.l., l’I.R. s.r.l. e la V. s.r.l. (all. 2 fascicolo primo grado contribuente).
Nello stesso avviso di accertamento, oggetto dell’odierna impugnativa, la frode carosello viene ricostruita, sulla premessa di una piena condivisione da parte dell’Ufficio dei rilievi mossi nel processo verbale del 17.9.2015, richiamando unicamente la società S.T. e soltanto in un passaggio si fa riferimento una sola volta alla V. s.r.l., mentre nel resto si richiamano le argomentazioni del processo verbale originario.
In questo quadro la decisione qui impugnata si sottrae alla critica formulata dalla ricorrente, ponendosi all’interno del perimetro tracciato dall’accertamento e operando un richiamo al processo verbale che è stato posto a fondamento dell’atto impositivo e dal quale sono scaturite le ulteriori indagini che hanno coinvolto diverse società – fra le quali anche la società V. s.r.l. – con i correlati atti impositivi.
Né è configurabile il vizio di motivazione apparente.
A seguito della modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5, introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. con modif. nella L. 7 agosto 2012 n. 134, che ha circoscritto il controllo del vizio di legittimità alla verifica del requisito “minimo costituzionale” di validità prescritto dall’art. 111 Cost., sicché è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
Tale requisito minimo non risulta soddisfatto, invero, soltanto quando ricorrano quelle stesse ipotesi che si convertono nella violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, e che determinano la nullità della sentenza (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile), mentre al di fuori di esse residua soltanto l’omesso esame di un fatto storico controverso, che è stato oggetto di discussione e che sia “decisivo”, non essendo più consentito impugnare la sentenza per criticare la sufficienza del discorso argomentativo a giustificazione della decisione adottata sulla base degli elementi fattuali acquisiti al rilevante probatorio ritenuti dal giudice di merito determinanti ovvero scartati in quanto non pertinenti o recessivi (Sez. U, n. 8053 del 2014).
Ne deriva che la censura può essere formulata solo come omesso esame di fatto decisivo, nella specie neppure individuato.
Né porta ad un più favorevole esito l’eventuale qualificazione della doglianza come error in procedendo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, essendo chiara la ratio decidendi e il percorso argomentativo della CTR, incentrato sulla mancata prova, da parte dell’Ufficio, della circostanza che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto alla detrazione si iscriveva in una evasione commessa dal fornitore.
Il secondo motivo è parimenti infondato.
Va ricordato che “In tema di IVA, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi” (Sez. 5 -, Sentenza n. 27566 del 30/10/2018; Cass. n. 9851 del 2018).
Sul punto, il giudice a quo si è attenuto ai suddetti principi avendo positivamente scrutinato l’insussistenza di indizi idonei a dimostrare la connivenza del legale rappresentante della D. Distribuzione Merci e Servizi s.r.l. nella realizzazione del disegno frodatorio, valorizzando in questa prospettiva la regolarità dei prezzi di vendita conformi a quelli di mercato e l’assenza di specifiche prove di segno contrario da parte dell’Ufficio ed osservando che la mancanza di magazzini e di strutture e spazi adeguati della venditrice potevano risultare non conosciute trattandosi di vendite on line, sicché era da ritenere sussistente l’esimente della buona fede, tenuto anche conto degli elementi emersi nel giudizio penale.
Il vizio di violazione di legge è poi insussistente anche con riguardo alla violazione dell’art. 2697 c.c. che si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (v., da ultimo, Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018; Sez. 3 -, Sentenza n. 13395 del 29/05/2018), poiché, trattandosi della prova di operazioni soggettivamente inesistenti, grava sull’Amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapesse o potesse sapere, con l’uso della diligenza media, che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si è iscritta in un’evasione o in una frode.
L’Ufficio non è stato in grado di provare, come ha evidenziato la CTR, attraverso presunzioni semplici che, al momento dell’acquisto dei beni da cui erano scaturite le fatture in contestazione, il contribuente era stato posto nella disponibilità di elementi sufficienti per un imprenditore onesto che opera sul mercato e mediamente diligente a comprendere che il soggetto formalmente cedente il bene al concedente aveva, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o compiuto una frode (v., Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza N. 5873 del 28/02/2019; Cass. N. 21953 del 2007; N. 27566 del 2018; N. 9108 del 2012); null’altro richiedendosi se non la dimostrazione, anche presuntiva, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente, per cui, ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (v., da ultimo, Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 27566 del 30/10/2018).
Il ricorso va dunque rigettato.
Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna l’Amministrazione ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi € 5.600,00, oltre accessori di legge e spese forfettarie nella misura del 15 per cento.
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