CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 ottobre 2019, n. 24877
Comportamento antisindacale – Rifiuto di operare la trattenuta della quota sindacale sulla retribuzione di un dipendente – Illegittimità
Premesso
che con sentenza n. 378/2014, depositata l’8 aprile 2014, la Corte di appello di Torino ha confermato, salvo che nel regolamento delle spese, la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale della stessa sede, respinta l’opposizione della datrice di lavoro avverso il decreto ex art. 28 I. n. 300/1970, ha ritenuto antisindacale il comportamento tenuto da F.P.T. S.p.A. nei confronti della Unione Sindacale di Base – Lavoro Privato (USB) e consistito nel rifiuto di operare la trattenuta della quota sindacale sulla retribuzione di un dipendente iscritto a tale organizzazione;
– che avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione F.P.T. S.p.A. e F.G.A. S.p.A., quale successore a titolo particolare ex art. 111 cod. proc. civ., affidandosi a quattro motivi, cui ha resistito con controricorso la USB;
Rilevato
che con il primo motivo, deducendo la violazione degli artt. 28 I. n. 300/1970, 2697 cod. civ. e 132 cod. proc. civ., le ricorrenti censurano la sentenza per avere la Corte ritenuto il carattere “nazionale” dell’organizzazione sindacale USB, conseguentemente escludendo che essa fosse carente di legittimazione a proporre il ricorso per condotta antisindacale, limitandosi a richiamare un precedente di legittimità, se pure relativo alla USB, che aveva avallato una propria precedente decisione, e rendendo, là dove aveva fatto riferimento alle produzioni del sindacato, una motivazione apparente, che non teneva conto del reale contenuto dei documenti prodotti;
– che con il secondo, deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 ss. in riferimento all’art. 39, comma primo, Cost., nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 1260 ss. cod. civ., le ricorrenti censurano la sentenza per avere la Corte di appello inquadrato il negozio controverso nella fattispecie legale della cessione di credito anziché nella fattispecie della delegazione di pagamento;
– che con il terzo, deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 1260 cod. civ., in relazione agli artt. 1 e 5 del T.U. n. 180/1950, nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, in relazione agli artt. 52, 1 e 5 del T.U. citato, le ricorrenti censurano la sentenza impugnata là dove ha ritenuto che l’art. 52 non conterrebbe limitazioni del novero dei cessionari, che, pertanto, potrebbero essere anche le organizzazioni sindacali e cioè soggetti che non erogano prestiti;
– che con il quarto, deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 1260 cod. civ. in relazione agli artt. 1196 e 1175 cod. civ., le ricorrenti censurano la sentenza impugnata per non avere considerato che il debitore di una obbligazione pecuniaria sorta unitaria, quale la retribuzione mensile, non può essere tenuto a sopportare i costi derivanti dalla cessione parziale di tale obbligazione, ciò comportando uno sdoppiamento degli atti di adempimento e una maggiore gravosità dello stesso;
Osservato
che il primo motivo di ricorso non può trovare accoglimento, posto che la sentenza non si limita a richiamare precedenti giurisprudenziali (propri e di questa Corte di legittimità), e di conseguenza argomenti e valutazioni espressi in precedenti controversie, ma aggiunge (cfr. p. 7) un passaggio motivazionale specifico in cui chiarisce che quelle argomentazioni e valutazioni trovano conferma nella documentazione prodotta in giudizio dal sindacato: ciò che esclude che la sentenza impugnata offra sul punto una motivazione “apparente”, fermo restando che il vizio di cui all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ. può essere dedotto, con riferimento all’art. 2697 cod. civ., unicamente in caso di erronea applicazione delle regole che presiedono al riparto dell’onere della prova fra le parti e non per censurare – come con il motivo in esame – gli esiti della valutazione delle risultanze istruttorie;
– che egualmente infondati risultano il secondo, il terzo e il quarto motivo, essendosi la Corte territoriale uniformata, per ciascuna delle questioni che con essi vengono poste, alla costante giurisprudenza di legittimità;
– che devono in proposito richiamarsi le seguenti pronunce:
Sez. U n. 28269/2005, la quale ha stabilito che “il referendum del 1995, abrogativo del secondo comma dell’art. 26 dello Statuto dei lavoratori, e il susseguente D.P.R. n. 313 del 1995 non hanno determinato un divieto di riscossione di quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro, essendo soltanto venuto meno il relativo obbligo. Pertanto, ben possono i lavoratori, nell’esercizio della propria autonomia privata ed attraverso lo strumento della cessione del credito in favore del sindacato – cessione che non richiede, in via generale, il consenso del debitore -, richiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi sindacali da accreditare al sindacato stesso; qualora il datore di lavoro affermi che la cessione comporti in concreto, a suo carico, un nuovo onere aggiuntivo insostenibile in rapporto alla sua organizzazione aziendale e perciò inammissibile ex artt. 1374 e 1375 cod. civ., deve provarne l’esistenza. L’eccessiva gravosità della prestazione, in ogni caso, non incide sulla validità e l’efficacia del contratto di cessione del credito, ma può giustificare l’inadempimento del debitore ceduto, finché il creditore non collabori a modificare le modalità della prestazione in modo da realizzare un equo contemperamento degli interessi. Il rifiuto del datore di lavoro di effettuare tali versamenti, qualora sia ingiustificato, configura un inadempimento che, oltre a rilevare sul piano civilistico, costituisce anche condotta antisindacale, in quanto pregiudica sia i diritti individuali dei lavoratori di scegliere liberamente il sindacato al quale aderire, sia il diritto del sindacato stesso di acquisire dagli aderenti i mezzi di finanziamento necessari allo svolgimento della propria attività” (conformi, fra le molte, n. 13250/2006; n. 16186/2006; n. 16383/2006; n. 19275/2008; n. 21368/2008);
Cass. n. 13886/2012, la quale, nel ribadire che il referendum del 1995 abrogativo dell’art. 26, secondo comma, l. n. 300/1970, ed il susseguente D.P.R. n. 313 del 1995, non hanno determinato un divieto di riscossione di quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro, essendo soltanto venuto meno il relativo obbligo legale, sicché i lavoratori, nell’esercizio della autonomia privata e mediante la cessione del credito in favore del sindacato, possono chiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi da accreditare al sindacato cui aderiscono, ha precisato che “il datore di lavoro, il quale affermi che la cessione comporta in concreto, a suo carico, un onere aggiuntivo insostenibile in rapporto all’organizzazione aziendale ha l’onere di provare, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., che la gravosità della prestazione è tale da giustificare il suo inadempimento, dovendosi escludere che l’insostenibilità dell’onere possa risultare semplicemente dall’elevato numero di dipendenti dell’azienda, dovendosi viceversa operare una valutazione di proporzionalità tra la gravosità dell’onere e l’entità dell’organizzazione aziendale, tenuto conto che un’impresa con un elevato numero di dipendenti ha, di norma, una struttura amministrativa corrispondente alla sua dimensione. (Principio affermato ai sensi dell’art. 360 bis, n. 1, cod. proc. civ.)”;
Cass. n. 2314/2012, per la quale “in tema di riscossione di quote associative sindacali dei dipendenti pubblici e privati a mezzo di trattenuta ad opera del datore di lavoro, l’art. 52 del D.P.R. 5 gennaio 1950 n. 180, come modificato dall’art. 13 bis del d.l. 14 marzo 2005 n. 35, convertito dalla legge 14 maggio 2005 n. 80, nel disciplinare tutte le cessioni di credito da parte dei lavoratori dipendenti, non prevede limitazioni al novero dei cessionari, in ciò differenziandosi da quanto stabilito dall’art. 5 del medesimo D.P.R., per le sole ipotesi di cessioni collegate all’erogazione di prestiti. Ne consegue che è legittima la suddetta trattenuta del datore di lavoro, attuativa della cessione del credito in favore delle associazioni sindacali, atteso, altresì, che una differente interpretazione sarebbe incoerente con la finalità legislativa antiusura posta a garanzia del lavoratore che, altrimenti, subirebbe un’irragionevole restrizione della sua autonomia e libertà sindacale” (conformi n. 20723/2013; n. 18548/2015);
Ritenuto
conclusivamente che il ricorso deve essere respinto;
– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo;
– che infine, rilevato che dagli atti il processo risulta esente, non si applica l’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
Respinge il ricorso; condanna le ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Rilevato che dagli atti il processo risulta esente, non si applica l’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002.
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