Corte di Cassazione, ordinanza n. 4619 depositata il 14 febbraio 2023
operazioni inesistenti – frode carosello – efficacia non automatica della sentenza penale dei reati tributari
RITENUTO CHE
1. La Commissione tributaria provinciale di Lodi, con sentenza n. 59/01/14, depositata in data 11 febbraio 2014, aveva accolto il ricorso presentato da G.C.. G.M., in proprio e quale Legale rappresentante della Nuova G.G.L. s.r.l., avverso gli avvisi d’accertamento n. T9R03M201050/2012 e n. T9R03M201051/2012, con cui, rispettivamente per gli anni d’imposta 2006 e 2007, l’Ufficio aveva determinato ai fini IRES e IRAP un’indebita deduzione di costi pari ad euro 2.268,75 e ad euro 6.437,50 e ai fini IVA aveva determinato un’indebita limitazione d’imposta rispettivamente pari ad euro 19.182,72 e ad euro 22.743,88, per omessa fatturazione e registrazione di operazioni imponibili.
2. La Commissione tributaria provinciale adita aveva accolto il ricorso introduttivo, statuendo che le presunzioni, su cui l’Ufficio aveva fondato gli avvisi d’accertamento, erano infondate, stante l’ampia ed esauriente produzione di documenti contabili, di trasporto da e per l’estero, e bancari di parte ricorrente, probante l’effettività delle transazioni
3. La Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate, affermando che:
-) l’appellata aveva versato in causa copiosa documentazione, quali i documenti di trasporto e le certificazioni doganali, comprovanti l’effettività dei rapporti e delle operazioni commerciali intercorse con le società K.K. e G.K.; copia degli estratti/conto dall’anno 2001 all’anno 2007, nonché la sentenza n. 39/01/12, depositata in data
17 febbraio 2012, della Commissione Tributaria Provinciale di Lodi, concernente, per l’anno d’imposta 2005, materia del contendere analoga a quella di cui si trattava nella presente sede contenziosa; inoltre, aveva prodotto la documentazione contabile probante l’avvenuta vendita dei propri prodotti alle società K.K. e G.K., con i relativi documenti probanti i pagamenti effettuati mediante bonifici bancari;
-) risultava che le società K.K. e G.K. erano operative ed in particolare la G.K. società aveva come oggetto sociale quello di essere «immobiliare e di intermediazione mobiliare» e, come tale, era regolarmente autorizzata ad omologare e rivendere prodotti industriali in stati comunitari, nello specifico ad ottenere omologazioni di bombole di gas (oggetto delle fatture), valide per tutto il territorio europeo, attività svolta in modo assai competitivo in ambito continentale;
-) la società era stata destinataria della fattura (allegato n. 018 al ricorso introduttivo), con allegata la relativa certificazione, emessa dalla società G.K., oltre che delle fatture n. 019 e n. 020, di analoga provenienza;
-) al termine delle indagini della Procura della Repubblica di Torino, relative alla materia del contendere analoga a quella di cui trattasi, non era stato dato corso ad azioni penali nei confronti della responsabile legale della società G.C.. G.M., non presente nel decreto di rinvio a giudizio e, quindi, non imputata, statuizione che faceva stato nella presente fattispecie;
-) in definitiva non risultavano fondate e, per l’effetto, erano illegittime le presunzioni dell’Ufficio, non supportate da dati ed elementi certi, tali da poter giustificare presunzioni gravi, precise e concordanti, che restavano conseguentemente irrilevanti.
4. L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a tre motivi.
5. G.C.. G.M. resiste con
6. Il Fallimento N. G.L. s.r.l., in liquidazione, non ha svolto difese.
CONSIDERATO CHE
1. Il primo motivo deduce la violazione degli artt. 115, 116 e 132, comma secondo, 4, cod. proc. civ.; 118 disp. att. cod. proc. civ., 36, comma 2, n. 4, 53 e 61 del decreto legislativo n. 546/1992, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 4, cod. proc. civ.: la Commissione tributaria regionale aveva recepito le considerazioni formulate dalla società contribuente, in modo assolutamente apodittico e senza alcun riferimento al contenuto dell’atto di appello dell’Ufficio in punto di non condivisibilità delle conclusioni cui era pervenuto il giudice di primo grado; l’evidenziato error in procedendo risultava essere grave e censurabile in quanto la contestazione della natura fittizia sia delle cessioni che degli acquisiti effettuati presso la società ungherese si fondavano sulle dichiarazioni rese all’Autorità giudiziaria dai Sigg.ri G.C.. e F.L. Leonardo, ovvero dalle persone indagate nell’ambito di quello stesso procedimento penale, i cui esiti, nella stessa prospettazione della Commissione tributaria regionale, erano vincolanti per il giudice tributario.
2. Il secondo motivo deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697, 2727, 2729 civ., 39, comma 1, lett. d) e 40 del d.P.R. n. 600/1973, 38, 39, 41 e 42 del decreto legge n. 331/1993, convertito con modificazioni dalla legge n. 427/1993, 109 del d.P.R. n. 917/1986, 14, comma 4 bis, della legge n. 537/1993, 8 del decreto legge n. 16/2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 44/2012, 21, comma 7, 54, comma 5 del d.P.R. n. 633/1972, 5 e 25 del decreto legislativo n. 446/1997, 17 della Dir. CEE 17 maggio 1977, n. 77/388/CE e 167 Dir. CEE 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE (come interpretati dalla giurisprudenza comunitaria), in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ.; il giudice di appello aveva erroneamente ritenuto che era onere dell’Ufficio, anziché del contribuente, fornire in giudizio la prova dell’inesistenza dei presupposti fattuali e giuridici richiesti per la legittima applicazione del regime di non imponibilità IVA alle cessioni asseritamente intracomunitarie, così come per la legittima deduzione dei costi imputati alla base imponibile Ires ed Irap; il giudice di secondo grado aveva completamente tralasciato di considerare il contenuto univoco delle dichiarazioni rese dai signori F.L. e G.C.. e aveva attribuito rilevanza a circostanze meramente allegate ed in alcun modo dimostrate, quali l’effettiva operatività delle società K.K. e G.K., nonché l’asserito svolgimento da parte della G.K. di un’attività non solo immobiliare, ma anche di intermediazione mobiliare, attribuendo rilevanza anche a documenti quali le fatture e le bolle di trasporto con visto doganale, prive di decisività; di contro, la controparte non aveva prodotto alcun documento idoneo a dimostrare l’oggetto sociale e l’effettività dell’attività svolte dalle società ungheresi, essendosi limitata a produrre esclusivamente, le fatture contestate dall’Ufficio; non era, inoltre, dato comprendere la plausibilità logica, prima ancora che giuridica, tra lo svolgimento di una (asserita, nonché) generica attività di intermediazione mobiliare con la specifica attività di omologazione e vendita di prodotti industriali che richiedeva il rilascio di apposite autorizzazioni da parte degli organi competenti; la Commissione tributaria regionale, attribuendo valore dirimente alla mera documentazione «formale» delle operazioni contestate dall’Ufficio, aveva, di fatto, esonerato il contribuente anche dall’onere di fornire la prova della legittima imputazione alla base imponibile Ires ed Irap, secondo i criteri di cui all’art. 109 del d.P.R. n. 917/1986, delle componenti negative di reddito recuperate a tassazione; in ultimo, il giudice di secondo grado sembrava avere attribuito valore di «giudicato» ad una decisione adottata nell’ambito di un procedimento cui (pacificamente) erano state estranee sia l’Amministrazione finanziaria, sia la società contribuente o, comunque, il suo legale rappresentante, in violazione del principio della autonomia del procedimento penale rispetto alle procedure dell’accertamento tributario e dell’orientamento della Corte di Cassazione che affermava che, nel processo tributario, il giudice poteva legittimamente fondare il proprio convincimento anche sulle prove acquisite nel processo penale, pure se questo era destinato a concludersi con una pronuncia non opponibile alle parti del giudizio civile, purché tali prove venivano dal giudice tributario sottoposte ad una propria ed autonoma valutazione.
3. Il terzo motivo deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., come modificato dall’art. 54 del decreto legge n. 83/2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 134/2012, ovvero la fittizietà delle operazioni concluse dalla società in epigrafe con le società K.K. e G.K.; era, infatti, indubbio che i rilievi dell’Ufficio si fondavano, essenzialmente: a) sulla natura di mera «cartiera» delle società K.K. e G.K.; b) sui rapporti di parentela tra il Sig. G.P., amministratore di fatto della società ungheresi, la signora C.L., moglie di G.P. ed amministratrice della G.K. e la Sig.ra G.M.; c) sul contenuto delle dichiarazioni rese dal Sig. F.L. (ideatore della frode fiscale) e del Sig. G.P., univoche nel senso di indicare come reale destinatario delle forniture effettuate dalla società in epigrafe la società italiana D.R. s.r.l. con sede in Milano.
3.1 I motivi, che vanno trattati congiuntamente perchè investono profili diversi della medesima questione, riguardante l’accertamento induttivo-analitico, in presenza di operazioni soggettivamente inesistenti sia ai fini delle imposte dirette, che ai fini IVA, e i criteri di ripartizione dell’onere della prova ad esso correlati, sono fondati.
3.2 In proposito, deve richiamarsi l’orientamento di questo Corte secondo cui «qualora l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attiene ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, incombe sulla stessa l’onere di provare la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto» (cfr. Cass., 31 gennaio 2022, 2922; Cass., 20 luglio 2020, n. 15369; Cass., 28 febbraio 2019, n. 5873; Cass., 20 aprile 2018, n. 9851).
3.3 Più in particolare, questa Corte, partendo dalla premessa che ai fini della ripartizione dell’onere della prova, occorre considerare che il diniego del diritto di detrazione segna un’eccezione al principio di neutralità dell’Iva che tale diritto costituisce, ha affermato che incombe, in primo luogo, sull’Amministrazione finanziaria provare che, a fronte dell’esibizione del titolo, difettano, le condizioni, oggettive e soggettive, per la detrazione e che, una volta raggiunta questa prova, spetterà al contribuente fornire la prova contraria, ossia di aver svolto le trattative in buona fede, ritenendo incolpevolmente che le merci acquistate fossero effettivamente rifornite dalla società cedente (Cass., 20 aprile 2018, n. 9851, citata).
3.4 In particolare, questa Corte, nella sentenza n. 9851 del 2018, citata, ha precisato che:
-) la prova che deve essere fornita dall’Amministrazione in caso di operazioni soggettivamente inesistenti si incentra su due circostanze di valenza costitutiva rispetto alla pretesa erariale: l’alterità soggettiva dell’imputazione delle operazioni, ovvero il soggetto formale non è quello reale; il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione si inseriva in una evasione Iva, non è, dunque, necessaria la prova della partecipazione all’evasione ma è sufficiente, e necessario, che il contribuente avrebbe dovuto esserne consapevole;
-) la prova può ritenersi raggiunta se l’Amministrazione fornisce attendibili indizi idonei ad integrare una presunzione semplice e, dunque, non occorre la prova «certa» e incontrovertibile di ogni operazione e dettaglio, ovvero l’Amministrazione può assolvere al suo onere probatorio anche mediante presunzioni, come prevede per l’Iva l’art. 54, secondo comma, d.P.R. n. 633 del 1972 e, per le imposte dirette, l’art. 39, primo comma, lett. d, d.P.R. n. 600 del 1973 e mediante elementi indiziari;
-) è sufficiente che gli elementi forniti dall’Amministrazione si riferiscano anche solo ad alcune fatture o circostanze rilevanti per la qualificazione della società interposta come cartiera (quali ad es. la mancanza di sede, la mancanza di iscrizione, l’omesso versamento delle imposte) ovvero a singole indicazioni significativamente riferibili alla sfera di conoscenza o conoscibilità dell’imprenditore;
-) l’onere dell’Amministrazione finanziaria sulla consapevolezza del cessionario va dunque ancorato al fatto che questi, in base ad elementi obbiettivi e specifici, che spetta all’Amministrazione individuare e contestare, conosceva o avrebbe dovuto conoscere che l’operazione si inseriva in una evasione all’Iva e che tale conoscibilità era esigibile, secondo i criteri dell’ordinaria diligenza ed alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, tenuto conto delle circostanze esistenti al momento della conclusione dell’affare ed afferenti alla sua sfera di azione;
-) raggiunta tale prova, è onere del contribuente dimostrare, oltre all’effettività del suo interlocutore, la propria buona fede, ossia, «di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto – secondo i criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto – al fine di evitare di essere coinvolto in una tale situazione, in presenza di indizi idonei a farne insorgere il sospetto», non permettendo una diversa conclusione neppure gli accertamenti eventualmente effettuati ed attesa l’inesigibilità di ulteriori e più approfondite verifiche;
-) l’onere probatorio incombente sul destinatario può essere articolato su una pluralità di livelli e può investire sia l’asserito carattere di anomalia degli elementi posti in evidenza dal Fisco, sia l’attività conoscitiva preventiva eventualmente posta in essere da cui emergeva, in ordine all’effettività ed operatività dell’impresa interposta, un esito tranquillizzante, mentre non potevano essere esperibili, né tantomeno esigibili, accertamenti più incisivi;
-) è, invece, priva di rilievo tanto la prova sulla regolarità formale delle scritture, quanto sulle evidenze contabili dei pagamenti quanto, infine, sull’inesistenza di un dimostrato vantaggio perché i prezzi di vendita erano conformi o superiori alla media di mercato, perché si tratta di circostanze, le prime, già insite nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente (e relative a dati e documenti facilmente falsificabili), e, l’ultima, perché riferita ad un dato di fatto esterno alla fattispecie tipica ed inidoneo di per sé a dimostrare l’estraneità alla frode.
3.5 Ciò posto, il giudice tributario di merito, investito della controversia avente ad oggetto l’atto impositivo, deve previamente valutare, con giudizio di fatto censurabile in cassazione solo per vizi attinenti alla congruità ed alla coerenza logica della motivazione, la sussistenza dei caratteri di gravità, precisione e concordanza degli indizi motivanti l’atto medesimo, esaminandoli sia singolarmente sia nel loro complesso, ed esponendo adeguatamente l’esito di tale giudizio nella motivazione della sentenza. Quando egli ritiene, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità (non necessariamente di certezza), che detti indizi sono sufficienti a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, con riguardo, nel caso delle frodi carosello, all’esistenza dell’organizzazione fraudolenta, alla partecipazione ad essa del contribuente o, quanto meno, alla consapevolezza da parte sua di avvantaggiarsi della frode con danno dell’erario, la domanda dell’amministrazione deve ritenersi provata; con la conseguenza che si sposta a carico del contribuente, secondo la regola generale ricavabile dall’ art. 2727 cod. civ. e ss., e dall’art. 2697, comma secondo, cod. civ., l’onere di provare eventuali fatti a suo favore; la mancata deduzione di idonea prova contraria, fin dall’atto introduttivo del giudizio, o l’insuccesso di essa, comportano l’accoglimento della pretesa del fisco fondata su valide presunzioni. In tale contesto, le dichiarazioni rilasciate da terzi; le risultanze delle indagini condotte nei confronti di altre società; gli atti trasmessi dalla guardia di finanza, risultanti dall’attività di polizia giudiziaria, senza esclusione di altri atti, se contenuti negli atti (come il processo verbale di constatazione) allegati all’avviso di rettifica notificato o trascritti essenzialmente nella motivazione dello stesso, costituiscono parte integrante del materiale indiziario e probatorio, che il giudice tributario di merito è tenuto a valutare dandone adeguato conto nella motivazione della sentenza. Né in campo tributario sono previste limitazioni di efficacia degli atti trasmessi dalla polizia giudiziaria per il fatto, in particolare, che il difensore del contribuente non abbia partecipato alla formazione della prova racchiusa nell’atto trasmesso; il contenuto di tale atto, d’altronde, costituisce semplice indizio nel processo tributario, ed il giudicante di merito è tenuto a prenderlo in considerazione, a vantaggio o contro il fisco, nel quadro delle complessive acquisizioni processuali, con piena facoltà d’intervento delle difese.
3.6 Tanto premesso, nella vicenda in esame, la Commissione tributaria regionale non ha fatto piena e corretta applicazione dei principi di diritto espressi in tali arresti giurisprudenziali.
Ed invero, dalla lettura del ricorso per cassazione, che, sul punto, rispetta il principio di autosufficienza, in quanto in parte trascrive e in parte riporta il contenuto dell’avviso di accertamento in esame, oltre che del p.v.c. del Comando Compagnia di Lodi della Guardia di Finanza del 29 giugno 2009, l’Ufficio ha fondato il recupero delle imposte, relativamente alle operazioni soggettivamente inesistenti, sulla scorta di elementi presuntivi gravi precisi concordanti, riportati integralmente alle pagine 12 – 23 del ricorso per cassazione: 1) la natura di mera «cartiera» della società G.K.; 2) i rapporti di parentela tra il Sig. G.P., amministratore di fatto della società ungheresi, e la Sig.ra G.M.; 3) il contenuto delle dichiarazioni rese dal Sig. F.L. (ideatore della frode fiscale) e del Sig. G.P. univoche nel senso di indicare come reale destinatario delle forniture effettuate dalla società in epigrafe la società italiana D.R. s.r.l. con sede in Milano.
Si tratta di elementi tipici (che danno luogo ad una presunzione di svolgimento di operazioni soggettivamente inesistenti) che comportavano l’inversione dell’onere della prova a carico della società contribuente, nel senso che quest’ultima avrebbe dovuto dimostrare che «non avrebbe potuto sapere» pur avendo utilizzato la massima diligenza esigibile: questi elementi, invece, sono stati (illegittimamente) trascutati dalla Commissione tributaria regionale, con il conseguente errore di diritto, correttamente censurato dall’Agenzia ricorrente.
Nella specie, dunque, la Commissione tributaria regionale, con una motivazione che appare oltre che insufficiente, anche apodittica, ha affermato che l’Ufficio non aveva apportato ulteriori e specifici elementi dimostrativi che consentivano una convincente e oggettiva qualificazione degli indirizzi e delle presunzioni poste a sostegno dell’accertamento per poterlo considerare legittimo, ritenendo peraltro che l’esistenza delle società ungheresi e delle fatture (dimostrata da elementi documentali e chiarimenti giustificativi) era tale da potere considerare legittimo l’accertamento.
Il giudice tributario di appello infatti, ha ancorato la propria valutazione per escludere l’incolpevolezza dell’ignoranza all’esistenza delle società ungheresi (elemento non risolutivo in presenza di operazioni soggettivamente inesistenti effettuate, cioè, da soggetto diverso dall’effettivo cedente dei beni o servizi) e alla regolarità della documentazione ( specificamente «fatture e quant’altro»), omettendo, per contro, di considerare una ulteriore varietà di elementi, introdotti dall’Agenzia in sede di accertamento e riproposti nella sede giudiziaria, sopra indicata, che riscontravano il coinvolgimento di una pluralità di soggetti con ruoli non chiaramente definiti – e tali, dunque, da comportare un evidente dubbio sulla regolarità delle cessioni delle bombole di gas; per contro, la sentenza ha valorizzato elementi privi di rilievo, quali la formale regolarità della documentazione e delle annotazioni di contabilità (in ispecie per una vicenda frodatoria), dimenticando che è l’indebita detrazione il maggior guadagno che consegue a tali operazioni.
Soccorre, al riguardo, il principio statuito da questa Corte secondo cui «Ai fini della prova dell’esistenza di un’operazione non è sufficiente produrre la relativa fattura in quanto l’emissione della fattura può prescindere dall’effettiva stipulazione della cessione; perciò il contribuente, a fronte della contestazione dell’Amministrazione circa l’inesistenza di un’ operazione, ha l’onere di dimostrare la effettività del contratto e non può limitari a dar prova dell’emissione della fattura che per la sua formazione unilaterale e la sua inerenza a un rapporto già formato tra le parti, ha natura di atto partecipativo e non di prova documentale». (cfr. Cass., 27 ottobre 2010, n. 21949).
In ultimo, con riferimento alla circostanza che non si era dato corso ad azioni penali nei confronti della responsabile legale della società G.C.. G.M., mette conto rilevare che, proprio in relazione ad operazioni soggettivamente inesistenti usualmente denominate frodi carosello, il giudice della nomofilachia ha chiarito che – attesa l’autonomia tra giudizio penale e giudizio tributario, la diversità di mezzi di prova acquisibili nei due ambiti processuali e di criteri di valutazione del materiale acquisito, per l’operare solo nel giudizio tributario di presunzioni – la verifica della consapevolezza del contribuente che l’operazione si inseriva in un’evasione dell’imposta non può essere condotta in ambito tributario unicamente alla stregua delle risultanze del processo penale. Precisamente, il giudice tributario, pur potendo trarre elementi di convincimento dai fatti materiali accertati nel giudizio penale, è tenuto sempre ad operare una valutazione critica di dette circostanze fattuali in relazione al complessivo materiale probatorio acquisito al giudizio tributario: «nessuna automatica autorità di cosa giudicata può più attribuirsi nel separato giudizio tributario alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati tributari, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente. Pertanto, il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza definitiva in materia di reati tributari, estendendone automaticamente gli effetti con riguardo all’azione accertatrice del singolo ufficio tributario, ma, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 cod. proc. civ.), deve, in ogni caso, verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui esso è destinato ad operare» (cfr. Cass., 24 novembre 2017, n. 28174; Cass., 4 agosto 2020, n. 16649).
Deve, dunque, concludersi per l’esclusione di ogni autorità automatica della sentenza penale irrevocabile sui reati tributari, nel giudizio tributario, in ragione dell’autonomia dei due giudizi che si fonda, per l’appunto, sulla diversità dei mezzi di prova acquisibili e dei criteri di valutazione.
4. Per quanto esposto, il ricorso va accolto; la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.