Corte di Cassazione, ordinanza n. 20405 depositata il 14 luglio 2023
operazioni soggettivamente inesistenti – onere della prova – Le doglianze, quindi, riguardano aspetti essenzialmente meritali, concernenti l’apprezzamento in fatto svolto dal Giudice di merito che è incensurabile nel giudizio di legittimità se correttamente e congruamente motivato, senza dimostrare precisi vizi nel ragionamento presuntivo o difetti motivazionali
RILEVATO CHE:
1. Secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata, l’Agenzia delle entrate aveva emesso nei confronti della E. srl in liquidazione avviso di accertamento per l’anno 2012 recante maggiore IVA su fatture per operazioni soggettivamente inesistenti emesse dalle società C.T. spa.
2. La società aveva proposto ricorso che la Commissione Tributaria Provinciale (CTP) di Napoli aveva accolto, osservando che era stato prodotto solo uno stralcio del pvc inidoneo a dare prova della natura fraudolenta del rapporto tributario, che le dichiarazioni su cui si fondava l’accertamento erano state rese dai soci di una società diversa dalla C.T. srl, la cui natura di “società filtro” non era stata dimostrata.
3. L’Agenzia delle entrate ha proposto appello che la Commissione Tributaria Regionale (CTR) della Campania ha accolto, ritenendo dimostrata la natura di “cartiera” della C.T. srl e delle altre società con cui la E. srl aveva intrattenuto rapporti, essendo queste prive di struttura commerciale, di magazzino, di dipendenti, con un capitale minimo; tutti questi elementi dovevano indurre qualsiasi operatore di media esperienza a rendersi conto che l’effettivo cedente doveva essere un soggetto diverso dall’emittente le fatture.
4. Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la società con due mezzi.
5. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate
CONSIDERATO CHE:
1. Con il primo motivo la società deduce nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., violazione dell’art. 19 d.P.R. n. 633/1972, insufficiente ed errata motivazione della sentenza, violazione dell’art. 36 d.lgs. n. 546/1992 e degli artt. 112 e 115 p.c., dell’art. 132 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma 1 nn. 3 e 4 c.p.c.
2. Con il secondo motivo deduce nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. art. 2967 c.c., violazione dell’art. 19 P.R. n. 633/1972, dell’art. 36 d.lgs. n. 546/1992 e 132 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma 1 nn. 3 e 4 c.p.c. – violazione dell’art. 7 l. n. 212/2000 in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. -errata valutazione dell’onere della prova.
3. I due motivi possono essere esaminati congiuntamente e sono per un verso inammissibili e per altro infondati.
4. Sono inammissibili, innanzitutto, laddove tengono insieme censure eterogenee, in parte incompatibili, riguardanti da un lato violazioni di legge anche sostanziale e, dall’altra vizi motivazionali, non solo della sentenza impugnata, senza distinguere chiaramente un profilo di doglianza dall’altro, così da non rendere agevole la precisa individuazione della ragione di impugnazione.
4.1 E’ inammissibile, invero, la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro (Cass. n. 26874 del 2018, nello stesso senso, Cass. n. 19443 del 2011 nonché Cass. n. 36881 del 2021 quando la sovrapposizione di censure non consente alla Corte di cogliere con certezza le singole doglianze prospettate, dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, di censure caratterizzate da irredimibile eterogeneità).
4.2 L’articolazione in un singolo motivo di più profili di doglianza costituisce ragione d’inammissibilità quando non è possibile ricondurre tali diversi profili a specifici motivi di impugnazione, dovendo le doglianze, anche se cumulate, essere formulate in modo tale da consentire un loro esame separato, come se fossero articolate in motivi diversi, senza rimettere al giudice il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, al fine di ricondurle a uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse (Cass. n. 26790 del 2018).
5. In ogni caso, tutte le questioni riversate nei motivi sono infondate.
5.1 Quanto ai vizi motivazionali va osservato che l’insufficiente motivazione non è più prevista come ragione di impugnazione (Cass. 10862 del 2018), richiedendosi o l’omesso esame circa un fatto storico decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti (ai sensi del novellato art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.) ovvero carenze tali da impedire alla motivazione di raggiungere il minimo costituzionale ex art. 111 cost. (Cass. sez. un. n. 8053 del 2014) ovvero, ancora, l’omessa pronunzia su una o più domande o eccezioni; ma questi vizi, come risulterà infra, non sussistono.
5.2 Quanto alle violazioni di legge sostanziale, la ricorrente deduce che l’onere della prova in ordine alle operazioni soggettivamente inesistenti grava in capo all’Amministrazione, che aveva provato la propria buona fede, che aveva prodotto copiosa documentazione comprovante l’esistenza soggettiva delle operazioni (contratti, contabilità, documentazione bancaria relativa ai pagamenti, visure camerali delle società fornitrici).
5.3 Premesso che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. n. 331 del 2020), in questo caso la CTR ha correttamente applicato i principi in materia.
6. Questa Corte, alla luce della giurisprudenza unionale, ha statuito il seguente principio di diritto: In tema di IVA, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (Cass. n. 9851 del 2018, Cass. n. 27555 del 2018, Cass. n. 15369 del 2020).
6.1 In caso di operazioni soggettivamente inesistenti l’Amministrazione deve provare, oltre l’alterità soggettiva dell’imputazione delle operazioni (il soggetto formale non è quello reale), che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente, con l’emissione della relativa fattura, aveva evaso l’imposta o partecipato a una frode, e cioè che il contribuente disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale dubbio ovvero «a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente» (Corte di Giustizia, Bonik, C-285/11; Corte di Giustizia, Ppuh, C-277/14, par. 50).
6.2 Questa prova può dirsi raggiunta qualora l’Amministrazione fornisca attendibili indizi, idonei ad integrare una presunzione semplice (v. Cass. n. 14237 del 2017; Cass. n. 20059 del 2014; Cass. n. 10414 del 2011; Corte Giust. Kittel, C-439/04; Corte Giust. Mahagèben e David, C-80/11 e C-142/11); è sufficiente che gli elementi forniti dall’Amministrazione si riferiscano anche solo ad alcune fatture o circostanze rilevanti per la qualificazione della società interposta come cartiera (quali ad es. la mancanza di sede, la mancanza di iscrizione, l’omesso versamento delle imposte, …) ovvero a singole indicazioni significativamente riferibili alla sfera di conoscenza o conoscibilità dell’imprenditore, pur escludendo ogni automatismo probatorio o criterio generale predeterminato.
6.3 L’onere dell’Amministrazione finanziaria sulla consapevolezza del cessionario va dunque ancorato al fatto che questi, in base ad elementi obbiettivi e specifici, che spetta all’Amministrazione individuare e contestare, conosceva o avrebbe dovuto conoscere che l’operazione si inseriva in una evasione all’Iva e che tale conoscibilità era esigibile, secondo i criteri dell’ordinaria diligenza ed alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, tenuto conto delle circostanze esistenti al momento della conclusione dell’affare ed afferenti alla sua sfera di azione; se al destinatario non compete, di norma, conoscere la struttura e le condizioni di operatività del proprio fornitore, sorge, tuttavia, un obbligo di verifica, nei limiti dell’esigibile, in presenza di indici personali od operativi anomali dell’operazione commerciale ovvero di scelte dallo stesso effettuate tali da evidenziare irregolarità e ingenerare dubbi di una potenziale evasione, la cui rilevanza è tanto più significativa dati il carattere strutturale e professionale della presenza dell’imprenditore nel settore di mercato in cui opera e l’aspettativa, fisiologica ed ordinaria, che i rapporti commerciali con gli altri operatori siano proficui e suscettibili di reiterazione nel tempo.
6.4 Raggiunta tale prova, è quindi onere del contribuente dimostrare – oltre all’effettività del suo interlocutore – la propria buona fede, ossia, mutuando i principi affermati da questa Corte (sez. un. n. 21105 del 2017), che non disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale dubbio ovvero, come sopra osservato, a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto.
7. Nello specifico, la CTR, premesso che incombe in capo all’Ufficio l’onere di provare non solo la natura di cartiere del soggetto emittente le fatture ma anche la conoscenza o conoscibilità della frode da parte della cessionaria con la diligenza pretendibile, ha accertato che la C.T. e le altre società con cui la E. aveva avuto rapporti «non erano in possesso di una struttura commerciale – aziendale, di un magazzino, di dipendenti ed avevano un capitale sociale minimo, elementi tutti che avrebbero indotto qualsiasi operatore di media esperienza a rendersi conto che le fatture erano emesse da un soggetto diverso dall’effettivo cedente del bene o servizio e che, quindi, si trattava di operazioni definibili come soggettivamente inesistenti»; in particolare, la C.T. spa non aveva adeguata capacità economica né disponibilità finanziaria per far fronte alle esigenze finanziarie, i titolari erano privi di esperienza nel settore del commercio, mancavano adeguate strutture logistiche e contratti di fornitura di utenze e gli acquisiti avvenivano solo su richiesta o proposta del fornitore.
7.1 La CTR, inoltre, si è confrontata con le difese svolte dalla E., la quale aveva opposto la regolarità delle proprie scritture contabili e della documentazione concernente l’effettiva consegna della merce con pagamento del corrispettivo, ritenendo questi elementi non sufficienti a dimostrare «una situazione di oggettiva inconoscibilità, non superabile con l’ordinaria diligenza del buon imprenditore», atteso che erano ben quattro le società cartiere con le quali la E. aveva intrattenuto rapporti commerciali protrattisi per più anni.
8. La ricorrente contesta questa ricostruzione deducendo di aver dimostrato che, in realtà, le società fornitrici svolgevano regolare attività commerciale, disponevano di dipendenti, i pagamenti erano tracciati e i prezzi non erano inferiori a quelli di mercato.
8.1 Le doglianze, quindi, riguardano aspetti essenzialmente meritali, concernenti l’apprezzamento in fatto svolto dal Giudice di merito che è incensurabile nel giudizio di legittimità se correttamente e congruamente motivato, senza dimostrare precisi vizi nel ragionamento presuntivo della CTR o difetti motivazionali, cosicché la critica si risolve in una diversa ricostruzione delle circostanze fattuali o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica diversa da quella ritenuta applicata dal giudice di merito, ponendosi su un terreno che non è quello del n. 3 dell’art. 360 c.p.c. (Cass. sez. un. n. 1785 del 2018).
8.2 D’altro lato, è inammissibile la deduzione di fatti in contrasto con l’accertamento svolto dal giudice di merito, dovendosi piuttosto far valere attraverso lo strumento della revocazione e non con il ricorso per cassazione la falsa percezione dei fatti in cui sia incorso il giudice di merito (Cass. n.24539 del 2007; Cass. n. 4893 del 2016).
9. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato e le spese, liquidate come in dispositivo, vanno regolate secondo soccombenza.
P.Q.M.
rigetta il ricorso;
condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito;
ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale/ricorso incidentale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.