CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 maggio 2018, n. 10692
Tributi – Imposte sui redditi – Accertamento analitico-induttivo – Redditi di lavoro autonomo – Elementi indiziari – Assenza di rimanenze di prodotti monouso – Omessa tenuta dello schedario pazienti – Percentuale di incidenza dei costi superiore alla media
Rilevato che
M.A. proponeva ricorso per la cassazione della sentenza n. 277/22/11, depositata il 03.10.2011 dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio;
riferiva che, svolgendo attività di medico odontoiatra, l’Agenzia lo aveva prima invitato a rispondere ad un questionario e a produrre la documentazione contabile relativa all’anno d’imposta 2005 e poi, ricevuta ogni debita documentazione, senza altra interlocuzione gli aveva notificato l’avviso di accertamento n. 880010100458/2008, con il quale gli contestava ex artt. 38 e 39 del d.P.R. n. 600 del 1973, sulla base di elementi presuntivi, un maggior reddito non dichiarato di € 77.805,00, con conseguente rideterminazione delle imposte ai fini Irpef ed Irap, ed applicazione delle relative sanzioni.
Impugnato l’atto impositivo dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Roma, questa accoglieva il ricorso con sentenza pronunciata il 22.05.2009, ma la Commissione Regionale adita dall’Ufficio riformava le statuizioni di primo grado, riconoscendo le ragioni dell’appellante con la sentenza ora impugnata.
Avverso questa pronuncia il contribuente propone sei motivi di ricorso, censurando:
con il primo la violazione degli artt. 51 e 16 del d.lgs. n. 546 del 1992, nonché la falsa applicazione dell’art. 327 c.p.c., in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per non aver tenuto conto che la sentenza del giudice di primo grado era stata già notificata all’Ufficio il 29.05.2009, sicché tardiva era l’impugnazione proposta dalla Agenzia dinanzi alla Commissione regionale;
con il secondo motivo la violazione e falsa applicazione dell’art. 54 del d.P.R. n. 917 del 1986, dell’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973, e degli artt. 2717 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 co. 1, n. 3, c.p.c., per aver erroneamente tenuto conto delle rimanenze al fine della determinazione del reddito del professionista, esercente attività di lavoro autonomo;
con il terzo motivo la violazione dell’art. 6, co. 1 e 2 del d.l. n. 357 del 1994, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per aver erroneamente tenuto conto della mancata esibizione dello “schedario dei pazienti”;
con il quarto motivo per omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., per non aver tenuto conto della Circolare n. 32/2005 della Agenzia delle Entrate, nella parte in cui elenca i costi non idonei a determinare una diretta produzione dei ricavi;
con il quinto motivo per omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 co. 1, n. 5, c.p.c., per non aver valutato le precarie condizioni di salute del contribuente ai fini dell’accertamento induttivo del reddito, in subordine deducendo l’incostituzionalità dell’art. 39 cit. in relazione all’art. 53 della Cost.;
con il sesto motivo per violazione degli artt. 5, co. 2, e 10 , co. 1 e 2, della I. n. 212 del 2000, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per la violazione dei rapporti di collaborazione e buona fede tra contribuente e fisco.
Chiedeva pertanto, nell’ordine, la cassazione della sentenza per inammissibilità dell’appello proposto dall’ufficio tardivamente; la cassazione con decisione nel merito; la cassazione con rinvio al giudice di merito per la decisione, la rimessione degli atti del giudizio alla Corte Costituzionale per violazione dell’art. 39 del d.P.R. in relazione all’art. 53 Cost.
Si costituiva l’Agenzia con controricorso, che eccepiva l’inammissibilità, e nel merito l’infondatezza del ricorso, di cui ne chiedeva il rigetto.
La Procura Generale depositava tempestivamente le conclusioni ex art. 380 bis. 1 c.p.c., con cui chiedeva il rigetto del ricorso. Ai sensi della medesima norma il ricorrente depositava tempestivamente memoria.
Considerato che
Il primo motivo è infondato. Con esso il contribuente assume la tardività della impugnazione della sentenza di primo grado, intempestivo rispetto al termine breve. Sostiene che l’atto di impugnazione è stato notificato il 5.07.2010, mentre la sentenza del giudice provinciale era stata consegnata a mezzo di servizio postale il 29.05.2009 in occasione della istanza di sgravio della cartella esattoriale. A parte che il medesimo ricorrente parla di mera comunicazione e non di notifica dell’atto, all’epoca della consegna della sentenza non erano ancora intervenute le modifiche apportate dal d.l. n. 40 del 2010, convertito con modificazioni dalla L. n. 73 del 2010. Ne discende che nel 2009, epoca di spedizione della sentenza unitamente alla istanza di sgravio, per la notificazione erano richiesti gli adempimenti dell’ufficiale giudiziario.
Pertanto la consegna della sentenza invocata dalla difesa del M. non era idonea a far decorrere il termine breve.
Con il secondo motivo ha denunciato la violazione di legge per avere determinato il reddito valorizzando le rimanenze dei prodotti monouso, di cui si sarebbe dovuta trovare traccia se non impiegati integralmente in prestazioni mediche, in tal modo tenendo conto di un elemento estraneo alla determinazione del reddito del lavoratore autonomo, perché utile solo al calcolo del reddito d’impresa. Il motivo è infondato perché non coglie nel segno il ragionamento del giudice regionale.
Nella sentenza sono valorizzati gli elementi raccolti dall’ufficio accertatore, e tra questi i prodotti monouso normalmente utilizzati nello studio dentistico del contribuente, ma essi non assumono rilevanza a titolo di rimanenze nel senso tecnico, secondo i principi di determinazione del reddito d’impresa, ma solo quali elementi di un più ampio quadro indiziario, soppesati dal giudice regionale ai soli fini dell’accertamento induttivo del reddito del M..
Il terzo motivo, con il quale il contribuente contesta che sia stato assunto ad elemento significativo di condotte evasive la mancata tenuta dello schedario dei pazienti, è altrettanto infondato, poiché anche in questo caso la censura alla sentenza non coglie nel segno, avendo elaborato il giudice regionale un ragionamento del tutto distinto, nel quale allo schedario dei pazienti se ne fa cenno solo nel riportare le difese della Amministrazione, non invece nella parte motiva della sentenza.
Il quarto motivo denuncia un vizio motivazionale, perché nella sentenza impugnata non si sarebbe tenuto conto della Circolare n. 32/2005, che elenca tra i costi non idonei a determinare i ricavi i prodotti monouso. Anche questo motivo non coglie nel segno, perché il percorso argomentativo della sentenza non si fonda esclusivamente sui requisiti presi in esame ai fini degli studi di settore. I passaggi della motivazione del giudice regionale evidenziano un giudizio complessivo che mette insieme più dati, offerti dalla difesa dell’Ufficio e ritenuti convincenti. In particolare la sentenza fa riferimento alla mancanza di prodotti monouso come gli aspirasaliva e i guanti monouso, ma anche alla rilevata – e ritenuta ingiustificata – percentuale di incidenza dei costi (66%) sui ricavi, contro una media ben più contenuta. Si tratta di elementi indiziari, che evidentemente la Commissione regionale ha reputato gravi, precisi e concordanti. D’altronde la valorizzazione di elementi di consumo monouso non è affatto inibita al giudice, che non è neppure obbligato a seguire le Circolari della Agenzia, non costituenti fonte normativa, potendo al contrario attribuirne rilevanza probatoria nel contesto di un più complesso quadro induttivo (sulla rilevanza dei guanti monouso ai fini dell’accertamento analitico-lnduttivo cfr. Cass., Sez. 5, sent. n. 14879 del 2008).
Anche il quinto motivo, con il quale il contribuente ha denunciato il vizio motivazionale perché iI giudice non avrebbe tenuto conto delle sue precarie condizioni di salute, è del tutto infondato. A fronte del censurato malgoverno del materiale probatorio da parte del giudice di merito, è pacifico che competa alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione normofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell’art. 2729 c.c. alla fattispecie concreta, poiché se è devoluto al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c., per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità se risulti che, violando i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (cfr. Cass., ord. n. 10973/2017, Cass., sent. n. 1715/2007).
Quanto all’utilizzo degli indizi, mentre la gravità, precisione e concordanza degli stessi permette di acquisire una prova presuntiva che, anche sola, è sufficiente nel processo tributario a sostenere i fatti fiscalmente rilevanti, accertarti dalla amministrazione (Cass., sent. n. 1575/2007), quando manca tale convergenza qualificante è necessario disporre di ulteriori elementi per la costituzione della prova.
La giurisprudenza di legittimità ha tracciato il corretto procedimento logico del giudice di merito nella valutazione degli indizi, affermando che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorché preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perché è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole completamento (tra le più recenti cfr, Cass., sent. n. 12002/2017; Cass., ord. n. 5374/2017). Ciò che dunque rileva, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi, o anche di un solo significativo indizio, a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, salvo l’ampio diritto del contribuente a fornire la prova contraria.
Occorre allora verificare se nella sentenza gravata sia stato fatto buon governo dei principi appena esposti, e la risposta è affermativa. Il giudice regionale ha tenuto conto di tutti gli elementi raccolti dall’Ufficio, ne ha ponderato il peso, ha ritenuto che ciascuno di essi, di per sé certo non significativo, quando valutato unitamente agli altri assume rilevanza ai fini dell’accertamento induttivo del reddito. A fronte di tali evidenze il giudice ha ritenuto non incidente, in senso contrario, lo stato di salute del contribuente, il che non significa che non ne abbia tenuto conto, ma solo che nel contesto globale degli elementi disponibili esso non incidesse nella valutazione del caso.
Pretendere un diverso risultato imporrebbe una rivalutazione dei medesimi elementi, che tuttavia è attività accertativa inibita in sede di legittimità, né può ritenersi che l’applicazione dei criteri di valutazione delle prove presuntive determini l’emersione di questioni di legittimità costituzionale dell’art. 39 cit.
Inammissibile infine è il sesto motivo di ricorso, che denunciando la violazione dei rapporti di collaborazione e buona fede tra contribuente e fisco, in concreto riprende i medesimi argomenti e le medesime difese già sostenute nei precedenti motivi di ricorso, tentando di ricondurre nell’alveo della violazione di legge questioni correttamente riconducibili – e già esaminate – nel vizio motivazionale.
Considerato che
Il ricorso va pertanto rigettato, con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione delle spese processuali, nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna M.A. alla rifusione delle spese di causa, che si liquidano in favore della Agenzia delle Entrate in € 3.500,00, oltre spese prenotate a debito.
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